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Primo Dopoguerra

Riassunto sul panorama mondiale alla conlcusione della Prima Grande Guerra

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    Riassunto sul panorama mondiale alla conlcusione della Prima Grande Guerra


    Il dopoguerra nelle democrazie occidentali
    La Gran Bretagna
    La Gran Bretagna usciva dalla guerra con perdite umane ed economiche inferiori a quelle degli altri paesi europei, ciò è soprattutto dovuto al fatto che non si combatté mai sul territorio inglese, ma la situazione era in ogni caso critica, in quanto da quel momento iniziò il lento declino della potenza britannica.
    Già nel corso dell'800 gli USA ne avevano intaccato il predominio economico e politico. La GB si era momentaneamente liberata della sua grande rivale europea, la Germania, ma le esportazioni si affermavano con difficoltà crescenti: i manufatti inglesi avevano perso competitività sui mercati internazionali.
    Questa situazione fu aggravata dalla politica economica attuata dal governo di Londra nel dopoguerra, che ebbe come obiettivo il pareggio del bilancio, la riduzione dell'inflazione e la difesa del valore della sterlina. Di conseguenza fine si attuò una politica deflazionistica, riducendo la quantità di moneta in circolazione e aumentando le imposte, al fine di contenere i consumi. La sterlina fu rivalutata a stabilizzata ad un livello di parità con il dollaro, cosa che consentì ala sterlina di essere moneta i riserva nel sistema monetario internazionale. La principale conseguenza fu un aumento della disoccupazione.


    Tali difficoltà economiche provocarono tensioni sociali e crescita dei sindacati, situazione che precipitò nel 1926 quando un gruppo i minatori (settore in forte crisi) provocò uno sciopero nazionale che durò 9 giorni.
    Da quel momento in poi, però, la forza sindacale diminuì e si avviò la tendenza ad una contrattazione preventiva tra imprenditori e sindacati dei lavoratori, per evitare nuovi scioperi.
    Nella vita politica, vi fu un declino dei liberali e l'ascesa di conservatori e laburisti, che fondarono il bipartitismo. Il governo laburista (1924-1935) tentò di reagire alle difficoltà economiche con il contenimento della spesa pubblica, diminuendo gli stipendi e i sussidi. Ciò provocò il dissenso di alcuni laburisti che abbandonarono il governo.
    In seguito, la sterlina fu svalutata per favorire le esportazioni e si realizzò per la prima volta l'intervento dello stato nell'economia. (il "welfare state" è stato creato dai laburisti)

    La Francia
    Nel dopoguerra anche la Francia dovette sopportare un grosso sforzo per ricostruire il paese. Il governo diede il via ad un progetto di crescita economica che prevedeva, per tutti gli anni '20 un aumento e una modernizzazione della produzione. Questo sviluppo fu agevolato da una leggera svalutazione del franco (favorite le esportazioni) e dalla debolezza sindacale.
    Questa fase però terminò con la crisi economica del '29: la produzione industriale diminuì, numerose imprese fallirono, aumentò la disoccupazione, gli scioperi e i conflitti sociali.
    In questa crisi, però, le organizzazioni fasciste non riuscirono mai a assumere il potere come era accaduto in Italia o in Germania.
    Alle elezioni del 1936 le sinistre si presentarono unite in un Fronte popolare, che ottenne un grande successo. Il loro programma era soprattutto riformista e antifascista, con promesse di aumenti salariali, opera pubbliche, conquiste sindacali.
    Tuttavia in breve tempo si aprirono contrasti all'interno del partito, che fu costretto a sciogliersi dopo pochi mesi di legislatura. Ciò portò al ritorno di governi instabili.

    U.S.A.
    Nel 1929 gli USA furono colpiti da una devastante crisi economica. Per uscirne, il presidente democratico Franklin Delano Roosevelt (1933) inaugurò la politica del New Deal, che non riguardava solo misure di politica economica ma anche la creazione di un nuovo clima culturale e civile.
    Il programma prevedeva l'introduzione, per la prima volta nel sistema capitalistico statunitense, dell'intervento dello stato nella vita economica attraverso la spesa pubblica, anche a costo di ricorrere al deficit spendine.
    Il provvedimento più importante fu la legge per il risanamento industriale, con la quale si stanziavano notevoli fondi per lavori pubblici e misure per limitare la concorrenza, sostenere i prezzi e garantire un salario minimo.
    Ciò costituisce il "primo New Deal", una fase che diede risultati incerti e mise in discussione la credibilità del presidente.
    Essendo prossima la scadenza del suo mandato, Roosevelt applicò il "secondo New Deal", una serie i misure finalizzate alla sicurezza sociale, alla ricerca del consenso.

    mportante fu il rapporto attivo con i sindacati, considerati ora come alleati e non più come nemici. Per sostenere le enormi spese pubbliche, fu aumentato il prelievo fiscale a carico dei ceti più ricchi e si lasciò svalutare il dollaro, per favorire le esportazioni.
    I risultati del New Deal furono inferiori alle attese, infatti negli anni '30 gli Usa non avevano ancora recuperato il livello di ricchezza di prima della crisi. Ciò nonostante, quando Roosevelt si ricandidò alla presidenza per due volte gli elettori confermarono il loro consenso.


    Primo dopoguerra - Italia

    Una ricerca sulla situazione dell'Italia nel primo dopoguerra, prima dell'avvento di Mussolini.


