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parafrasi e poesie di-Giacomo Leopardi

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    Giacomo Leopardi


    GIACOMO LEOPARDI (Recanati, 1798 – Napoli, 1837)

    - nacque da famiglia nobile

    - salute fragile→non è vista dal poeta come motivo di commiserazione

    - vive rinchiuso fin dall’infanzia→solitudine forzata da egli stesso e dal padre

    studia greco, latino, ebraico

    traduce Omero



    1. “FASE DELL’ERUDIZIONE” (fino al 1818)

    2. “FASE DEL BELLO” (1818-1820) + PESSIMISMO STORICO

    - compone per ottenere la gloria poetica

    concetto derivato dal tradurre epica

    - poesie che ricalcano lo stile classico

    - poesia degli antichi vs poesia dei moderni “Discorsi di un italiano sulla (sentimentale) poesia romantica”



    autentica perché è imitazione delle poesie degli

    l’uomo ha un rapporto antichi su base razionale→ non c’è

    diretto con la natura rapporto diretto con la natura

    1819→tenta di fuggire da Recanati (“il paterno ostello”)→idealizzazione mondo esterno

    Inizio stesura Zibaldone

    1822→viaggio a Roma→ disillusione del mondo esterno

    _________________FINE PESSIMISMO STORICO____________________________________

    inaridimento della

    produzione poetica

    3. PESSIMISMO COSMICO→”OPERETTE MORALI” (1824-1827)

    (trattati filosofici)

    4. FASE PISANO-RECANATESE (1828-1831)-SECONDA ETA’ POETICA→ritorno alla poesia

    5. 1831-1837 “LEOPARDI EROICO”→”Tramonto della luna”

    “La ginestra” (1837)

    _______________________________________________________________________________

    PESSIMISMO STORICO →la natura è madre, elemento positivo

    L’uomo soffre perché non gli è dato più vivere in modo autentico (come gli antichi)il rapporto con la natura a causa del progresso

    Perché è legato al periodo storico→al 1800 (il “secol superbo e sciocco”→perché crede nel progresso)

    TEORIA DEL PIACERE→ l’uomo ha un desiderio infinito vs natura finita dei singoli piaceri,

    di piacere (di star bene) limitati nel tempo

    • insoddisfazione dell’uomo

    • la natura interviene per aiutare l’uomo

    • infanzia e adolescenza→l’immaginazione salva dal dolore

    • giovinezza→la natura instilla le speranze

    • con l’età matura c’è “l’apparir del vero”→si smette di illudersi e arriva il dolore

    il piacere si ha dunque nel ricordo

    POETICA DEL VAGO E DELL’INDEFINITO→uso di termini vaghi ed indefiniti, sciolti dalla realtà, che richiamano qualcosa che è lontano→fanno riemerge così i ricordi

    →stimolano l’immaginazione

    a. Ultimo canto di Saffo (1822)→leggenda secondo cui Saffo si sarebbe uccisa in seguito ad una delusione d’amore

    - natura dilettosa e tranquilla vs. animo di Saffo in tumulto per la delusione



    prima strofa a lei è più simile il temporale

    soffre: per la delusione

    perché non può essere parte della bellezza della natura→ il destino è stato crudele con lei

    - destino di infelicità inspiegabile

    - identificazione Saffo-Leopardi→1.entrambi sono deformi e non possono partecipare della bellezza della natura

    2. poeti entrambi

    -primo passaggio verso il pessimismo cosmico (ultima strofa)→riconosce un destino avverso a tutti gli uomini

    b. Infinito (1819) - risponde alla necessità dell’uomo – essere finito – di trascendere i suoi limiti sensoriali

    - abbandono all’immaginazione che ha funzione consolatoria (non è necessaria la vista per immaginare)

    - poetica del’indefinito e del vago tematica

    termini→interminati spazi, ultimi, infinito silenzio

    gerundivi

    - l’uomo trova piacere nel naufragare nel mondo dell’immaginazione

    c. La sera al dì di festa (1820)

    - Natura tranquilla vs animo del poeta

    - Brevità della vita

    - Attesa per il dì di festa vs dì di festa

    giovinezza età adulta→disillusione delle speranze

    riposte nella domenica e nella vita

    speranze e ansie

    (anche qst comunque

    negate al poeta)

    ________________________________________________________________________________

    LE OPERETTE MORALI (1824-1827)

    • Leopardi approda al PESSIMISMO COSMICO

    o Si passa dal valore positivo della natura ad un atteggiamento ostile→ la natura è matrigna, indifferente se non ostile nei confronti dell’uomo e di tutte le creature in ogni momento (non è legato al momento storico)

    o la natura infatti instilla nell’uomo un desiderio di felicità infinita a cui non potrà mai giungere a causa della sua natura finita

    o la natura non si cura delle sofferenze umane

    o la ragione dà la possibilità all’uomo di comprendere la sua infelicità

    o l’unico obbiettivo della natura è la propria conservazione attraverso il naturale ciclo di nascita e morte a cui anche l’uomo è sottoposto→ si approda quindi al meccanicismo e organicismo

    o l’uomo non è al centro dell’universo→critica al cristianesimo e alle correnti positiviste e cristianesimo

    o il piacere è un momento di respiro breve dal dolore, non è vera felicità

    1822: viaggio a Roma disillusione del mondo esterno

    Inaridimento vena poetica

    OPERETTE MORALI

    • prose sottoforma di dialogo con temi di tipo filosofico

    o riflessione sull’illusorietà dell’infelicità

    o piacere come momento di non dolore

    o natura indifferente e ostile (Dialogo della Natura e un Islandese)

    o derisione della visione del mondo antropocentrica e finalistica (cristianesimo in particolare)

