Claudio Baglioni Forum - Un mondo in musica

parafrasi e poesie di-G.CARDUCCI

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    Gosue' Carducci




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    Nato nel 1835, Giosuè Carducci trascorse infanzia e adolescenza a Bolgheri, frazione di Castagneto - oggi Castagneto Carducci (Livorno).
    Suo padre esercitava la professione di medico condotto.
    La sua permanenza nella Maremma termina nel 1849, in quello stesso anno infatti si trasferì a Firenze.
    A Firenze Giosuè compì gli studi ginnasiali, entrando poi nella Scuola Normale Superiore di Pisa, dove si laureò in filosofia e filologia. Costituì, insieme con tre compagni di studi il gruppo degli “Amici pedanti”, impegnato nella difesa del classicismo contro le tendenze letterarie dominanti: il manzonismo nella prosa e il romanticismo sentimentale di Prati e Aleardi nella lirica.
    L’insegnamento e l’attivita’ critica
    Gli anni 1857-58 furono turbati da due gravi lutti: nel novembre 1857 morì il fratello Dante, non è chiaro se per suicidio o perché ucciso involontariamente durante una lite dal padre, che morì a sua volta pochi mesi dopo.
    Nel 1859 sposa Elvira Menicucci. Dal 1871 diventerà l’amante di Carolina Cristofori Piva, la Lidia delle "Odi barbare".
    Nel 1860 venne chiamato dal ministro dell’Istruzione del governo piemontese a ricoprire la cattedra di eloquenza ( cioè di letteratura italiana) all’Università di Bologna; ebbe così inizio un lunghissimo periodo di insegnamento.
    Da repubblicano a monarchico
    Il decennio 1860-70 è decisivo per la formazione ideologica e politica di Carducci: da un lato le vaste letture, dall’altro l’iscrizione alla Massoneria e la delusione provocata dalla mediocrità del governo postunitario, determinarono un atteggiamento filorepubblicano e giacobino.
    Negli anni successivi, con il mutare della realtà storica italiana, a Carducci la monarchia finì con l’apparire la migliore garante dello spirito laico del Risorgimento e di un progresso sociale non sovversivo, di contro al diffondersi del pensiero socialista, cui guardò con diffidenza perché incompatibile con i suoi ideali nazionalistici.
    La ritrovata fiducia nella monarchia, testimoniata da una famosa ode dedicata alla Regina Margherita per celebrarne l’ascesa al trono (1878), gli valse nel 1890 la nomina a senatore del Regno, consacrazione definitiva della sua nuova veste di “poeta vate della nuova Italia”.
    Nel 1906 fu insignito - primo italiano - del Premio Nobel per la letteratura.
    Morì a Bologna nel 1907.

    LE OPERE, I TEMI E LO STILE
    Giambi ed epodi
    Si tratta di una raccolta composta da un Prologo e 30 poesie nelle quali è costante l’atteggiamento polemico nei confronti della realtà storica e sociale contemporanea.
    L’impegno civile domina i testi aspramente polemici di Giambi ed epodi, raro esempio in Italia di poesia direttamente ispirata alla storia e persino alla cronaca contemporanea. I due sinonimi accostati nel titolo alludono ai modelli del libro (nomi di due tipi diversi di versi), cioè i Giambi del poeta greco Archiloco e gli Epodi di Orazio, dei quali Carducci riprende il tono satirico e, anche se in modo molto elastico, la forma metrica.
    Carducci vuole riaffermare i valori che il Risorgimento ha deluso; l’ispirazione viene dalla reazione contro la corruzione e la meschinità di certi ambienti mondani e politici.
    Lo sdegno di Carducci è sollecitato da varie situazioni e avvenimenti dell’Italia di fine secolo, così diversa da quella vagheggiata dagli eroi del Risorgimento:
    - lo strapotere temporale del papa;
    - la disastrosa guerra del 1866;
    - l’ambiguità e la debolezza del governo italiano di fronte alla questione romana.
    I bersagli della polemica carducciana sono anche lo spirito affaristico, la corruzione e la meschinità della borghesia italiana.
    Il rifiuto del presente implica certo il ricordo di un passato migliore (si vedano per esempio i testi celebrativi di eventi storici memorabili): vedi “Comune rustico” esaltazione di una realtà di valori che non ci sono più.
    Per il quinto anniversario della battaglia di Mentana (Giambi ed Epodi)
    Si tratta di un componimento d’anniversario di contenuto ed ispirazione politica: il 3 novembre 1867 a Mentana Garibaldi con i suoi volontari fu fermato nella marcia verso Roma dalle truppe francesi mandate da Napoleone III per difendere lo Stato Pontificio. Sul valore dei garibaldini ebbero la meglio i nuovi fucili a retrocarica, gli chassepots, dei francesi. Dopo la sconfitta Garibaldi fu arrestato per la terza volta.
    Metro: sette strofe formate ciascuna da otto settenari.
    Rime nuove
    La raccolta comprende 105 liriche, ripartite in nove sezioni, ed è il più ricco e vario dei libri di poesia carducciani. Questa raccolta ha già abbandonato il linguaggio giambico per una lirica di respiro più disteso e pacato. E’ definita poesia del cuore perché parla dei suoi sentimenti e dolori.
    La poesia “barbara“ carducciana
    La poesia “barbara” si inserisce nella direzione classicistica: nelle Odi barbare Carducci recupera dei classici anche la metrica, cercando di trasferirla alla lingua italiana.
    Ma il calco non può essere perfetto, poiché, come è noto, l’Italiano è privo della opposizione fra sillabe lunghe e brevi che costituisce invece il fondamento linguistico e metrico del greco e del latino: lo stesso Carducci ammette che le sue poesie sembrerebbero sicuramente “barbare” agli orecchi e al giudizio dei Greci e dei Romani.
    Queste poesie sono dunque “composte e armonizzate di versi e di accenti italiani”: Carducci adotta infatti versi della nostra tradizione, i quali, com’è noto, si fondano sul criterio dell’isosillabismo (un dato verso ha sempre lo stesso numero di sillabe) e dell’isocronismo degli accenti (un dato verso ha sempre gli accenti sopra determinate sillabe).
    Carducci chiama dunque queste sue liriche “Odi” perché composte in metri che ricalcano quelli greci e latini, e “barbare” perché tali sembrerebbero agli antichi.
    La conseguenza di quest’insolito assetto formale è la dissoluzione del verso e della rima e il forte rilievo attribuito alla parola singola.
    I componimenti si dividono in:
    - componimenti civili, dove è esaltata la Roma antica.
    - componimenti personali, basate sul tema della fugacità del tempo e quello dell’opposizione morte-vita, espressa metaforicamente secondo la tecnica del contrasto (usata per esempio in “pianto antico”).
    Un esempio concreto di trasposizione “barbara”
    Quando il verso classico ha un numero di sillabe superiore a undici (quante ne conta il verso italiano più lungo, l’endecasillabo), Carducci ricorre ovviamente alla riunione di più versi italiani.






    San Martino

    La nebbia a gl'irti colli
    piovigginando sale,
    e sotto il maestrale
    urla e biancheggia il mar;

    ma per le vie del borgo
    dal ribollir de' tini
    va l'aspro odor de i vini
    l'anime a rallegrar.

    Gira su' ceppi accesi
    lo spiedo scoppiettando:
    sta il cacciator fischiando
    sull'uscio a rimirar

    tra le rossastre nubi
    stormi d'uccelli neri,
    com'esuli pensieri,
    nel vespero migrar.


    L'atmosfera piena di brio del borgo è dovuta al giorno di San Martino(cioè l'11 novembre) in un paesetto della Maremma (Bolgheri o Castagneto), poiche' per le vie si diffonde quell'odore aspro di vino e di carne che viene cotta sullo spiedo, ma i pensieri dell'uomo sfuggono a quest'allegria e volano lontani proprio come gli uccelli.
    Questo giorno risulta di una certa importanza per gli agricoltori perchè segna la fine del lavoro nei campi e l'inizio del travaso del vino dai tini nelle botti. All'allegria del borgo si contrappone quella tristezza del paesaggio autunnale in quanto avvolto dalla nebbia.


    PARAFRASI
    La nebbia, sciogliendosi in una leggera pioggerella, risale per le colline rese quasi ispide dalle piante ormai prive di foglie e, spinto dal ventate fredde , il mare rumoreggia frangendosi sulla scogliera, con onde spumose colorate di bianco. Ma per le vie del piccolo paesello c si propaga, dai tini dove fermenta il mosto, l’odore aspro del vino nuovo che porta gioia ai cuori.Nel frattempo sui ceppi bruciati nel focolare scoppiettano quelle gocce di grasso cadenti dallo spiedo su cui cuoce la cacciagione; e il cacciatore se ne sta sull'uscio a guardare stormi di uccelli che, messi a confronto con le nubi rossastre del tramonto, sembrano neri, come quei pensieri che si vorrebbe mandar via lontano.


    Schema delle rime:ABBC
    La lirica è composta da quattro quartine formate da settenari, i primi tre di ogni strofa risultano piani, l'ultimo è tronco; in ogni quartina il primo verso è esente dalla rima, il secondo e il terzo rimano tra loro; il quarto verso è in rima con gli ultimi versi di ogni strofa.

    I particolari suoni di / ebbia/, / iggi /, / eggia / nella prima strofa di San Martino diventano onomatopeici e ci fanno sentire l'acquerugiola che lievemente scende sul paesaggio e ci fanno vedere il mare che rumoreggia sulla costa.
    L'onomatopea domina la terza strofa: i suoni / ppi/, /cce/, /spied/, /scoppie/, / ttando/, /fischia/, /uscio/ servono a evidenziare quei rumori causati dal focolare e lo zufolare soprappensiero del cacciatore.
    Nella lirica vengono usate molte figure retoriche quali la prosopopea,nel 4^ verso con l'umanizzazione del mare,l’iperbato nel 6^-7^ verso in cui viene invertito l’ordine,,la paronomasia che riproduce un uguale suono e attua una funzione onomatopeica , infine la similitudine negli ultimi tre versi :secondo alcuni il poeta esprimerebbe il desiderio di vedere volare via, lontano, come gli uccelli, i suoi tetri pensieri; altri, invece, propongono di leggere "esuli" nel senso di "sperduti, che vagano lontano e si perdono nell'infinito".