    L'Italia nel dopoguerra
    In Italia, il dopoguerra fu caratterizzato da una profonda crisi che ebbe decisive conseguenze sulla vita futura dello Stato. Nel conflitto il Paese aveva subito pesanti perdite umane (più di 600.000 morti) e gravi danni materiali. La situazione dell’economia era allarmante: la lira si era fortemente svalutata, il costo della vita era aumentato in modo vertiginoso e l’apparato produttivo non era in grado di assorbire la manodopera di nuovo a disposizione con il ritorno dei soldati dal fronte. Vi era poi il grosso problema della riconversione dell’industria bellica (l’unica che aveva conosciuto vantaggi nel periodo 1915 – 1918) a produzioni adeguate a tempi di pace. In questa difficile situazione si inserivano anche forti tensioni di tipo sociale: il periodo 1919 – 1920 (il cosiddetto biennio rosso) fu infatti caratterizzato da una lunga serie di agitazioni e scioperi. I lavoratori dell’industria (coordinati dalle organizzazioni sindacali), che si erano mobilitati chiedendo un miglioramento globale delle loro condizioni, ottennero importanti conquiste, come la diminuzione dell’orario settimanale a paghe invariate. Entrarono in agitazione anche i contadini, che chiedevano le terre promesse dal governo durante la guerra e che, nel Meridione, usarono come strumento di lotta l’occupazione delle terre dei latifondi. Il momento culminante di questo periodo si ebbe però senza dubbio nel settembre 1920, quando in tutta Italia gli operai misero in atto l’occupazione delle fabbriche. Era questa la risposta dei sindacati alla “serrata” imposta dagli industriali di fronte alle rivendicazioni salariali e a uno sciopero indetto dai lavoratori e, nel suo complesso, un vero e proprio atto di sfida nei confronti del padronato.

    L’agitazione, grazie anche alla posizione tollerante assunta da Giolitti, ritornato in quel periodo alla guida del governo, si concluse con un lieve aumento salariale per gli operai ma con una loro sostanziale sconfitta. La vicenda finì, infatti, per indebolirne il movimento: da un lato perché era emersa l’impossibilità, da parte dei lavoratori, di dar vita a una rivoluzione sul modello sovietico; dall’altro perché gli industriali avevano assunto un atteggiamento di chiusura che col passare del tempo si sarebbe fatto sempre più rigido. D’altro canto anche i ceti medi (artigiani, commercianti, impiegati…) mostravano chiari segni di inquietudine: preoccupati dalle agitazioni dei “rossi”, impoveriti dal crescere dell’inflazione (che ne aveva eroso i risparmi), costretti, dopo aver occupato posti di rilievo nell’esercito, al grigiore della vita quotidiana, avevano accumulato una forte dose di frustrazione e rancore verso lo Stato. Essi divennero pertanto una facile esca per le proteste dei nazionalisti, rivolte in particolare contro la cosiddetta vittoria mutilata, cioè i trattati di pace che avevano negato all’Italia la Dalmazia e Fiume. Queste proteste erano culminate nell’occupazione della stessa Fiume (settembre 1919) da parte di volontari guidati da Gabriele d’annunzio, scrittore e uomo politico nazionalista che si era distinto anche come uno dei maggiori protagonisti dell’interventismo. Con il Trattato di Rapallo (12 settembre 1920), firmato da Giolitti con la Iugoslavia, Fiume fu poi dichiarata “città libera”, e l’esercito italiano allontanò con poca fatica le truppe dannunziane. Si era trattato tuttavia di un segnale allarmante per il governo, dimostratosi incapace di rispondere in modo adeguato a un autentico atto di forza come quello compiuto da D’annunzio.
    Nel difficile contesto del dopoguerra italiano anche il sistema politico mostrò segni di fragilità. Ciò che emerse in modo evidente fu soprattutto l’inadeguatezza della vecchia classe dirigente di stampo liberale ad affrontare la nuova situazione, determinata dalla progressiva crescita dei partiti di massa. Fra questi si pose subito in evidenza un nuovo organismo, il Partito popolare italiano, nato nel 1919 e guidato da don Luigi Sturzo. I popolari si proponevano come partito di centro, di ispirazione cattolica, moderato ma con importanti agganci con il sindacalismo “bianco” diffuso soprattutto nelle campagne. Essi si ponevano dunque come alternativa agli stessi liberali oltre che, naturalmente, ai socialisti. Questi ultimi, che pure avevano conosciuto una forte crescita di consensi, erano indeboliti dal contrasto interno fra la corrente riformista (moderata) e i massimalisti, che continuavano invece a sostenere l’obiettivo della rivoluzione. Questo contrasto avrebbe portato, nel 1921, alla scissione dell’ala di estrema sinistra e alla nascita del Partito comunista italiano. La più chiara testimonianza dei cambiamenti in atto nella vita politica italiana fu comunque data dalle elezioni del 1919, svoltesi secondo il sistema “proporzionale”. I socialisti ottennero il 32,4% dei voti e i popolari il 20,6% complessivamente più della metà dei seggi della Camera dei Deputati. Ciò significava una difficoltà sempre maggior nel creare governi solidi. L’unica coalizione possibile era infatti quella fra i liberali e i popolari, poiché i socialisti rifiutavano qualsiasi forma di collaborazione con i partiti “borghesi”. In queste stesse elezioni comparve per la prima volta un’organizzazione, i Fasci italiani di combattimento, fondati da Benito Mussolini nell’aprile del 1919, che assunse ben presto caratteristiche fortemente antidemocratiche.
     
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