    Dialogo tra uno gnomo e un folletto

    • Tecnica: atteggiamento straniante ossia guardare da un altro punto di vista

    • Stile satirico e ironico→freddo distacco e alta indifferenza del poeta, oggettività

    ZIBALDONE→diario in cui Leopardi annota argomenti di tipo letterario e filosofico tra il 1818 e il 1832

    Edito nel 1898

    LA SECONDA ETA’ POETICA→FASE DELLA RIMEMBRANZA –PISANO RECANATESE

    (1827-1830)

    • Recupero degli affetti attraverso il meccanismo del ricordo→poetica della rimembranza

    • Il tema centrale è la caduta delle illusioni con la scoperta del vero

    • I temi vengono presentati sottoforma di interrogazione

    domande retoriche

    • Deciso ma pacato scontro con la natura

    • Spunti autobiografici ricordi

    figure collocate in un presente senza tempo, ideale (es Silvia)

    • Poetica dell’indefinito e del vago

    • Lingua più dolce e melodiosa MA argomento duro e aspro

    • Poesia ancora con valenza consolatoria

    • Struttura della poesia parte autobiografica

    arte speculativa→i indagine

    a. A Silvia (1828)

    • La morte di Silvia diventa allegoria della caduta delle speranze e l’apparire del vero

    • Poetica della rimembranza

    • Silvia mostra l’unico destino dell’uomo:il morire

    b. La quiete dopo la tempesta (1829)

    • Teoria del piacere come gioia dovuta alla momentanea cessazione del dolore→dopo un temporale si apprezza la mancanza di dolore e questa è la massima felicità a cui l’uomo può aspirare

    • Andamento gnomico

    • Sarcasmo verso la natura che dà all’uomo come unico piacere la cessazione momentanea del dolore

    c. Il sabato del villaggio (1829)

    • Attenzione per le figure del popolo

    • Sabato vs domenica

    attesa per il giorno - caduta di tutte le illusioni che si

    di festa (domenica) erano riposte nella domenica

    - si guarda al “travaglio usato”(di nuovo la settimana)

    felicità e speranze

    GIOVINEZZA ETA’ ADULTA

    Negatività del piacere Leopardi invita il garzoncello a non

    - consiste in speranze e attese affrettare il giungere della maturità

    - il piacere è possibile solo nel ricordo

    o sperando

    d. Canto notturno di un pastore errante dell’Asia (1829-1830)

    • Pastore è simbolo dell’intera umanità

    o Canto primitivo perché primitive sono le sue domande

    o Le sue domande sono semplici e rappresentano l’animo più profondo dell’intera umanità

    • Che cos’è la morte e la vita?

    • Che cosa siamo (v.89)?

    • Che cos’è l’universo?

    • La figura del pastore è preso dalle Bucoliche di Virgilio

    • Silenzio della luna→rappresenta la non risposta a queste domande

    • Notte è adatta agli interrogativi più profondi (anche ne “la sera del dì di festa” e “Alla luna”)

    • Si è nati per provare dolore→veniamo consolati fin dalla nascita

    • la vita è un nulla che va verso il nulla→ateismo di leopardi

    • confrontare Dialogo tra la Natura e un islandese →perché mai la natura continua a mantenere in vita l’uomo e perchè l’uomo continua a procreare?

    • Leopardi conclude pessimisticamente sentenziando che nascere è solo un dolore

    e. Il passero solitario (1831-probabilmetne più tardi)

    • Leopardi fa una considerazione della propria gioventù nella maturità

    • Confronto passero__________Leopardi



    L’ULTIMO LEOPARDI: “IL LEOPARDI EROICO” (1831-1837)

    • L. abbandona Recanati

    • Non si deve più crogiolarsi nella rimembranza ma si deve accettare con chiara e lucida consapevolezza il proprio dolore

    • Ergersi dell’uomo contro la Natura

    L’uomo ha diritto di vivere la propria vita in modo felice

    • Leopardi non ha bisogno di conforto ma è necessario che tutti gli uomini insieme si ergano EROICAMENTE contro la Natura (SOLIDARISMO UTOPICO)→ la Natura infatti non è più indifferente ma apertamente ostile

    • Fine della poetica del vago e dell’indefinito

    • Leopardi critica:

    o L’ottimismo del progresso scientifico che ha la presunzione di migliorare la condizione umana sono entrambe

    o Lo spiritualismo cattolico che vedeva nella sofferenza un disegno ottimiste

    provvidenziale→critica l’uomo che accetta il dolore in vista di qualcos’altro

    “Ciclo di Aspasia” (1831-1834) scritto in seguito alla delusione d’amore per Fanny

    “la Ginestra”(1836-1837) Targioni Tozzetti→ultima mera illusione d’amore

    Potenza vivificatrice che può riscattare la nullità della vita

    Ultimo ammonimento a sé stesso, per non lasciarsi abbandonare alle speranze

    LA GINESTRA (1836-1837)

    o Testamento filosofico di Leopardi

    o Scritto a Napoli e prende spunto dall’eruzione del Vesuvio (la forza della natura)

    o Atteggiamento eroico di fronte alla natura→ essa è ostile e dal riconoscimento di questa ostilità e dall’accettazione del proprio dolore deve nascere un atteggiamento solidale fra tutti gli uomini

    o La ginestra è simbolo della sopravvivenza e dell’atteggiamento eroico→essa si piega alla natura ma non si spezza

    Non è credersi immortali ma eroismo è umile accettazione del dolore e delle difficoltà

    o Pompei è immagine vivente della fragilità umana→l’uomo continua a credersi immortale quando invece l’unica immortale è la natura

    o Leopardi si scaglia contro:

    • Lo spiritualismo cristiano→crede che tutto sia destinato alla felicità dell’uomo

    • Razionalismo e positivismo→sostiene che la scienza sia un mezzo per facilitare l’uomo e sostiene la centralità della razionalita umana

    o L’Ottocento è visto dall’uomo come il secolo del progresso→in verità quel progresso è un regredire

    o Similitudine uomo/formiche→necessarietà della solidarietà degli uomini

    o La grandezza dell’uomo sta nel fatto che può riconoscere il suo misero stato

    o STILE: - rinuncia della poetica del vago e dell’indefinito

    - poetica romantica dell’orrido

    - lingua difficile e aspra




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    ° stagione: giovinezza
    L’infanzia e gli anni di studio
    Giacomo Leopardi nasce il 29 giugno del 1798 a Recanati. Precocemente, a soli dieci-undici anni, Giacomo, compone già vari testi poetici, le prime prose, traduce le odi di Orazio.