    Edited by Lussy60 - 26/3/2013, 13:51
     
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    Parafrasi "Sogno d'Estate", di Giosué Carducci




    Il Carducci, mente stava leggendo il canto XVI dell’Iliade di Omero, si abbandonò al sonno e ritrovò immagini care di anni lontani. L’afa del primo pomeriggio fece addormentare il poeta, mentre leggeva l’Iliade in cui si sente il fragore delle battaglie sotto le mura di *****; il capo gli si chinò sulla riva dello Scafandro in lotta con Achille, ma il suo sogno corse sul tirreno, nella Maremma, tra Bolgheri e Castagneto dove visse la fanciullezza. Vide in sogno le cose serene dell’infanzia. Sparirono i libri e la stanza rumorosa per il traffico dei carri ruzzolanti sul selciato si allargò (per accogliere le immagini del tempo lontano); apparvero intorno al poeta le colline della sua terra, gli amati aspri colli che aprile riempiva nuovamente di fiori. Una polla d’acqua scendeva attraverso la spiaggia con un borbottio piacevolmente freddo a poco a poco trasformandosi in ruscello, su di esso passeggiava la madre del poeta ancora nel fiore degli anni, tenendo per mano un fanciullo sulle cui bianche spalle brillavano riccioli d’oro. Il bambino andava superbo di essere per mano alla sua mamma, orgoglioso dell’affetto materno e commosso dal canto trionfante che la natura madre spiegava a gran voce. Infatti le campane annunziavano dal castello di Bolgheri la risurrezione di Cristo per l’indomani, giorno di Pasqua e dovunque si sentiva l’alito vitale della primavera ed i peschi ed i meli erano tutti fioriti di bianco e di rosso e l’erba sorrideva con i suoi fiori gialli e turchini ed il trifoglio rosso rivestiva i poggi dei prati e le colline si adornavano di tenere ginestre gialle come l’oro e dal mare veniva una brezza leggera che faceva muovere i fiori ed i profumi; nel mare ondeggiavano lentamente quattro vele bianche ed il sole avvolgeva in un unico sfolgorio il mare, la terra ed il cielo. La giovane madre del poeta guardava serena nel sole, il poeta guardava la madre ed il fratello pensieroso, sospeso tra sogno e realtà. Guadava assorto il fratello, morto nel 1857 e sepolto in Val d’Arno, la madre che riposava nel solitario e maestoso cimitero della città di Bologna, pensando se ancora essi vivessero o ritornassero, pietosi della sua pena, dall’Oltretomba, ove tra gli spiriti dei famigliari che li avevano preceduti, rivivevano gli anni della loro passata esistenza. Svanirono ad un tratto, con il sonno, anche le immagini care della madre e del fratello. Lauretta riempiva con il canto le stanze, Bice era intenta al ricamo. Era stato dolce il sogno, ma era dolce anche la realtà del presente.






    Parafrasi "Pianto antico", Giosuè Carducci



    L'albero a cui tendevi
    La pargoletta mano,
    Il verde melograno
    Da' bei vermigli fior,

    Nel muto orto solingo
    Rinverdì tutto or ora
    E giugno lo ristora
    Di luce e di calor.

    Tu fior de la mia pianta
    Percossa e inaridita,
    Tu de l'inutil vita
    Estremo unico fior,

    Sei ne la terra fredda,
    Sei ne la terra negra;
    Né il sol più ti rallegra
    Né ti risveglia amor.

    L'albero verso il quale orientavi la tua manina,
    il melograno dalle verdi foglie
    e dai rossi fiori,
    nel silenzioso e solitario orto,
    è nuovamente germogliato
    e l'estate lo matura
    con il suo calore e la sua luce.
    Tu figlio di questo povero corpo,
    invecchiato e sciupato dal tempo,
    tu unico dono di questa mia vita inutile,
    giaci nella fredda terra di un camposanto,
    non potrai più vedere la luce del sole,
    ne godere dell'amore.



    Parafrasi "Nella piazza di San Petronio", di Giosué Carducci



    sorge nel chiaro inverno la fosca bologna ricca di torri
    e il colle(colle della guardia)ride,al di sopra,ricoperto di neve.
    è l'ora nella quale il sole sta per tramontare e saluta
    le torri e la chiesa,san petronio,tuo;
    le torri i cui merli da tanto tempo la sfiorano
    e del solenne tempio la cima solitaria.
    il cielo brilla di un fulgore adamntino(simili a quelli del diamante)
    e l'aria come un velo d'argento giace
    sulla piazza,sfumando lievemente attorno agli edifici
    che tirò su il braccio armato agli avi.
    selle alte cime s'insinua il sole e guarda
    con un sorriso languido come una viola,
    che nella scura pietra nel fosco rossiccio mattone
    pare che risvegli l'anima(dormente)da secoli
    e un nostalgico desiderio per l'aria gelida sveglia
    di rossi tramonti di maggio,di calde e profumate sere,
    quando le donne gentili danzavano in piazza
    e con i re vinti tornavano i consoli.
    la musa ride fuggente al verso nel quale palpita
    il desiderio,ormai vano,della bellezza antica.

    se poi ti servono figure retoriche ecc fammi sapere
     
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    Davanti San Guido di Giosuè Carducci-parafrasi

    parafrasi


    Il poeta Giosuè Carducci sta viaggiando sulla linea Roma – Pisa in treno ed immagina che i cipressi che fiancheggiano la ferrovia dove lui giocava a Bolgheri, gli si facciano incontro e lo invitino a fermarsi. I cipressi alti e snelli dell’oratorio di san Guido a Bolgheri, formando un viale, sembrano al poeta, che li guarda dal treno in corsa, giovani giganti che corrono verso di lui e lo guardano. Lo riconoscono e gli chiedono, chinandosi con la cima piegata dal vento, di fermarsi perché la sera è fresca e lui conosce la strada. Lo invitano a fermarsi presso i loro alberi profumati, dove dal mare spira il vento impetuoso di nord-ovest e gli dicono che non conservano rancore per le sue “battaglie a colpi di sassi” perché in fondo non facevano male. Portano ancora nidi di usignoli e si lamentano che lui si allontani così in fretta. I passeri intersecano il cielo con voli. Il poeta risponde ai cipressi, sinceri amici dell’infanzia, che egli giudica migliore dell’età adulta, che volentieri si fermerebbe, ma chiede loro di lasciarlo andare perché ormai è un uomo maturo e ironicamente dice che, non per vantarsi, è diventato un uomo importante che capisce il greco ed il latino, scrive, ha tanti pregi e capacità e soprattutto non è più un ragazzo vivace ed impertinente e non tira più sassate alle piante (ma casomai invettive e battute polemiche agli uomini del suo tempo). Attraverso le cime che oscillano mosse dal vento, come chi scuote la testa per esprimere un dubbio o dire di no, passa, come un’onda, un brontolio ed il sole, che sta tramontando con un sorriso pietoso (cioè un riso un poco ironico e malizioso, ma senza cattiveria), splende rossastro in mezzo al verde cupo della vegetazione. Il poeta capisce che i cipressi ed il sole hanno un sentimento di pietà per lui ed improvvisamente il mormorare delle piante si trasforma in parole distinte. I cipressi hanno capito che non è altro che un uomo tormentato dagli affanni e dalle delusioni della vita. Il vento, sfiorando le case, porta via con sé l’eco dei sospiri degli uomini e conosce come dentro al petto del poeta brucino tormenti e passioni che egli non sa né può placare. Il poeta potrebbe raccontare alle querce ed ai cipressi la sua pena personale ed il dolore universale degli uomini in quel paesaggio sole sul mare, calmo ed azzurro, scende sorridente il sole. Il tramonto è pieno do voli e di stridi di uccelli, di notte si sentiranno i canti melodiosi degli usignoli. Lo invitano a rimanere ed a non seguire le idee e le passioni vane che sono colpevoli dell’infelicità dell’uomo perché lo staccano dalla semplicità della vita naturale. Le passioni (i pensieri agitati, torbidi, tristi ed angosciosi) nascono dalle profondità dei cuori umani sconvolti dai pensieri come i fuochi fatui dei cimiteri (mettono tanta para ma in realtà sono leggere fiamme vaganti prodotte dai gas che si sprigionano dove ci sono sostanze in putrefazione). Nell’ora del mezzogiorno (che per gli antichi era misteriosa e segreta), quando presso le querce i cavalli stanno nell’ombra muso a muso e introno tutto è pace nella pianura assolata, i cipressi gli canteranno quelle armonie che cielo e terra si scambiano tra loro eternamente e le divinità silvane, che abitano i tronchi delle piante, usciranno dagli olmi per ristorarlo dalla calura e sospingerlo a sognare ed il dio Pane (dio dei boschi e dei pastori) che, a quell’ora se ne va errando senza compagnia per i monti e le pianure, placherà l’insanabile contrasto dei suoi affanni nella divina serenità della natura. Ma il poeta non si può fermare, a Bologna lo aspetta la figlioletta, la Titì, piccola ancora e bisognosa di assistenza. Non si veste di piume come la passeretta a cui provvede madre natura, né si nutre di bacche di cipresso. A questo punto il poeta lancia una sassata polemica contro gli imitatori del Manzoni (quelli che in arte ed in politica si attenevano alle idee del Manzoni e principalmente accettavano le sue idee in fatto di lingua) che badano solo al guadagno e si accaparrano il maggior numero possibile di uffici e stipendi. Non essendo nel numero di costoro urge che il poeta si affretti ai suoi doveri di insegnante per provvedere ai bisogni della sua famiglia e lo fa con un saluto affettuoso e doloroso. I cipressi che hanno cercato di fermare il poeta con le lusinghe del paesaggio, cercano di fermarlo con il ricordo della nonna paterna tanto amata, Lucia Santini, morta nel 1843 e sepolta a Bolgheri. Al ricordo della nonna i “giganti giovinetti” si trasformano in un corteo funebre che si allontana mormorando. Dal dolce pendio per il verde viale dei cipressi ecco apparire al poeta alta e maestosa, vestita di nero, la nonna. Dalla sua bocca in mezzo ai bianchi capelli sgorgava la pura e schietta parlata toscana che molti non toscani imitano goffamente, con la malinconica e dolce inflessione della natia Versilia che è tanto cara al cuore del poeta. La lingua toscana, quando è parlata genuinamente, è nitida e soave come un antico componimento poetico (il sirventese era un antico metro poetico di origine provenzale che celebrava avvenimenti storici e poetici). Il poeta si rivolge al fantasma della nonna e vuole farsi raccontare, lui che con tutto il suo sapere non è riuscito a raggiungere, se non la felicità, almeno la tranquillità dell’animo, l’antica fiaba di “Amore e Psiche” (una fanciulla che aveva sposato un mostro ripugnante per volontà dei parenti, siccome viola il giuramento di non vederlo durante la notte quando riacquista il primitivo e bellissimo aspetto, viene abbandonata dal marito. Per ritrovarlo deve errare per il mondo per sette lunghi anni, consumare sette verghe di ferro per sorreggere i suo corpo stanco, colmare sette fiasche di lacrime… e quando finalmente ritrova lo sposo, questi è immerso in un profondo sonno, né a lei è possibile destarlo). Il Carducci modifica il finale del racconto originario che dice che lo sposo fuggiasco ritorna alla fanciulla commosso dai suoi sacrifici. Nella sorte della fanciulla abbandonata il poeta vede rispecchiata la propria sorte individuale di un uomo incapace di raggiungere gli ideali che si è proposto. Infatti continuando il discorso con la nonna dice che la favola non è soltanto bella, ma anche pena di amara verità. La felicità, la pace che ha cercato invano nei tanti anni è forse nella tranquillità del cimitero e della morte, sotto quel viale dove non soltanto spera, ma non pensa neppure più di fermarsi, ora che la vita lo ha ghermito con le sue necessità ed i suoi doveri. A questo punto la realtà lo riafferra, il treno corre ansimando affannosamente, mentre il poeta si sente triste e desolato. Una schiera di puledri, che in Maremma vivono liberamente nelle campagne, nitriscono, mettendosi a correre in gara con il treno, mentre un asino grigio continua con serietà e lentezza a mangiare il cardo dai fiori rosso turchino. La chiusura della poesia è simbolica: se il treno rappresenta il progresso o comunque la vita che va avanti ed i puledri sono l’immagine della giovinezza che insegue gioiosamente, ma vanamente, i sogni, la figura dell’asino può essere il simbolo degli uomini chiusi ad ogni ideale o anche della persona saggia che si accontenta delle cose che ha, senza lasciarsi distrarre dal chiasso e dai desideri inutili.


    Carducci Giosuè - Nevicata, analisi

    Nevicata

    Questa poesia, scritta nel 1889, rivela un Carducci un po' diverso da quello combattivo e vitale che la tradizione privilegiata: l'autore appare qui ripiegato su se stesso, in una meditazione sulla morte e sulla fugacità della vità, con una presenza quasi ossessiva della memoria dei cari defunti. A questo stato d'animo fa da sfondo la città coperta dalla neve.
    La lirica di Carducci costituisce un esempio di poesia ancora legata alla lingua e ai metri della tradizione, ma che tuttavia recepisce una sensibilità nuova e tenta una sperimentazione formale.

    Il testo

    Lenta fiocca la neve pe ‘l cielo cinereo: gridi,
    suoni di vita più non salgono da la città,

    non d’erbaiola il grido o corrente rumore di carro,
    non d’amor la canzon ilare e di gioventù.

    Da la torre di piazza roche per l’aere le ore
    gemon, come sospir d’un mondo lungi dal dì.

    Picchiano uccelli raminghi a’ vetri appannati: gli amici
    spiriti reduci son, guardano e chiamano a me.

    In breve, o cari, in breve – tu càlmati, indomito cuore –
    giù al silenzio verrò, ne l’ombra riposerò.

    Il significato

    Il poeta si trova nella propria casa a Bologna, forse nello studio. Fuori nevica, una nevicata continua e lenta che viene giù da un cielo color della cenere. La neve attutisce ogni rumore e dalla città non arrivano i suoni soliti della vita quotidiana: il grido della fruttivendola e il cigolìo dei carri che passano. Anche i rintocchi dell'orologio della torre sono smorzati dalla neve, così che sembrano sospiri provenienti da un altro mondo. L'attenzione viene quindi attirata da un rumore: gli uccelli che vanno errando alla ricerca di cibo e di un riparo picchiano al vetro e riscuotono il poeta dal torpore della meditazione; quel battere insistito è come un richiamo che le anime degli amici che non ci sono più fanno al poeta: il richiamo al destino di morte che lo attende e al quale il poeta, nonostante la vitalità del suo animo, si dice pronto.

    I temi

    Il tema centrale della lirica è quello del pensiero della morte, che caratterizza una parte dell'opera di Carducci; in molte sue liriche si trova la contrapposizione fra la vita e la morte, fra la luce e le tenebre, fra la vita e il sole da una parte e il freddo della morte e l'ombra dall'altra. In questo testo sembra predominare solo il pensiero della morte, che acquista la forma simbolica, per altro dichiarata dal poeta, degli uccelli che picchiano con il becco sul vetro. Si può rintracciare però ancora un eco della vita e della gioia che essa suscita in quel grido della fruttivendola, nel carro che corre e nell'accenno all'indomito cuore. Ma questi richiami sono come smorzati e attutiti dalla neve, dalla situazione di pesante tristezza che grava sulla città e sul poeta.
    E' significativo che la poesia si apra con l'immagine della neve che scende sullo sfondo di un cielo grigio e con l'idea del silenzio che si chiuda ancora con le parole silenzio e ombra, a definire il regno dei morti.

    Il metro, la lingua, lo stile

    La caratteristica principale di questo testo è rappresentata, dal punto di vista formale, dal tentativo sperimentale di riprodurre la metrica classica utilizzando i versi italiani. In ognuno dei versi più lunghi, quelli dispari, si rintraccia un settenario seguito da un novenario.
    In seguito, nel Novecento, non si cercherà più di rivitalizzare forme metriche della tradizione, ma ci si libererà da qualunque vincolo metrico; qui Carducci attua dunque a suo modo una sperimentazione che alla fine porterà alla dissoluzione delle forme metriche tradizionale, ma che con lui resta ancora all'interno delle norme.
    Rispetto alla poesia leopardiana si nota un uso del linguaggio poetico più legato alla tradizione: nell'uso delle anastrofe, nella scelta di alcuni termini. Tuttavia si fa strada la presenza del simbolo, costituito dal picchiare degli uccelli, che sarà una caratteristica della poesia dei simbolisti francesi e poi del Decadentismo.


    Analisi e commento


    La poesia che andiamo a analizzare, “Nevicata” di Giosué Carducci, presenta subito una particolarità. Infatti il metro utilizzato in questa poesia è l’imitazione di un ipotetico distico elegiaco latino. La frattura con i classici metri della poesia italiana è costituita dal fatto che in questo non ha importanza che i versi abbiano lo stesso numero di sillabe prima dell’ultimo accento tonico, ma è la disposizione degli accenti stessi che devono seguire uno schema stabilito. L’effetto di imitazione è ottenuto con un settenario seguito da un novenario, mentre il pentametro è reso da un settenario tronco seguito da un ottonario tronco. Singolare è il terzo distico che presenta nella prima parte dell’esametro un ottonario e nella prima parte del pentametro un ottonario tronco. Questo forse perché, a partire da quel punto, la poesia cambia strada tematica: dopo una prima metà in cui il poeta descriveva oggettivamente un paesaggio invernale, seppur incrociando questa descrizione con quella del suo stato d’animo, nella seconda parte egli adotta un punto di vista soggettivo e autobiografico. Questo spostamento da un punto di vista esterno a quello interno, è sottolineato, oltre che dal cambio ritmico dei versi 7-8, anche dalla presenza della parola-chiave “me”, sottolineata anche dalla preposizione semplice “a”, che non sarebbe richiesta dalle regole grammatiche e metriche. Altre parole-chiave servono al poeta per far capire qual è il significato di questa poesia. Subito al verso 1, notiamo la parola “cinereo”, sottolineata stavolta mediante la dieresi. In questa parola si nota una polisemia: accanto al significato letterale di grigio come colore del cielo, l’orecchio coglie, grazie alla somiglianza fonetica e etimologica tra le due parole, la presenza della cenere, che subito introduce il tema funebre, il principale della poesia e della intera produzione poetica di Carducci. Altra parola-chiave è il “non”, messo in risalto per mezzo dell’anafora, visto che è ripetuto tre volte nei versi 2-3-4, e ulteriormente sottolineato dal “più” del secondo verso. La poesia è il racconto di una giornata d’inverno, in cui la neve piano piano imbianca il paesaggio, seppellendo con la sua caduta i suoni di vita della città, i rumori dei carri che prima correvano sull’erba e le canzoni felici d’amore dei giovani. È come se un senso di morte, che vien fuori dalla presenza della cenere, simbolo appunto di fine della vita, cadesse lentamente sulla felicità e sulla vita degli uomini. Una metafora caratterizza il terzo distico: “le ore gemono”. Questa espressione, sottolineata dall’allitterazione (“per l’aere le ore”) e dall’enjambement (“le ore/ gemon”) mette in risalto la fugacità del tempo, simboleggiata attraverso il battito delle ore stesse. Il gemito con cui Carducci simboleggia il battito delle ore, unito con la similitudine del verso seguente in cui esso viene paragonato a un sospiro proveniente da un mondo diverso e lontano da quello che stiamo vivendo, il mondo della morte, accresce ulteriormente il senso di una morte che si avvicina, incombente e inesorabile. Come detto, dopo questa descrizione, data come oggettiva, la narrazione si sposta e si interiorizza. Degli uccelli ancora incapaci di volare picchiano sui vetri appannati dal freddo, come spiriti amici tornati per invitare il poeta a seguirli. Da sottolineare la quasi totale assenza di felicità che vien fuori da questo mondo: gli spiriti antichi sono come uccelli morti ancor prima di imparare a volare, perché se n’erano andati dal nido, illusi di poter librarsi nel cielo ed essere così felici, ma che invece si trovano a picchiare alle finestre, cercando qualcuno da portar con sé nel buio e lontano mondo della morte. Per quanto riguarda il poeta, egli, dice nell’ultimo distico, è pronto a seguirli e supplica il suo cuore che non vuole arrendersi, di calmarsi, poiché lui adesso vorrebbe solo poter seguire quegli spiriti, venuti a chiamarlo. Da evidenziare, la ripetizione di “in breve”, due volte in un solo verso, a simboleggiare ancora la fugacità del tempo e, con esso, anche della vita stessa. Dopo una forte cesura, in cui il poeta si rivolge al suo cuore, a sottolineare ancora la soggettività di questa seconda parte della poesia, implorandolo di arrendersi a un’evidenza in cui l’idea di morte del corpo e insieme della felicità dell’uomo è più forte della volontà dell’uomo stesso, accettando cioè di seguire gli spiriti che sono venuti a prenderlo, il poeta esplicita questa sua speranza con l’uso della prima persona singolare all’ultimo verso, sottolineato anche dalla rima interna "verrò/riposerò”. Da notare anche l’evoluzione del significato del silenzio nella poesia: se all’inizio esso è accennato come fine posto dalla morte ai rumori del mondo quotidiano, alla fine esso è paragonato a un senso di quiete che l’uomo in questa vita non ha e che fa di tutto per ottenerlo nell’ombra della morte. Infine, da notare che il tema funebre, attorno a cui ruota questa poesia, è il principale tema delle poesie di Carducci e che il poeta ha composto questi distici tra il gennaio e il marzo 1881, periodo nel quale è morta la ragazza che lui amava, Carolina Piva, cantata da lui col nome di Lidia, e in cui si riscontra perciò un approfondimento e una maggiore presenza del tema funebre nelle sue poesie. Se, come ha notato il Benni, consideriamo quest’aspetto della poesia di Carducci, il tema di morte, notiamo la sua modernità e ne possiamo considerare questo componimento uno dei più alti esempi della poetica carducciana.