    2° stagione: filologica
    Seguono sette anni di ‘studio matto e disperatissimo’ come lo definisce lui stesso.
    Tra le pareti ancora oggi immutate di palazzo Leopardi trascorrono i “sette anni di studio”, anni che ne compromettono irrimediabilmente la salute. Nasce in questi anni di reclusione nella biblioteca paterna una vocazione alla filologia.

    3° stagione: erudita
    Dall’erudizione al bello-La Poesia
    E’ il 1816 l’anno in cui più distintamente la nuova vocazione si fa sentire. Prende avvio un diario d’eccezione, lo Zibaldone di pensieri, destinato a raccogliere riflessioni e appunti di vario genere.
    Leopardi trova un interlocutore in grado di comprenderne la grandezza in Pietro Giordani. Dalla immediata e reciproca stima nasceranno una durevole amicizia, primo grande varco aperto nel muro della reclusione recanatese, e una attivissima corrispondenza epistolare; maturano più spiccati interessi letterari e poetici.
    Il 1818 è l’anno in cui Leopardi rivela la sua vocazione poetica, con il primo scritto che abbia valore di manifesto poetico: il Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica.
    Nel 1819 è colpito da una grave malattia agli occhi che gli impedisce non solo di leggere, ma anche di pensare, tanto che più volte medita il suicidio.

    4° stagione:"conversione filosofica
    1818-1822: grande periodo creativo. Egli sta male fisicamente. Tenta la fuga (che però è scoperta) da Recanati, divenuta ormai insopportabile dimora.
    Dalla poesia alla filosofia
    Matura in questo clima la cosiddetta “conversione filosofica”, ossia il passaggio dalla poesia alla filosofia, dalla condizione “antica” alla “moderna”.
    L’elaborazione del pensiero leopardiano
    Pensiero strutturale delle opere: da un pessimismo individuale ad un pessimismo storico- pessimismo eroico o titanismo, preso atto del dolore , mettiamoci assieme per soccorrere (ginestra, fiore sul vulcano che si lascia coprire dalla lava e rinasce).
    Ø Compone in questo periodo:
    - i piccoli idilli: l’infinito,alla luna, la sera del dì di festa;
    - composizione canzoni civili (all’Italia);
    - sopra il monumento di Dante
    - canzone dedicata ad Angelo Mai.
    - ode dedicata alla sorella Paolina
    - ad un vincitore di pallone
    - canzoni filosofiche o di alto stile
    - l’inno ai patriarchi
    - brutominore
    - ultimo canto di Saffo
    Dal 1820 intanto prende avvio il disegno delle Operette morali.
    Attraverso una schiera di personaggi, alcuni storici (Cristoforo Colombo,Torquato Tasso), altri fantastici, spesso personificazioni di enti astratti inanimati (la Terra, la Luna, la Natura, ecc..), sono impietosamente processati i pregiudizi sui quali si fonda il comune senso del vivere. La verità, ingrata all’uomo e per questo sempre negata, finalmente s’impone, rivelando che la vita è un deserto, o una biblica valle di lacrime, e la natura è indifferente al destino delle sue creature.
    Le Operette morali sono racconti che riflettono sulla vita, natura, si passa dal pessimismo storico al pessimismo cosmico.
    Il dolore non è individuale né storico ma coinvolge tutto il cosmo.
    Il pessimismo
    Nuova stagione di un pessimismo che vede Leopardi gradatamente allontanarsi dall’alveo dell’ortodossia cristiana.
    L’approccio ai filosofi sensisti e illuministi (Diderot , Montesqieu) apre il varco ad una riflessione sempre più avversa ad ogni professione di fede, sino a posizioni di dichiarato e irriducibile ateismo e agnosticismo.

    5° stagione: delusione romana
    L’abbandono di Recanati
    Dal novembre del 1882 al maggio del 1823 si colloca il soggiorno a Roma, presso gli zii materni.
    La capitale si rivela però una grossa delusione: mediocri i letterati e gli uomini in genere, mediocre il livello del dibattito letterario.
    Il lavoro editoriale
    Nel 1825 parte per Milano ed in settembre è a Bologna. I contratti stipulati con l’editore milanese Stella gli garantiscono una rendita mensile che limita l’odiosa dipendenza dalle finanze paterne.
    Intraprende una serie di viaggi per lavoro – Milano, Bologna, Firenze, Roma. Torna a Recanati più disilluso di prima con un peggioramento delle condizioni fisiche.
    La partecipazione al dibattito culturale contemporaneo
    A Firenze entra in contatto con gli uomini della maggiore rivista italiana di quegli anni, che dà voce alla nuova cultura progressista e liberale.
    Egli avvertì presto la distanza che lo separava da uomini e idee a suo giudizio ingenuamente ottimisti e fiduciosi.
    L’insofferenza, sempre più acuta, per le nuove utopie liberali, del tutto incompatibili con la sua concezione del mondo, di segno diametralmente opposto. L’isolamento di Recanati è spezzato per sempre.