    Analisi e commento di testo letterario in poesia

    Carducci compose questa poesia tra il gennaio e il marzo del 1881, mesi che coincidono con la morte di Lidia.
    La poesia, composta da cinque strofe di due versi ciascuna, può essere suddivisa in due parti. La prima (vv.1-6) è di carattere oggettivo e descrive il paesaggio che circonda il poeta e che lo accompagnerà nella riflessione di carattere soggettivo e autobiografico nella seconda parte della poesia (vv.7-10). Le parole utilizzate da Carducci fanno trasparire il suo stato d’animo e anticipano il tema principale delle ultime due strofe. La neve cade lenta sulla città priva di ogni suono e il cielo è cinereo; quest’ultima parola richiama fortemente la morte di cui la cenere è il simbolo. Il silenzio viene rappresentato in diversi modi ma pronunciato una sola volta al termine della poesia; inizialmente viene presentato come una negazione di suoni, le grida non si sentono più, manca il rumore del carro e non si sentono più canzoni d’amore, poi improvvisamente diviene un profondo sospiro che rende l’atmosfera ancor più pesante ed infine viene paragonato al mondo delle tenebre L’anafora del “non” sembra voler negare la vita per dar spazio alla morte, tema sempre presente in Carducci. La città descritta è dunque caratterizzata da un intensa atmosfera funebre in diretto contrasto con il v.4 che declama la felice gioventù. L’immagine delle ore che gemono sembra nascondere il rimpianto per il tempo che scorre e che porta velocemente il poeta alla morte. Il picchiettio degli uccelli alle finestre dai vetri appannati, immerso in questo triste scenario, ricorda il richiamo degli spiriti degli amici defunti. Questa immagine e l’utilizzo del pronome “me” enfatizzato dalla preposizione “a” segna il passaggio al momento autobiografico della poesia. Il poeta ora parla della propria persona e annuncia che presto raggiungerà gli spiriti che lo hanno chiamato. Tali parole sono condotte dalla consapevolezza di essere ormai giunto alla fine della propria vita e dalla recente morte di Carolina Piva, una delle sue amanti.
    Il poeta per comunicare meglio le immagini e le sensazioni che esse suscitano utilizza diverse figure retoriche. Ad esempio per sottolineare la mancanza di suoni pone un enjambement tra i vv.1-2 e un chiasmo nel v.3; cerca di far emergere la parola cinereo attraverso un allitterazione e rende ancor più angosciosa l’attesa della morte attraverso la ripetizione al v.9.
     
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    Parafrasi - Giosuè Carducci : « Rime nuove »


    LIBRO PRIMO


    I

    ALLA RIMA

    Saluto alla rima, cercata dal poeta quando con fatica compone le sue creazioni; che poi si manifesta come una luce, una scintilla, uno zampillo che illumina i sentimenti del pubblico che la ritrova nel testo.

    Rima che si presenta a coppie nei componimenti ritmici per le canzoni da ballo, come un qualcosa che in due versi permetta di unire tra loro, come due sospiri, la memoria e la speranza

    Come risuonasti con leggerezza, cantata da uomini di stazza massiccia, nel corso di serene serate, quando i mietitori, divisi in tre giri, con il piede batteva il terreno con un ritmo ternario.

    Come cantasti con forza risuonando minacciosa per l'aria, il coraggio dei vincitori, mentre [in battaglia] le lance sporche di sangue rumorosamente si infrangevano sugli scudi di ferro [del nemico].

    Tu sentisti [oh rima] sgretolare Roncisvalle sotto la spada di Rolando, mentre, soffiando notte e giorno in un grande corno, risuonava per la valle il gran nome del condottiero.

    Poi, quasi trasportata dalla criniera crespa e nera di Babieca [il cavallo del Cid Campeador] che galoppa, con fierezza hai contribuito a diffondere nelle città la gloriosa epopea del Cid Campeador.

    Poi, lasciati gli eroi spagnoli, ti bagni nel leggere acque del Rodano e canti la lirica provenzale, con suoni che gareggiano con quelli di un usignolo, nei giardini della corte dei signori di Tolosa.

    Tu hai messo la vela d'amore in poppa alla nave di Jaufré Rudel e rechi il bacio ardente del morente sulle labbra della contessa. [Il poeta provenzale, che aveva cantato Melisenda, contessa di Tripoli e che la amava senza mai averla vista, giunge a lei moribondo per ricevere il primo e ultimo bacio].

    Ritorna, invitata in altre sponde [l'Italia], da l'austero e devoto Dante, che in rima raccontò il suo viaggio nelle viscere dell'Inferno, quindi sul monte del Purgatorio, prima di ascendere al cospetto di Dio.

    Salute, oh rima, con felici risultati regina della tradizione poetica italiana! Un poeta ribelle [il Carducci] decide di usare te nelle sue poesia, senza che ciò significhi una rinuncia alla libertà della propria arte.

    [Rima] testimonianza della tradizione dei padri della letteratura italiana, come loro risulti fonti di ispirazione e degna di attenzione al poeta. Salute a te, oh rima, che porti il poeta ad esprimersi con la parola "fiore" per i suoi sentimenti d'amore, con la parola "saetta" per i suoi sentimenti di odio.



    IX

    IL BOVE

    Ti amo, o pio bue; e infondi nel mio cuore un mite sentimento di vigore e di pace, sia quando, solenne come un monumento, guardi i campi aperti e fertili,

    sia quando trascinando il giogo aiuti con la tua forza possente il lavoro agile dell’uomo:
    uomo che ti esorta percuotendoti, e la tua unica reazione e girare gi occhi verso di lui e guardarlo con distacco.

    Dalla tu larga narice umida e nera esce il tuo fiato che si condensa, e come un inno lieto il tuo verso si riverbera nell'aria serena;

    e nella austera dolcezza del tuo occhio azzurro e grave si rispecchia nella sua ampiezza e nella sua pace il divino silenzio della verde pianura.



    XI

    FUNERE MERSIT ACERBO

    Tu [si riferisce al fratello Dante, morto suicida] che riposi per l'eternità in un cimitero posto in una collina fiorita della Toscana, sepolto accanto al padre; non hai sentito il pianto di un fanciullo, provenire dalle stesse viscere della terra in cui giaci tu?

    È il mio figliolo, che bussa alla porta solitaria della tua tomba: lui che portava il tuo stesso nome, illustre e degno di rispetto, serbando il ricordo della tua esistenza, anche lui adesso ha perso la vita, o fratello mio, vita che a te fu causa di tanti dispiaceri.

    Ahi no! giocava per le aiole in cui crescevano fiori variopinti, e la morte lo raggiunse quando ancora i suoi pensieri erano pieni di quelle gioiose fantasie infantili, e lo porto via con sé [alle rive dell'Acheronte,

    il fiume che scorre nel regno dei morti]. [Fratello mio,] accogli il mio figliolo nel luogo buio e tenebroso in cui tu già risiedi, ora che lui mai più vedrà la luce del sole e sarà dall'affetto della madre



    XXXIV

    TRAVERSANDO LA MAREMMA TOSCANA

    Oh mia dolce maremma, terra da cui presi molto del mio carattere fiero e della mia poesia libera e forte, e della mia anima dove amore e odio non si placano mai, finalmente ti rivedo e il mio cuore sobbalza nel petto.