    6° stagione: - Il periodo dei ”grandi idilli“ e gli ultimi anni
    Nel 1828 Leopardi è a Pisa ed è il periodo in cui scrive una poesia intitolata ”il Risorgimento” che segna la ripresa della poesia e i Grandi Idilli (A Silvia, le Ricordanze, la Quiete dopo la tempesta, il sabato del villaggio, il passero solitario); poi ancora a Firenze e, nel novembre, di nuovo a Recanati, dove lo chiamano la morte precoce del fratello Luigi e altri problemi di famiglia. Ciò produce nel suo animo un indicibile cumulo di emozioni e di ricordi.

    7° stagione: - L’ULTIMO LEOPARDI(1830-1837) - il ”ciclo di Aspasia”
    Il ritorno a Firenze, insieme alla prima edizione dei Canti vede nascere l’amore per Fanny Targioni Tozzetti, musa ispiratrice del cosiddetto “ciclo di Aspasia” e l’amicizia con Antonio Ranieri.
    Non più fantasma giovanile, non più illusione perduta o ideale improbabile (come nella canzone "Alla sua donna"): il tema dell’amore torna ora in una forma e con accenti del tutto rinnovati.
    Con "A se stesso", l’esperienza amorosa è recuperata alla certezza di un presente di disinganno, di totale negatività, confluendo così nella poetica eroica dell’ultimo Leopardi. Il linguaggio poetico leopardiano si è profondamente rinnovato: definitivamente superata la poetica del vago e dell’indefinito, decaduta la funzione tanto della memoria che del paesaggio, domina l’espressione essenziale, spoglia, quasi arida e disadorna, di oggetti e sentimenti. Lo sguardo del poeta si posa ora sulla realtà presente con lucida percezione della sua finitezza.
    Dal '33 al '37 vive a Napoli dove compone due grandi liriche: Il tramonto della luna e La Ginestra. Nel 1837, a soli trentanove anni, muore improvvisamente per l’aggravarsi dei mali che lo affiggevano da tempo.
    La nuova vena satirica
    Accanto a note di alto lirismo e a nuovi accenti di passione e di disperazione nel ciclo amoroso, la maggiore novità dell’ultima stagione di Leopardi è forse rappresentata dall’emergere di una vena satirica.
    Sono testi dove prende forma la più dura critica dei falsi idoli della modernità (la scienza, la cultura, la tecnica, l’industria, la politica, i giornali, accusati tutti di mentire riguardo alle supreme, negative certezze che costituivano ormai per Leopardi un credo assoluto e incontrovertibile).
    Nasce quella che Binni ha definito la “nuova poetica leopardiana”. Torna, insieme alla derisione satirica dell’ottimismo del secolo, alla condanna della stessa capacità di illudersi che affligge il genere umano (esemplare in questo A se stesso) un nuovo desiderio di argomentare.
    La ginestra costituisce la prova maggiore dell’ultimo Leopardi e quasi il suo testamento spirituale, sospeso tra sarcasmo per la follia di uomini che si credono quasi dei signori della natura e padroni del proprio destino, e pietà per la rovina che incombe sul loro capo senza ch’essi se ne avvedano.
    Riflessione filosofica e poesia
    La Ricchezza del linguaggio leopardiano sembra consistere non tanto nell’eccezionalità lessicale quanto nello spessore semantico delle parole e nella capacità di orchestrare registri diversi (lirico negli idilli, oratorio nelle canzoni, satirico nella Palinodia e nell’ultima produzione), talora persino nell’ambito di uno stesso testo, come nel caso della Ginestra. Leopardi ripropone la linea più alta della nostra lirica, in chiave nuova.
    Così, proprio nel momento in cui la rivoluzione romantica metteva in crisi la nostra tradizione Leopardi tornava a riproporla come ancora capace di interpretare la condizione drammatica dell’uomo moderno.
    In queste ultime prove muta sensibilmente anche il linguaggio poetico leopardiano, che, dopo l’estrema purezza e rarefazione dei”grandi idilli”, intraprende una strada nuova, fatta di inusitate dissonanze lessicali e di strutture sintattiche ora di straordinaria ampiezza (specie nella Ginestra), ora di scheletrica essenzialità (per esempio in A se stesso).
     
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    Parafrasi de “Il passero solitario” di Giacomo Leopardi

    Dalla cima dell’antico campanile, O passero solitario, vai cinguettando verso i campi finché non si fa sera e il suono melodioso si diffonde in questa valle. Si sente tutto intorno la primavera e si diffonde in tutta la sua pienezza per i campi così che a guardare commuove il cuore degli uomini. Si sentono le pecore belare e le mucche muggire, gli altri uccelli volano lieti nel cielo gareggiando tra loro, inneggiando la gioventù e la primavera, tu O passero riflessivo, guardi tutto lontano dagli altri, non stai con gli altri passeri, non voli, non ti importa di divertirti, eviti i divertimenti; canti, e così trascorri la primavera e la giovinezza.

    Povero me, come ti assomiglio! Non mi preoccupo del divertimento e delle risate che caratterizzano la gioventù, di innamorarmi, doloroso rimpianto dei giorni della vecchiaia. Non so perché mi comporto così, anzi scappo lontano da loro, quasi isolato ed estraneo, al mio paese natale, trascorro la giovinezza della vita. È consuetudine festeggiare questa giornata che sta ormai finendo al nostro paese. Si sentono nel cielo il suono delle campane e si sentono spesso i colpi dei fucili che rimbombano lontano. La gioventù del paese col bel vestito lascia le case e si riversa per le strade ed è ammirata dai compagni. Io, da solo andando in questo luogo isolato della campagna, rimando ogni divertimento in un altro momento e intanto il sole che tramonta luminoso, e sembra dire che la giovinezza finisce.




    A un vincitore nel pallone


    Di gloria il viso e la gioconda voce
    Garzon bennato, apprendi,
    E quanto al femminile ozio sovrasti
    La sudata virtude. Attendi attendi,
    Magnanimo campion (s'alla veloce
    Piena degli anni il tuo valor contrasti
    La spoglia di tuo nome), attendi e il core
    Movi ad alto desio. Te l'echeggiante
    Arena e il circo, e te fremendo appella
    Ai fatti illustri il popolar favore;
    Te rigoglioso dell'età novella
    Oggi la patria cara
    Gli antichi esempi a rinnovar prepara.
    Del barbarico sangue in Maratona
    Non colorò la destra
    Quei che gli atleti ignudi e il campo eleo,
    Che stupido mirò l'ardua palestra,
    Nè la palma beata e la corona
    D'emula brama il punse. E nell'Alfeo
    Forse le chiome polverose e i fianchi
    Delle cavalle vincitrici asterse
    Tal che le greche insegne e il greco acciaro
    Guidò de' Medi fuggitivi e stanchi
    Nelle pallide torme; onde sonaro
    Di sconsolato grido
    L'alto sen dell'Eufrate e il servo lido.
    Vano dirai quel che disserra e scote
    Della virtù nativa
    Le riposte faville? e che del fioco
    Spirto vital negli egri petti avviva
    II caduco fervor? Le meste rote
    Da poi che Febo instiga, altro che gioco
    Son l'opre de' mortali? ed è men vano
    Della menzogna il vero? A noi di lieti
    Inganni e di felici ombre soccorse
    Natura stessa: e là dove l'insano
    Costume ai forti errori esca non porse,
    Negli ozi oscuri e nudi
    Mutò la gente i gloriosi studi.
    Tempo forse verrà ch'alle ruine
    Delle italiche moli
    Insultino gli armenti, e che l'aratro
    Sentano i sette colli; e pochi Soli
    Forse fien volti, e le città latine
    Abiterà la cauta volpe, e l'atro
    Bosco mormorerà fra le alte mura;
    Se la funesta delle patrie cose
    Obblivion dalle perverse menti
    Non isgombrano i fati, e la matura
    Clade non torce dalle abbiette genti
    Il ciel fatto cortese
    Dal rimembrar delle passate imprese.
    Alla patria infelice, o buon garzone,
    Sopravviver ti doglia.
    Chiaro per lei stato saresti allora
    Che del serto fulgea, di ch'ella è spoglia,
    Nostra colpa e fatal. Passò stagione;
    Che nullo di tal madre oggi s'onora:
    Ma per te stesso al polo ergi la mente.
    Nostra vita a che val? solo a spregiarla:
    Beata allor che ne' perigli avvolta,
    Se stessa obblia, nè delle putri e lente
    Ore il danno misura e il flutto ascolta
    Beata allor che il piede
    Spinto al varco leteo, più grata riede.


    PARAFRASI


    Il poeta, dunque, incitava il giovane sportivo a conoscere il volto della gloria e la sua “gioconda voce”, auspicando che fosse duratura; quella stessa gloria che egli stesso aveva sempre cercato e amato; una gloria che, una volta conquistata, fosse mantenuta anche presso i posteri, così come gli antichi che non si accontentavano di “un effetto piccolo e passeggero l’immaginazione spinge sempre verso quello che non cade sotto i sensi. Quindi verso il futuro e la posterità, perocché il presente è limitato e non può contentarla; è misero ed arido, ed ella si pasce di speranza, e vive promettendo sempre a se stessa. Ma il futuro p una immaginazione gagliardissima non debbe aver limiti; altrimenti non la soddisfa. Dunque ella guarda e tira verso l’eternità”.

    Ed è forse “ men vano/della menzogna il vero?” Forse che le opere dell’uomo sono più “serie” di un gioco? Non è forse vero che esercizi e giochi che erano utili agli antichi per mantenere vigoroso il corpo, servivano soprattutto a “mantenere il vigor dell’animo, il coraggio, le illusioni, l’entusiasmo che non saranno mai in un corpo debole”?

    Questa Canzone ci potrebbe offrire diversi spunti per un’attualizzazione efficace in questo nostro tempo che vede scomparsi, non solo ogni illusione, ma addirittura ogni valore dall’orizzonte dell’esistenza; un periodo storico, il nostro, che alcuni chiamano “di transizione” , altri “di decadenza” in cui, secondo la visione leopardiana, ci si lascia “esistere” senza pretendere di “vivere”…

    Ancora potremmo affermare che la fatica del corpo può ammortizzare i mali dell’anima? Ci pare sia, in primis, doveroso fare una distinzione tra la fatica derivante dallo svolgere un qualche lavoro manuale e quella che segue un’attività sportiva. Una successiva diversificazione andrebbe fatta guardando alle motivazioni interiori che spingono un uomo a dedicarsi a quest’ultima. Infine dovremmo guardare alla modalità con la quale uno sport viene praticato.

    Per Leopardi, autore di una “teoria del piacere”, “lo spettacolo della vita occupata, laboriosa e domestica, sembr lo spettacolo della felicità” e i “piccoli fini della giornata” che consistono nel provvedere ai propri bisogni quotidiani, fanno sì che l’uomo si senta riempito da quei piccoli progetti e non soffra di quel male oscuro che tormenta l’uomo di pensiero. Noi potremmo interpretare questa riflessione come un apprezzamento di quel lavoro manuale che, al tempo di Leopardi, era rappresentato da tutto quel piccolo e fattivo mondo rurale recanatese e che, oggi, viene, per così dire, “usato” come terapia per sanare deviazioni derivanti da uso di droghe e di alcool da parte di tanti giovani che, stanchi di “esistere”, ad essi si abbandonano. E certamente risulta ancora valido ciò che pensava Giacomo e cioè che “a voler vivere tranquillo, bisogna esser occupato esteriormente”. Il lavoro manuale che consente di non logorare il corpo con il pensiero è oggi diventato il miglior rimedio per tanti giovani malati nell’anima prima che nel corpo.