    In te riconosco bene le forme del tuo paesaggio a me note, mentre i miei occhi sono incerti e non sanno se sorridere o piangere, e mi ritornano in mente tutti i miei bei sogni giovanili.

    Oh, quello che amai, quello che sognai fu inutile; ed io feci di tutto per realizzare le mie aspettative ma non ci riuscii, e presto morirò.

    Ma il mio cuore è in pace, ora che vedo le tue colline, con le loro nebbie leggere, e il verde dell'erba luminosa per la pioggia mattutina.



    XLII

    PIANTO ANTICO

    L'albero verso il quale orientavi la tua manina, il melograno dalle verdi foglie e dai rossi fiori,

    nel silenzioso e solitario orto, è nuovamente germogliato e l'estate lo matura con il suo calore e la sua luce.

    Tu figlio di questo povero corpo, invecchiato e sciupato dal tempo, tu unico dono di questa mia vita inutile,

    giaci nella fredda terra di un camposanto, non potrai più vedere la luce del sole, ne godere dell'amore.



    LVIII

    SAN MARTINO

    La nebbia, sciogliendosi in una leggera pioggerella, risale per le colline rese quasi ispide dalle piante ormai prive di fogliame e, spinto dal vento freddo di nordovest, il mare rumoreggia infrangendosi sulla scogliera, con onde dalla bianca spuma;

    ma per le vie del piccolo paese contadino si diffonde, dai tini dove fermenta il mosto, l'odore aspro del vino nuovo che rallegra i cuori.

    E intanto sulla brace del focolare scoppiettano le gocce di grasso che cadono dallo spiedo su cui cuoce la cacciagione; e il cacciatore se ne sta sull'uscio a guardare

    stormi di uccelli che, a contrasto con le rosse nubi del tramonto, sembrano neri, come quei pensieri che si vorrebbe mandar via lontano.



    LX

    VISIONE

    Il sole che sorgeva nel cielo invernale lentamente cominciava ad intravedersi tra il grigiore della nebbia, e l'erba appena nata dei campi lasciati a maggese brillava sotto gli sprazzi del sole.

    Fluivano abbondantemente le acque del grande fiume Po, fluivano le acque del limpido Mincio. Contemplando questo, tornò alla mente di chi osservava un ricordo.

    E ripensò con emozione, nel mezzo di quel panorama così illusorio e immateriale, alla sua giovinezza,

    senza rammarico e rimpianti, soltanto come uno sprazzo di verde quasi fuori dal tempo circondato dalla nebbia [come il paesaggio che andava osservando].



    LXXVII

    IL COMUNE RUSTICO

    Sia che la vostra ombra fredda si stampi solitaria sui campi verdi come lo smeraldo, al sole sgombro di nubi e non ancora caldo, sia che si diffonda cupa e immobile al tramonto sulle case poste intorno alla chiesa, in cui si sta celebrando messa, o al cimitero

    silenzioso, o noci della Carnia, vi saluto! Il mio pensiero, vaga tra i vostri rami, sognando immagini di un tempo lontano. Non paura dei morti ed assemblee di diavoli goffi e di streghe bizzarre, ma i forti cittadini del comune che si rinfrescano all'ombra dell'albero, questo vedo in estate, la stagione dei pascoli, durante la domenica di riposo che segue la messa. Il magistrato a capo del comune dice, ponendo le mani sulla croce e il Vangelo: "Ecco io divido tra voi quella foresta

    d'abeti e di pini, di là, sul confine, dove appare scura. E voi porterete laggiù le mandrie e i greggi. E per voi, se tornassero i barbari che invasero l'Italia settentrionale [se l'unno o se lo slavo], ecco le lance e le spade, pronti a morire per la nostra libertà."

    Un forte sentimento di orgoglio riempiva i petti, facendo alzare le teste bionde; e il sole già alto nel cielo colpiva le fronti dei cittadini scelti per la difesa della patria. Mentre le donne piangevano sotto i loro veli, invocavano la misericordiosa Santa Maria Vergine. Con la mano tesa il magistrato continuava:

    "Questo ordino, in nome di Cristo e della Madonna, e voglio che sia così per il popolo". E il popolo, nel gesto del giuramento, rispondeva: sì. E le rosse vacche sul prato vedevano la piccola assemblea, nobile come un senato, mentre tra gli abeti si riverberava la luce di mezzogiorno.




    LIBRO SETTIMO


    ÇA IRA


    LXXXII

    Splende il sole con tutta la sua forza sui colli di Borgogna e sulla valle di Marna, occupate dalla vendemmia: la terra della Piccardia che dal tempo della mietitura non è stata lavorata attende che l'aratro la prepari per la nuova semina.

    L'uva, ostica da raccogliere, viene separata dalla pianta con un falcetto che pare una scure e le tracce di succo che cola sembrano sangue: sotto il rosso cielo della sera l'aratore allunga lo sguardo ai campi abbandonati dai contadini che si sono arruolati,

    e fustiga i buoi scuotendoli così forte quasi da farli barcollare, e afferra il manico dell'aratro urlando: avanti, voi che siete come la Francia, avanti!

    L'aratro scava solchi nella terra non facile da arare [e rendere feconda]: la terra fuma: l'aria è come se fosse resa cupa da fantasmi che sembrano nascere dal suolo.




    LIBRO NONO



    CV

    CONGEDO

    O popolo ignorante, il poeta non è come un accattone che con inganni e sotterfugi porta via le vivande dal tavolo della mensa di altri e ruba il pane dalle dispense.

    Né tanto meno è un lavativo che gira a vuoto, sbattendo la testa contro le cantonate, e con il naso all'aria si diverte a guardare gli uccelli e gli angeli [come i matti senza più senso della realtà].

    Il poeta non è nemmeno uno che scrive versi d'occasione, facendo le cose a caso, come un giardiniere che metaforicamente concima il sentiero della vita con il letame, o dona i cavolfiori ai signori, o le viole alle dame.

    Il poeta è un grande artigiano, che deve essere necessariamente molto ferrato in quello che fa: ha il capo energico, il collo robusto, il petto nudo, il braccio forte, l'occhio vispo.

    Non appena l'uccellino pigola ed esulta, e non appena l'alba spunta sulla collina, soffiando l'aria il poeta ritorna ad alimentare il fuoco poetico e l'ispirazione, e torna ad applicarsi nell'atto creativo;

    e le idee balzano in mente e catturano l'attenzione, e paiono adatte e prendere forza, e le si rimettono in discussione e tornano a sembrare valide, e poi le si abbandona come uno zampillo che balza scoppiettando dal fuoco della creazione.

    Quali siano le fonti dell'ispirazione poetica io non lo so; lo sa solo Dio, che pare illuminare con il suo raggio divino il poeta mentre crea. E nel flusso dell'ispirazione vanno a confluire le emozioni e la parte razionale dell'artista,

    e confluiscono le proprie esperienze personali e la propria cultura e l'esempio della tradizione della propria terra. Il passato e il futuro si fondono nella massa informe dell'opera che va a formarsi.

    Il poeta si impadronisce di questa massa informe e poi gli dà la forma voluta col lavoro del martello sull'incudine. Lavora sodo ma non gli pesa. La giornata volge al termine e la sua luce, la luce della vita, quasi si travasa sul poeta e la opera in corso di definizione.

    Il testo prende forma. E prende la strada di vari generi: poesia per la libertà, poesia epica, poesia per offendere o per difendersi: per ambire alla gloria o per il gusto del bello.

    Il testo prende forma. Ed ecco la poesia che celebra la storia patria [oggettivata negli altari dedicati al culto e ai penati], la poesia celebrativa in genere [i tripodi e gli altari vanno bene per ogni cerimonia], la più raffinata celebrazione di eventi del presente [i vasi e gli ornamenti per il convito].

    Il poeta compone la propria opera meglio che può e agisce affinché venga accolta favorevolmente e si conquisti il riconoscimento degli uomini, per sé il poeta vuole solo la gloria, e questo gli basta.
     
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    Carducci, Giosué - Traversando la Maremma toscana
    Testo, commento e analisi breve del sonetto Traversando la Maremma toscana, tratto dalla raccolta Rime nuove

    Traversando la Maremma toscana
    Dolce paese, onde portai conforme
    l'abito fiero e lo sdegnoso canto
    e il petto ov'odio e amor mai non s'addorme.
    pur ti riveggo, e il cuor mi balza in tanto.

    Ben riconosco in te le usate forme
    con gli occhi incerti tra 'l sorriso e il pianto.
    e in quelle seguo de' miei sogni l'orme
    erranti dietro il giovanile incanto.

    Oh, quel che amai, quel che sognai, fu in vano:
    e sempre corsi, e mai non giunsi il fine:
    e dimani cadrò. Ma di lontano

    pace dicono al cuor le tue collina
    con le nebbie sfumanti e il verde piano
    ridente ne le piogge mattutine.

    Commento
    Il dolce e severo paesaggio della Maremma, ritrovato dopo molti anni di assenza, suscita nel poeta profonde emozioni.
    I luoghi in cui trascorse gli anni felici dell`infanzia e dell`adolescenza risvegliano in lui i sogni, le speranze e gli amori giovanili; con la dolcezza del ricordo lo assale l`amarezza del presente: i sogni non sono realizzati e L`unica certezza sembra essere la morte. Ma la bellezza rasserenante della Maremma, le collina sfumate dalla nebbia e la verde pianura, calmano la sua angoscia e il poeta ritrova la pace. Dal punto di vista metrico il componimento e` un sonetto; le quartine hanno rima ABAB, ABAB, le terzine CDC, DCD.



    Parafrasi
    Oh mia dolce maremma, terra da cui presi molto del mio carattere fiero e della mia poesia libera e forte, e della mia anima dove amore e odio non si placano mai, finalmente ti rivedo e il mio cuore sobbalza nel petto.
    In te riconosco bene le forme del tuo paesaggio a me note, mentre i miei occhi sono incerti e non sanno se sorridere o piangere, e mi ritornano in mente tutti i miei bei sogni giovanili.
    Oh, quello che amai, quello che sognai fu inutile; ed io feci di tutto per realizzare le mie aspettative ma non ci riuscii, e presto morirò. Ma il mio cuore è in pace, ora che vedo le tue colline, con le loro nebbie leggere, e il verde dell'erba luminosa per la pioggia mattutina.