    Il giovane Leopardi, che dava un immenso valore alla vitalità, riconosceva come nei moderni fosse assai minore quella “vita” che invece spronava gli antichi a grandi imprese. E Carlo Didimi, campione sportivo contemporaneo, anch’esso impegnato in grandi imprese, sia pure sportive, era veramente colui che faceva rivivere, ai suoi occhi, quella carica che animava giovani greci.(1)

    E’ ancora il Leopardi che crede nelle antiche virtù, quando ancora la ragione non aveva corrotto lo stato naturale e l’educazione fisica avevano una loro dignità non ancora umiliata dalla rinuncia agli aspetti fisici della vita.

    Accanto al motivo ludico e sportivo appare nella canzone quello patriottico. Non per niente essa fu composta subito dopo a “Nelle nozze della sorella Paolina”, con la quale ha in comune “una spinta più volitiva, nel raccordo anche con l’attualità, nel tema della patria decaduta e quindi nel contrasto tra l’esemplarità del passato greco-romano e la decadenza di un’epoca corrotta dall’eccesso della ragione”.

    Leopardi indica al giovane atleta i suoi doveri nell’abbozzo intitolato “Ad un vincitore nel pallone”. Egli deve abituarsi a cose grandi, deve coltivare l’entusiasmo, apprezzare come la vita operosa e gloriosa sia ben altro che quella inerte ed oscura, com’è dolce il sapore della gloria, com’è amabile la gloria della patria. Così usavano i Greci nei loro giochi. La vita è miseria ed è bello gettarla via, spregiarla per il bene altrui e della patria.



    “Aggiungo poi questo ancora. Nego che la mortalità negli stati antichi fosse maggiore altro che in apparenza. Lascio i tiranni, lascio i capricci, le passioni, le voglie de’ principi, e non cerco se queste costino alla umanità più sangue, che non i disordini e le turbolenze di un popolo libero. Dico che la vitalità negli stati antichi era tanto maggiore che nei presenti, non solo da compensare abbondantemente ogni cagione o principio di mortalità, ma da preponderare, e far pendere la bilancia dalla parte della vita: brevemente, dico che la somma della vita negli stati antichi era maggiore che nei presenti; e questo non già per cause accidentali, o in maniera che potesse non essere: ma per cause essenziali, e inerenti alla natura di quegli stati; anzi tali, che tolti quegli stati, o simili a quelli, la somma della vita non può essere se non molto minore; la vitalità fuori di quelli o simili stati, non può esser tanta.
     
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    Parafrasi"All'Italia", di Giacomo Leopardi


    PARAFRASI


    Italia, io vedo i tuoi monumenti antichi, ma non la tua gloria. Non vedo la gloria poetica e militare dei nostri avi. Tu ora mostri, da inerme, fronte e petto senza ornamenti, se non le ferite livide e sanguinolente. Come ti vedo ora, o donna bellissima!
    Chiedo al cielo e al mondo chi ti ha ridotto così. La cosa peggiore è che è incatenata, in modo che sta seduta a terra, senza nessuno che le dia attenzione, i capelli arruffati, senza velo, e nasconde la faccia tra le gambe e piange.
    O Italia, piangi, perché ne hai ragione, tu che sei nata per dominare i popoli nella buona e cattiva fortuna. Se i tuoi occhi fossero sorgenti, non potresti mai piangere abbastanza per la tua rovina. Sei stata padrona, ora sei servetta. Chi parla o scrive di te deve per forza ammettere, ricordando il tuo passato, che sei stata grande e non lo sei più.
    Dov'è finita la tua forza antica? Il valore militare? Chi ti ha tolto la gloria militare? Chi ti ha tradito? Quale inganno o quale forza o potere ti hanno tolto la gloria? Come o quando sei riuscita a perderla?
    Nessuno combatte per te? Nessuno dei tuoi abitanti ti difende? Io combatterò e mi farò uccidere per te. Cielo, fa' che la mia morte infiammi i cuori degli Italiani. Dove sono i tuoi abitanti? Gli Italiani, a quel che sento, combattono all'estero. Aspetta, Italia.
    Io vedo avvicinarsi un esercito. Non ti rallegri a sentire questa notizia e non sopporti di piegare gli occhi a questo evento sul quale hai dubbi?
    Perché i giovani italiani combattono laggiù? O Dei, combattono per un'altra terra! Infelice è chi muore in guerra non combattendo per la patria, ma è ucciso per un altro paese e non può invocare la patria morendo: "ti rendo la vita che mi hai dato".
    Fortunati gli antichi, che potevano combattere per la patria e voi Termopili, dove pochi soldati fermarono con gloria i Persiani. Tutto quel paesaggio narra a chi passa di lì la morte di quegli uomini devoti alla libertà della Grecia. A quel tempo, vigliacco e crudele, Serse se ne tornò a casa attraverso l'Ellesponto, con vergogna, e sul colle d'Antela, dove i 300 Spartani morirono conquistando l'eternità della gloria, saliva Simonide, guardando il paesaggio; piangendo, ansimando, con piede malfermo, prendeva la lira e così poetava: Fortunatissimi voi che avete combattuto contro il nemico per amore dela patria, onorati dalla Grecia e ammirati da tutti per l'amore della patria il quale vi ha fatto morire. Quanto felice vi sembrò la morte, per la quale felici avete ceduto al vostro destino? Tutti voi sembravate andare non a morire, ma a ballare o a mangiare: però eravate destinati a morire e non aveste vicino mogli e figli quando moriste senza il loro conforto e pianto, ma con quello dei Persiani.
    Come un leone salta addosso ad una mandria di tori e ne uccide uno, ne addenta un altro; così voi Greci facevate con i Persiani. Vedi uomini e bestie cadute, i carri e le tende intralcio per chi vorrebbe fuggire. Tra i primi fugge Serse. Vedi come insanguinati dal sangue persiano i Greci, vinti dalle ferite, muoiono tutti. Felicissimi voi, su cui il mondo parlerà e scriverà. Le stelle cadranno in mare e si spegneranno nelle sue profondità prima che la vostra gloria non sia rinnovellata. Il vostro sepolcro è un altare. Qui verranno le madri per mostrare ai figli il segno del vostro passaggio sulla terra. Anch'io mi inchino alla terra e la bacio: questa terra sarà lodata per sempre. Fossi morto anche io come voi qui. Se non è destino che muoia in battaglia per difendere la Grecia, possa la mia fama di poeta durare tanto quanto la vostra in futuro, se lo permettono gli Dei.


    <b>[size=14][font=Geneva] "Alla luna" di G. Leopardi - Parafrasi, struttura, analisi,



    [size=7][color=red] [color=red]Testo


    O graziosa luna, io mi rammento
    Che, or volge l'anno, sovra questo colle
    Io venia pien d'angoscia a rimirarti:
    E tu pendevi allor su quella selva
    Siccome or fai, che tutta la rischiari.
    Ma nebuloso e tremulo dal pianto
    Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci
    Il tuo volto apparia, che travagliosa
    Era mia vita: ed è, né cangia stile,
    0 mia diletta luna. E pur mi giova
    La ricordanza, e il noverar l'etate
    Del mio dolore. Oh come grato occorre
    Nel tempo giovanil, quando ancor lungo
    La speme e breve ha la memoria il corso,
    Il rimembrar delle passate cose,
    Ancor che triste, e che l'affanno duri!






    [color=red]Parafrasi


    Oh leggiadra luna, io mi ricordo
    che, si compie adesso un anno, sopra questo colle
    da quando venivo pieno d’angoscia a contemplarti:
    E tu stavi allora su quella selva
    Come fai ora, che tutta la rischiari
    Ma ai miei occhi il tuo volto appariva
    velato, offuscato e tremulo a causa delle lacrime
    che mi bagnavano gli occhi,
    perché la mia vita era travagliata, piena di tormenti e continua ad esserlo né cambia stile
    o mia diletta luna. E tuttavia mi procura piacere
    il ricordo, e il richiamare alla memoria il tempo
    del mio dolore. Oh com’è gradito
    negli anni della giovinezza, quando la speranza ha dinanzi a sé una lunga serie di anni
    e invece breve è il passato da ricordare,
    ricordare gli eventi passati,
    sebbene(il ricordo) sia doloroso, e le sofferenze durino ancora e ci facciano soffrire.

    Struttura

    Il testo si compone di 16 endecasillabi sciolti, distribuiti in quattro periodi sintattici. Il terzo (vv.10-12) inizia e finisce a metà di un verso, il che introduce nell'andamento della poesia una variante ritmica, rafforzata da enjambements con evidente valore espressivo (soprattutto al v. 13/14: quando ancor lungo/la speme e breve ha la memoria il corso). Le caratteristiche del linguaggio accostano questo idillio all' Infinito ; nel lessico ricorrono le parole tematiche "mi rammento", "ricordanza", "memoria", "rimembrar", così come nell'Infinito ricorrono "infinito", "interminati", "immensità".

    I versi 13-14 non erano presenti nelle edizioni del 1825 e del 1831, ma comparvero soltanto nell'edizione postuma curata da Antonio Ranieri nel 1845. È dunque verosimile che si tratti di un'aggiunta operata dal poeta negli ultimi anni di vita.

    Possiamo dividere l’idillio in 2 parti principali (vv. 1-10, vv. 11-16). Tale suddivisione è evidenziata dall’anafora “O graziosa luna/O mia diletta luna” che oltre a sottolineare i caratteri di questa dolce immagine chiude circolarmente l’idillio. La prima è a sua volta divisa in 2 sezioni: la prima (vv. 1-5) riguardante lo spazio, la seconda (vv. 6-10) riguardante il tempo.

    vv.1-5 equilibrio spaziale: spazio finito, rappresentato dalla selva illuminata da una luce velata e dal colle Tabor, e spazio infinito, rappresentato dalla luna che dall'alto tutto illumina con una luce ovattata e lattiginosa, velata dalle lacrime che scendono dagli occhi piangenti; il mondo infinito esercita uno straordinario fascino sul mondo finito e limitato

    vv. 6-10 equilibrio temporale: il momento presente che mette in moto il ricordo del tempo passato; fra i due momenti sembra non esserci frattura: è passato un anno ma non è cambiato nulla: il dolore è sempre lo stesso. Anche se nella gioventù grande è ancora la speranza e la fede in un futuro roseo e appagante e poche le cose da ricordare visto l'ancor breve corso dell'esistenza, quasi familiare è già la sensazione di dolore che avvolge l'anima del poeta in un'atmosfera ormai nebulosa e travagliosa.

    vv. 10-16 la ricordanza: il noverar, il rimembrar il passato e l'età del dolore "giova", è dolce ricordare nella gioventù le cose passate anche quando sono tristi e la loro tristezza non si è ancora spenta ma dura tuttora nel presente avvolgendo tutta l'esistenza in un travaglio che dura infinito anche quando il cammino della vita futura è ancora lungo e pieno di speranza e le cose da ricordare sono ancora poche.

    Analisi 1

    Nella poesia Alla luna troviamo il tema del ricordo, che dà all'uomo il senso di continuità fra passato e presente e gli permette di esercitare la facoltà poetica più importante, cioè l'immaginazione. Il momento presente mette in moto il ricordo del tempo passato; fra i due momenti sembra non esserci frattura: è passato un anno ma non è cambiato nulla: il dolore è sempre lo stesso. Il v. 9 esprime proprio questo rapporto passato/presente con i due verbi "era" e "è". Anche se nella gioventù grande è ancora la speranza e la fede in un futuro roseo e appagante e poche le cose da ricordare visto l'ancor breve corso dell'esistenza, quasi familiare è già la sensazione di dolore che avvolge l'anima del poeta in un'atmosfera ormai nebulosa e travagliata.