    Carducci, Giosuè - S.Martino
    La nebbia a gl'irti colli
    Piovigginando sale,
    E sotto il maestrale
    Urla e biancheggia il mar;
    Ma per le vie del borgo
    Dal ribollir de' tini
    Va l'aspro odor de i vini
    L'anime a rallegrar.
    Gira su' ceppi accesi
    Lo spiedo scoppiettando:
    Sta il cacciator fischiando
    Su l'uscio a rimirar
    Tra le rossastre nubi
    Stormi d'uccelli neri,
    Com'esuli pensieri,
    Nel vespero migrar.


    Parafrasi
    La nebbia, per gli alberi spogli dei colli, mentre piove, sale e, trainata dal vento, dipinge il mare di bianco e tra le vie del paese dai cattivi umori va l’odore di vino a tirar su i morali. Gira su rami infuocati lo spiedo cuocente, mentre il cacciatore festeggia davanti alla porta.
    Al momento del tramonto, molti corvi neri, come pensieri nella sera se ne vanno.



    Pianto antico

    Questa celebre poesia di Carducci è dedicata al figlioletto Dante, morto a soli due anni. Scritta nel 1871 è parte della raccolta Rime Nuove.
    E' il dolore di un padre a sostenere questo canto funebre, che è antico come quello che l'intera umanità ha provato di fronte alla morte. un padre rassegnato a dover lasciare dietro di sè il frutto del proprio amore e che si ritrova solo, alle prese con una vita divenuta improvvisamente inutile e arida, del tutto simile alla morte. Il regno della morte è privo di calore e di luce, gli affetti sono spezzati,lo stesso avvenire è finito per sempre. Tuttavia, la lirica inserisce il pensiero dominante della morte nell'eterno moto ciclico della natura e delle sue stagioni ed è per questo che essa deve essere accettata nel silenzio,con rassegnazione e dignità.
    Centrale nella poesia è l'immagine del melograno in fiore, rinverdito nella bella stagione, che ridà vita ai suoi fiori ciclicamente. Purtroppo il piccolo Dante non tornerà più, invece, alla luce.


    L'albero a cui tendevi
    La pargoletta mano,
    Il verde melograno
    Da' bei vermigli fiori
    Nel muto orto solingo
    Rinverdì tutto or ora,
    E giugno lo ristora
    Di luce e di calor.
    Tu fior de la mia pianta
    Percossa e inaridita,
    Tu de l'inutil vita
    Estremo unico fior,
    Sei ne la terra fredda,
    Sei ne la terra negra;
    Né il sol piú ti rallegra
    Né ti risveglia amor.


    Note:
    Ode anacreontica in quartine di settenari secondo lo schema abbc

    Commento
    Questa celebre poesia di Carducci è dedicata al figlioletto Dante, morto a soli due anni. E` il dolore di un padre a sostenere questo canto funebre, un padre rassegnato a dover lasciare dietro di sé il frutto del proprio amore e che si ritrova solo, alle prese con una vita divenuta improvvisamente inutile e arida,del tutto simile alla morte.
    Il regno della morte è privo di calore e di luce, gli effetti sono spezzati, lo stesso avvenire è finito per sempre. Tuttavia, la lirica inserisce il pensiero dominante della morte nell'eterno moto ciclico della natura e delle sue stagioni ed è per questo che essa deve essere accattata nel silenzio, con rassegnazione e dignità.

    Parafrasi:
    L'albero verso il quale orientavi la tua piccola mano, il melograno dalle foglie verdi e dai fiori rossi, nel silenzioso e solitario orto, è nuovamente germogliato da poco e l'estate gli ridà nova vita
    con il suo calore e la sua luce. Tu figlio di questo povero corpo, invecchiato e sciupato dal tempo, tu unico dono di questa mia vita inutile, giaci nella fredda terra di un camposanto, non potrai più vedere la luce del sole, né godere dell'amore.



    Carducci, Giosuè - Nevicata
    Testo, commento e analisi puntuale della lirica carducciana Nevicata, esempio di poesia ancora legata alla lingua e ai temi della tradizione

    Nevicata
    Questa poesia, scritta nel 1889, rivela un Carducci un po' diverso da quello combattivo e vitale che la tradizione privilegiata: l'autore appare qui ripiegato su se stesso, in una meditazione sulla morte e sulla fugacità della vità, con una presenza quasi ossessiva della memoria dei cari defunti. A questo stato d'animo fa da sfondo la città coperta dalla neve.
    La lirica di Carducci costituisce un esempio di poesia ancora legata alla lingua e ai metri della tradizione, ma che tuttavia recepisce una sensibilità nuova e tenta una sperimentazione formale.

    Il testo
    Lenta fiocca la neve pe ‘l cielo cinereo: gridi,
    suoni di vita più non salgono da la città,

    non d’erbaiola il grido o corrente rumore di carro,
    non d’amor la canzon ilare e di gioventù.

    Da la torre di piazza roche per l’aere le ore
    gemon, come sospir d’un mondo lungi dal dì.

    Picchiano uccelli raminghi a’ vetri appannati: gli amici
    spiriti reduci son, guardano e chiamano a me.

    In breve, o cari, in breve – tu càlmati, indomito cuore –
    giù al silenzio verrò, ne l’ombra riposerò.

    Il significato
    Il poeta si trova nella propria casa a Bologna, forse nello studio. Fuori nevica, una nevicata continua e lenta che viene giù da un cielo color della cenere. La neve attutisce ogni rumore e dalla città non arrivano i suoni soliti della vita quotidiana: il grido della fruttivendola e il cigolìo dei carri che passano.

    Anche i rintocchi dell'orologio della torre sono smorzati dalla neve, così che sembrano sospiri provenienti da un altro mondo. L'attenzione viene quindi attirata da un rumore: gli uccelli che vanno errando alla ricerca di cibo e di un riparo picchiano al vetro e riscuotono il poeta dal torpore della meditazione; quel battere insistito è come un richiamo che le anime degli amici che non ci sono più fanno al poeta: il richiamo al destino di morte che lo attende e al quale il poeta, nonostante la vitalità del suo animo, si dice pronto.

    I temi
    Il tema centrale della lirica è quello del pensiero della morte, che caratterizza una parte dell'opera di Carducci; in molte sue liriche si trova la contrapposizione fra la vita e la morte, fra la luce e le tenebre, fra la vita e il sole da una parte e il freddo della morte e l'ombra dall'altra.
    n questo testo sembra predominare solo il pensiero della morte, che acquista la forma simbolica, per altro dichiarata dal poeta, degli uccelli che picchiano con il becco sul vetro. Si può rintracciare però ancora un eco della vita e della gioia che essa suscita in quel grido della fruttivendola, nel carro che corre e nell'accenno all'indomito cuore. Ma questi richiami sono come smorzati e attutiti dalla neve, dalla situazione di pesante tristezza che grava sulla città e sul poeta.
    E' significativo che la poesia si apra con l'immagine della neve che scende sullo sfondo di un cielo grigio e con l'idea del silenzio che si chiuda ancora con le parole silenzio e ombra, a definire il regno dei morti.

    Il metro, la lingua, lo stile
    La caratteristica principale di questo testo è rappresentata, dal punto di vista formale, dal tentativo sperimentale di riprodurre la metrica classica utilizzando i versi italiani. In ognuno dei versi più lunghi, quelli dispari, si rintraccia un settenario seguito da un novenario.
    In seguito, nel Novecento, non si cercherà più di rivitalizzare forme metriche della tradizione, ma ci si libererà da qualunque vincolo metrico; qui Carducci attua dunque a suo modo una sperimentazione che alla fine porterà alla dissoluzione delle forme metriche tradizionale, ma che con lui resta ancora all'interno delle norme.
    Rispetto alla poesia leopardiana si nota un uso del linguaggio poetico più legato alla tradizione: nell'uso delle anastrofe, nella scelta di alcuni termini. Tuttavia si fa strada la presenza del simbolo, costituito dal picchiare degli uccelli, che sarà una caratteristica della poesia dei simbolisti francesi e poi del Decadentismo.



    Davanti San Guido, parafrasi

    Parafrasi dell'ode Davanti San Guido di Giosuè Carducci in cui il protagonista riconosce i cipressi nei luoghi in cui visse da bambino

    Davanti San Guido

    Corrono verso il poeta e lo guardano
    i cipressi alti e schietti che da Bolgheri
    vanno a San Guido in doppia fila,
    sembrano come giganti giovinetti in corsa.

    Lo riconobbero, e tornato ormai
    gli bisbigliarono con la cima piegata dal vento -
    perché non scendi dal treno? Perché non ti fermi?
    La sera è fresca e tu conosci molto bene questa strada.

    Oh siediti alla nostra ombra profumata di resina
    dove dal mare spira un vento impetuoso:
    non ti conserviamo alcun rancore per le sassate
    che tu ci lanciavi una volta: oh infondo non facevano male!

    Portiamo ancora sui nostri rami i nidi degli usignoli:
    perché fuggi così in fretta?
    I passeri intrecciano voli in cielo alla sera
    Intorno a noi. Oh fermati qui!

    Bei cipresseti , cipresseti miei ,
    fedeli amici della mia infanzia,
    oh con quale gioia resterei con voi -
    il poeta guardandoli così rispondeva - oh con quale piacere!

    Ma, cipresseti miei, lasciatemi andare:
    ora non è più il tempo della mia infanzia né della mia giovinezza.
    Se voi poteste sapere! … non faccio per dire,
    ma oggi sono diventato un uomo celebre.

    Conosco e so tradurre il greco e il latino,
    continuo a scrivere, sono colto e sono celebre;
    non sono più, cipresseti miei, un ragazzo vivace,
    e non tiro più sassate alle piante.

    E specialmente alle piante. Un mormorio
    ondeggiò dalle cime dei cipressi,
    e il Sole che stava tramontando sorridente
    brillò in mezzo al verde cupo della vegetazione.

    Capii allora che i cipressi e il Sole
    provavano un sentimento di pietà verso di me
    e improvvisamente il mormorio delle piante si trasformò in parole:
    Lo sappiamo bene: tu sei un pover uomo.

    Lo sappiamo bene, è il vento che ce lo disse
    perché lui porta con sé i sospiri degli uomini,
    come dentro il tuo cuore eterne lotte
    divampano e che tu non sai né puoi placare.

    Alle querce e a noi qui tu puoi raccontare
    la tua pena personale e il dolore degli uomini.
    Guarda com’ è calmo e azzurro il mare
    E come gli sorride il Sole che stava tramontando.

    E com’ è pieno di voli questo tramonto,
    e com’ è gioioso il canto dei passeri!
    Di notte canteranno gli usignoli:
    rimani, e i cattivi pensieri non seguire; (…)

    Ed io - lontano oltre l’ Appennino, mi aspetta
    la Titti – risposi; lasciatemi andare.
    La Titti è come una passeretta,
    ma non si veste di penne.

    E mangia solo bacche di cipresso;
    né io sono un imitatore di Manzoni
    che riesce ad ottenere stipendi per vivere bene.
    Addio, cipressi! Addio, dolce mio riparo!

    Cosa vuoi che diciamo dunque nel cimitero
    dove sta sepolta la tua nonna?
    E i cipressi fuggivano e parevano un corteo funebre
    che va via in fretta brontolando.

    Dalla cima della collina allora, dal cimitero,
    giù per il verde viale dei cipressi,
    alta, maestosa, vestita di nero
    mi parve di rivedere nonna Lucia … (…)

    O nonna, o nonna! Quanto bella eri
    quando ero ancora bambino! Raccontamela ancora,
    raccontala a questo uomo saggio la fiaba
    della fanciulla che cerca il suo amore perduto!

    Sette paia di scarpe ho consumato
    molto robuste per ritrovarti:
    sette verghe di ferro ho consumato
    per appoggiarmi nel percorso voluto dal destino:

    sette fiasche di lacrime ho riempito,
    sette lunghi anni di lacrime amare:
    tu dormi e alle mie grida disperate
    e al canto del gallo tu non vuoi svegliarti.

    Deh, com’ è bella, o nonna, e com’ è vera
    ancora la storia! Proprio così.
    E quello che cercai tutti i giorni
    in tanti e tanti anni inutilmente, è forse qui,

    sotto questi cipressi, dove non spero,
    dove non penso di riposarmi più:
    forse, nonna, è nel vostro cimitero
    tra questi alti cipressi solitario lassù.

    Sbuffando fuggiva la locomotiva
    mentre io così piangevo dentro il mio cuore;
    e una bella schiera di puledri
    correva, nitrendo lieta, dietro al treno.

    Ma un asino grigio, rosicchiando un cardo
    dal colore rosso e turchino, non si scomodò:
    di tutto quel chiasso egli non degnò di uno sguardo
    e a brucar l’erba seguitò serio e lento.

     
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    - San Martino
    Testo e parafrasi della lirica con andamento ritmico-melodico composta da G. Carducci, "San Martino"

    La nebbia a gl'irti colli
    Piovigginando sale,
    E sotto il maestrale
    Urla e biancheggia il mar;
    Ma per le vie del borgo
    Dal ribollir de' tini
    Va l'aspro odor de i vini
    L'anime a rallegrar.
    Gira su' ceppi accesi
    Lo spiedo scoppiettando:
    Sta il cacciator fischiando
    Su l'uscio a rimirar
    Tra le rossastre nubi
    Stormi d'uccelli neri,
    Com'esuli pensieri,
    Nel vespero migrar.


    Parafrasi
    La nebbia, per gli alberi spogli dei colli, mentre piove, sale e, trainata dal vento, dipinge il mare di bianco e tra le vie del paese dai cattivi umori va l’odore di vino a tirar su i morali. Gira su rami infuocati lo spiedo cuocente, mentre il cacciatore festeggia davanti alla porta.
    Al momento del tramonto, molti corvi neri, come pensieri nella sera se ne vanno.

    Commento:

    Nella lirica "San Martino", Carducci, descrive l'atmosfera festosa del giorno di San Martino, cioè l'11 novembre in un borgo della Maremma Toscana. Questo giorno è molto importante per i contadini perchè segna la fine dela lavoro nei campi e l'inizio della sventura, cioè del travaso del vino dai tini, dove è stato messo a fermentare, nelle botti.
    All'allegria del borgo si contrappone la malinconia del paesaggio autunnale avvolto nella nebbia e colto all'ora del tramonto "tra le rossastre nubi".
    Nella prima strofa si crea uno sfondo paesaggistico della lirica. Infatti il paesaggio viene descritto con la nebbia che copre tutti gli alberi spogli e secchi sui colli, che quando piove l'altezza della nebbia aumenta. Nella seconda strofa, invece, si sposta l'attenzione al borgo. Infatti questo posto tra le sue vie dal ribollire dei tini si sente l'odore aspro dei vini che rallegra le anime. Nella terza strofa, si concentra l'ambiente domestico interno. Infatti sui ceppi accesi gira lo spiedo facendo colare il grasso della carne messa ad arrostire, mentre un cacciatore fischia sull'uscio a guardare.
    Infine nell'ultima strofa si collega alla figura del cacciatore intento a osservare le rosse nubi e poichè è l'ora del tramonto, gli stormi di uccelli sono paragonati dal poeta ai pensieri degli uomini che fuggono e si allontanano nella sera per migrare.



    Presso una certosa
    Testo e breve commento della lirica di Giosuè Carducci "Presso una certosa", testamento nei confronti dei valori della poesia

    Presso una certosa
    Da quel verde, mestamente pertinace tra le foglie
    Gialle e rosse de l'acacia, senza vento una si toglie:
    E con fremito leggero
    Par che passi un'anima.
    Velo argenteo par la nebbia su 'I ruscello che gorgoglia,
    Tra la nebbia nel ruscello cade a perdersi la foglia.
    Che sospira il cimitero,
    Da' cipressi, fievole?
    Improvviso rompe il sole sopra l'umido mattino,
    Navigando tra le bianche nubi l'aere azzurrino :
    Si rallegra il bosco austero
    Già del verno prèsago.
    A me, prima che l'inverno stringa pur l'anima mia
    Il tuo riso, o sacra luce, o divina poesia!
    Il tuo canto, o padre Omero,'
    Pria che l'ombra avvolgami!

    Commento
    E` un sommesso e commosso addio alla vita e un ultimo canto di poesia, che consola e illumina l`esistenza.
    Il paesaggio autunnale, descritto con intensa malinconia, riflette lo stato d`animo del poeta che sente la fine oramai vicina e che tuttavia e` ancora teso a cogliere le ultime gioie della vita: un raggio di sole, la luce consolante della poesia. Nelle vicinanze di un cimitero (Certosa e` il nome del camposanto bolognese) una foglia cade da un albero e va a perdersi nella nebbia, con un fremito che fa pensare al trapasso di un`anima da questa a un`altra vita. Ma all`improviso il triste paesaggio autunnale, che annuncia un inverno vicino, è rallegrato da un raggio di sole, da un ultimo segno di vita. E il poeta spera che la poesia illumini ancora una volta la sua vita,prima che le tenebre della morte lo avvolgano.

     
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    MEZZOGIORNO ALPINO

    parafrasi


    Nel gran cerchio de l'alpi, su 'I granito
    Squallido e scialbo, su' ghiacciai candenti,
    Regna sereno intenso ed infinito
    Nel suo grande silenzio il mezzodí.
    Pini ed abeti senza aura di venti
    Si drizzano nel sol che gli penètra,
    Sola garrisce in picciol suon di cetra
    L'acqua che tenue tra i sassi fluí.


    PARAFRASI

    Nel gran cerchio de l'alpi, su 'I granito
    Nel grande cerchio formato dalle Alpi, sopra il granito
    Squallido e scialbo, su' ghiacciai candenti,
    squallido e scialbo, sui ghiaccia che stanno per cadere
    Regna sereno intenso ed infinito
    regna intenso, taciturno e infinito
    Nel suo grande silenzio il mezzodí.
    il mezzogiorno nel suo grande silenzio
    Pini ed abeti senza aura di venti
    pini ed abeti non circondati dai venti
    Si drizzano nel sol che gli penètra,
    si drizzano nel sole che li penetra
    Sola garrisce in picciol suon di cetra
    L'acqua sola suona come la cetra
    L'acqua che tenue tra i sassi fluí.
    mentre scorre calma tra i sassi

     
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    ALLA STAZIONE IN UNA MATTINA D'AUTUNNO
    di
    Giosuè Carducci


    Oh quei fanali come s'inseguono
    accidiosi là dietro gli alberi,
    tra i rami stillanti di pioggia
    sbadigliando la luce su 'l fango!
    Flebile, acuta, stridula fischia
    la vaporiera da presso. Plumbeo
    il cielo e il mattino d'autunno
    come un grande fantasma.
    Dove e a che move questa, che affrettasi
    a' carri foschi, ravvolta e tacita
    gente? a che ignoti dolori
    o tormenti di speme lontana?
    Tu pur pensosa, Lidia, la tessera
    al secco taglio dài de la guardia,
    e al tempo incalzante i begli anni
    dài, gl'istanti gioiti e i ricordi.
    Van lungo il nero convoglio e vengono
    incappucciati di nero i vigili
    com'ombre; una fioca lanterna
    hanno, e mazze di ferro: ed i ferrei
    freni tentati rendono un lugubre
    rintocco lungo: di fondo a l'anima
    un'eco di tedio risponde
    doloroso, che spasimo pare.
    E gli sportelli sbattuti al chiudere
    paion oltraggi: scherno par l'ultimo
    appello che rapido suona:
    grossa scroscia su' vetri la pioggia.
    Già il mostro, conscio di sua metallica
    anima, sbuffa, crolla, ansa, i fiammei
    occhi sbarra; immane pe 'l buio
    gitta il fischio che sfida lo spazio.
    Va l'empio mostro; con traino orribile
    sbattendo l'ale gli amor miei portasi.
    Ahi, la bianca faccia e 'l bel velo
    salutando scompar ne la tenebra.
    O viso dolce di pallor roseo,
    o stellanti occhi di pace, o candida
    tra' floridi ricci inchinata
    pura fronte con atto soave!
    Fremea la vita nel tepid'aere,
    fremea l'estate quando mi arrisero;
    e il giovine sole di giugno
    si piacea di baciar luminoso
    in tra i riflessi del crin castanei
    la molle guancia: come un'aureola
    piú belli del sole i miei sogni
    ricingean la persona gentile.
    Sotto la pioggia, tra la caligine
    torno ora, e ad esse vorrei confondermi;
    barcollo com'ebro, e mi tocco,
    non anch'io fossi dunque un fantasma.
    Oh qual caduta di foglie, gelida,
    continua, muta, greve, su l'anima!
    Io credo che solo, che eterno,
    che per tutto nel mondo è novembre.
    Meglio a chi 'l senso smarrì de l'essere,
    meglio quest'ombra, questa caligine:
    io voglio io voglio adagiarmi
    in un tedio che duri infinito.

    parafrasi

    Oh quelle luci (fanali = sono i lampioni del viale di Bologna che conduce alla stazione) che alternandosi agli alberi gocciolanti di pioggia sembrano inseguirsi; lenti, monotoni (accidiosi prosopopea, l'aggettivo insieme con l'immagine successiva: sbadigliando -prosopopea- la luce su 'l fango - gettando una luce fioca -, suggerisce l'idea del tedio, della desolazione, dello sconforto per la partenza della donna amata, che dominerà il componimento).
    Flebile...vaporiera = il fischio della locomotiva è dapprima appena avvertibile, poi come un urlo sempre più acuto fino a diventare stridulo (il climax degli aggettivi segna il crescendo del suono); il cielo cupo (plumbeo) conferisce ad ogni cosa un aspetto quasi spettrale (come...fantasma) che avvolge tutto (n'è intorno). Dove e con quale fine (a che) questa gente imbacuccata e silenziosa (ravvolta e tacita) si affretta verso le carrozze del treno scure e tetre (carri foschi)? A quali dolori e speranze tormentose e vane (perchè incerte e lontane; le speranze non sono meno tormentose degli ignoti dolori).
    Anche tu (Tu pur: Lidia è la donna amata dal Carducci); il biglietto (la tessera, latinismo); porgi al rumore secco (secco taglio) che fa la macchinetta con cui il controllore (guardia, latinismo) fora il biglietto e dai anche il tempo passato, le gioie trascorse e i ricordi (Carducci fa un paragone con il tempo incalzante che inghiotte giovinezza, momenti di gioia e ricordi come se la partenza segnasse una rottura definitiva con il passato).
    I frenatori (i vigili, latinismo), con gli impermeabili neri di tela cerata con cappuccio (incappucciati di nero) camminano lungo il nero (si ricollega ai 'carri foschi' del v.10 ed accresce l'atmosfera già cupa) convoglio, come ombre, con una fioca lanterna e mazze di ferro che battono sui freni (tentati = percossi - latinismo - per verificarne l'efficienza) che risuonano di un lugubre, lungo rintocco: a cui sembra rispondere un'eco di noia angosciata che viene dal profondo dell'anima (di fondo...pare).
    E gli sportelli sbattuti per chiuderli sembrano insulti (oltraggi; per la secca violenza del gesto e del rumore): uno scherzo pare
    l'ultimo invito a salire sul treno (l'ultimo appello): forte scroscia la pioggia sulla tettoia vetrata (su' vetri; grande tettoia ad arco che copriva la stazione di Bologna). Già il treno (il mostro: il treno viene trasfigurato miticamente e diventa un mostro che rapisce il poeta e la donna amata) consapevole della sua forza (conscio di sua metallica anima) sbuffa, vibra (crolla), ansima (ansa) i fanali (i fiammei occhi); lancia nell'oscurità un fischio acutissimo (immane, latinismo) che sfida lo spazio.
    Va lo spietato (empio, latinismo, spietato perchè invola al poeta la sua donna), portando via (con traino orribile) con sè la donna amata (gli amori miei è un plurale alla latina) tirandosi dietro le carrozze, simile ad un mostro che sbatte le ali (sbattendo l'ale). Il viso rosa pallido (pallor roseo, ossimoro) dell'amata scompare nel buio salutando.
    Nelle tre strofe che seguono il Poeta ricorda un momento felice vissuto con Lidia sotto 'il giovin sole di giugno', rievocato per contrasto con il grigiore e il tedio della mattina autunnale:
    Oh dolce viso di un pallore roseo, Oh occhi luminosi come stelle che danno un senso di pace (stellanti...pace); oh bianca e pura fronte che si piega tra i folti capelli (floridi ricci). Trepidava (fremea) la vita nell'aria tiepida (tepid'aere, latinismo) fremeva l'estate quando mi sorrisero (arrisero); e l'ancora tiepido sole di giugno (il giovine sole di giugno) si compiaceva (si piacea) di baciare, tra i riflessi castani dei capelli (crin castanei) la morbida (molle) guancia: i miei sogni, più luminosi del sole, circondavano come un'aureola la sua figura delicata (come...gentile). Sotto la pioggia, nella nebbia fitta (caligine, latinismo), torno a casa, e vorrei confondermi in esse (ad esse: è riferito alla pioggia e alla nebbia); barcollo stordito (torno...com'ebro, il ritorno a casa senza Lidia rappresenta il ritorno ad una realtà tanto dolorosa da stordire) e mi tocco per constatare che non sia anch'io un fantasma.
    oh...anima! = il poeta fa un'analogia con le foglie che cadono dagli alberi e che diventano per metafora i sogni e le illusioni che si spengono e cadono sull'anima del poeta; ovunque (per tutto) è novembre.
    E' meglio per chi ha perduto ogni legame con la vita (a chi...l'essere), quest'ombra, questa nebbia: io voglio (io voglio io voglio - anadiplosi) adagiarmi in un tedio che duri per sempre.


    Tema: La poesia consta di due nuclei lirici distinti e composti in momenti diversi: i vv.37-48 rievocano un incontro con Lidia avvenuto a Milano, mentre il resto nasce non più da un’immagine estiva ma da un ricordo autunnale. Questa elegia, che chiude le Odi barbare, riflette la tristezza di un momento particolarmente buio per Carducci, addolorato dall’aggravarsi della malattia di Lidia e poi dalla morte di lei. Come in altre Odi barbare (Fuori alla Certosa di Bologna, Su Monte Mario, Ave), il motivo ispiratore della lirica è il pensiero ossessivo della morte, che qui si esprime in toni di intensa e sobria elegia.
    Forma metrica: Ode alcaica (dal nome del poeta greco Alceo); 15 strofe di 4 versi ciascuno: i primi due versi della strofa sono sempre sdruccioli. Ai vv. 9-11 e 23-24 due forti iperbati, figure retoriche molto frequenti nelle "Odi barbare". Ai vv. 5, 30, 53-54 Carducci usa la tecnica dell'accumulo di aggettivi o verbi per trasmettere il senso di angosciosa oppressione.

    fonte:http://www.parafrasando.it/



    FUNERE MERSIT ACERBO
    di
    Giosuè Carducci

    O tu che dormi là su la fiorita
    collina tosca, e ti sta il padre a canto;
    non hai tra l'erbe del sepolcro udita
    pur ora una gentil voce di pianto?
    È il fanciulletto mio, che a la romita
    tua porta batte: ei che nel grande e santo
    nome te rinnovava, anch'ei la vita
    fugge, o fratel, che a te fu amara tanto.
    Ahi no! giocava per le pinte aiole,
    e arriso pur di vision leggiadre
    l'ombra l'avvolse, ed a le fredde e sole
    vostre rive lo spinse. Oh, giù ne l'adre
    sedi accoglilo tu, chè al dolce sole
    ei volge il capo ed a chiamar la madre.



    parafrasi

    O tu = si riferisce al fratello Dante, sepolto nel piccolo cimitero di Santa Maria a Monte in Valdarno, accanto al padre.
    pur ora = poco fa.
    gentil...pianto = l'infantile voce rotta dal pianto.

    romita tua porta = la porta solitaria della tua tomba.
    ei...rinnovata = egli (il bambino) portando lo stesso illustre e sacro (per i poeti) nome del fratello, ne continuava l'esistenza, [perpetuandone il ricordo]; a te...tanto = a te fu tanto angosciosa (da spingerti a rifiutarla).

    Ahi no! = brusca correzione causata dal ricordo della felicità del bambino; pinte = variopinte di fiori; arriso...leggiadre = allietato ancora (pur) da gioiose fantasie infantili.
    fredde...rive = la riva è quella di Acheronte, il fiume che scorre nel regno dei morti.
    adre = latinismo - buie, tenebrose.

    Tema: Funere mersit acerbo = in morte acerba sommerse, tratto da Virgilio, “l'Eneide”; è il passo nel quale Enea, appena disceso nel regno dell'oltretomba, è colpito dalle voci e dai pianti dei bambini morti. Il sonetto è scritto per la perdita del figlio Dante, avvenuta il 9 novembre 1870, all’età di tre anni per meningite. Questa morte riacutizza l’antico dolore per il tragico suicidio del fratello minore Dante più volte rievocato nella poesia carducciana.
    Forma metrica: Sonetto con schema ABAB, ABAB; CDC, DCD. La lirica è in forma di dialogo con il fratello morto, Dante ed è composta da 2 quartine e due terzine.

    fonte:http://www.parafrasando.it/

     
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