    Analisi 2

    Il poeta affida ad una “graziosa luna” le essenze del suo animo in una condizione di pessimismo storico, in una condizione in cui “grato occorre il rimembrare delle passate cose, ancor che triste”. Quando un dolore ci affligge, quando non si è appagati da ciò che la vita ha offerto, quando il nulla sembra pendere sull’anima, la speranza è l’unico monito che fa risorgere, ed innalzare dalle depressioni dell’esistenza; ma quando gli anni portano via con sé anche l’ultimo barlume di “speme”, il dolore è dolore, e nulla lo può attenuare. Ed è per questo che solo il ricordo dell’età giovanile si può insinuare pacato nell’animo di chi non ha più la forza di sperare, di attendere le gioie che verranno e di trarre dall’attesa, il proprio attimo di felicità. Alla luna è per tale motivo, opposto al grande idillio “A Silvia”. Ciò che separa le due opere è la consapevolezza dell’arido vero(operette morali), dell’infinita vanità del tutto, che spegne la speranza e rende il ricordo disperazione per il presente. Il Leopardi dei piccoli idilli, ed in questo caso di “Alla Luna”, si rifugia sul monte Tabor, su quel colle che a lui dava la percezione dell’infinito, per lasciarsi accarezzare dal ricordo del tempo in cui era convinto che il domani sarebbe stato migliore. L’attesa è motivo di serenità proprio come nel “sabato del villaggio”, in cui il messaggio del poeta è di non lasciarsi travolgere dallo sconforto, se la festa della vita giunge a tardare, poiché “tristezza e noia” recheranno le ore del domani. Solo perdendosi negli scenari della notte, il leopardi riesce a trasfondere le sue emozioni. La luna è una donna graziosa e diletta che s’inchina ad alleviare il pianto umano,dolce e lenitrice di dolore, scende a rischiarare la selva, a ridare nuovo vigore alla luce degli occhi del poeta velati dal pianto. Non vi è solo predilezione per i notturni lunari, ma un crollare nelle braccia di chi dà affetto, un espandere tutt’intorno i segreti del suo essere uomo. Serpeggia nel tessuto dell’opera leopardiana un’immagine di donna che vuole essere madre: anche il critico Amoretti, svolgendo un’analisi psicanalitica del poeta in questione, individua talune immagini che confermano l’onnipresenza di una madre che dà sicurezza. La luna è senz’altro una di queste immagini, la luna che presenta tutti gli attributi prima elencati; a ciò si aggiunge il colle, lo stesso dell’infinito, che dipinge sul telo dell’opera, i seni materni, gli stessi che ci danno sicurezza e protezione, che ci preservano dai prematuri colpi della vita. Dolcezza e pacatezza sono gli attributi dello stile del piccolo idillio. Lì dove c’è il ricordo, una luna che è madre, lo stile non può che rispondere con lievi ed ovattate atmosfere. Da un punto di vista fonico, colpisce il ricorrere frequente della consonante “l”: ( luna-volge-colle-allor- selva- nebuloso- tremulo- dolore- diletta), che ricrea un’atmosfera d’intimità e di pacato raccoglimento. Si notano inoltre varie “n” che immergono il poeta e il lettore nella quiete della notte e del ricordo. Ai versi della notte si aggiungono i versi della speranza nel ricordo, in cui si nota un ricorrere di “a” (ricordanza, noverar, etate). Il lessico è pervaso da termini che fonicamente e semanticamente esprimono la pace che il poeta assapora nel perdersi nelle atmosfere del passato (luna, colle, selva, luci, ricordanza, memoria, etate) ( –fonosimbolismo-). Trova spazio in tali versi la poetica della ricordanza con il ricorrere dei verbi di memoria (mi rammento, rimembrar- verbo sostantivato, noverar) e di sostantivi quali ricordanza. Vi sono aggettivi (graziosa, nebuloso, tremulo, travagliosa) che non soffocano l’immaginazione del poeta, cosicché anche l’infinito è accessibile ai suoi sensi; quindi gli attributi considerati mancano di qualsiasi concretezza e plasticità. Notevole è l’opposizione tra la speme e la memoria, il cui corso è per la prima lungo, per la seconda breve:a due termini che evocano immagini suggestive si uniscono attributi astratti ed indefiniti in accordo con la poetica leopardiana (raggiungimento dell’infinito che la realtà preclude all’uomo). Vi sono inoltre numerosi aggettivi possessivi che indicano l’intimità e la confidenza tra l’io e la luna (i due protagonisti). Dalla descrizione degli stati d’animo del poeta dinanzi alla luna, si giunge alla riflessione sul valore del ricordo della gioventù. Il passaggio è brusco: una cesura separa le due parti, che sono comunque poste in continuità dalla congiunzione “e”, che apre la seconda sezione dell’idillio e dalla sinalefe (luna). Quindi la struttura è unitaria, tant'è che ciascun periodo si apre con una preposizione congiuntiva: ma, e, oh, o; così anche la sintassi è alquanto lineare. Un’altra immagine retorica è data dall’identificazione della luna con la madre del poeta, metafora che esprime il senso profondo della psiche leopardiana. Per quanto riguarda il livello metrico, l’idillio consta di 16 endecasillabi sciolti; nel verso 10 la cesura prima menzionata separa all’interno del verso un settenario, che chiude in maniera circolare la prima sezione. Vi sono vari enjambements (v1-2-4-6-7-8-10-11-12-13) che rendono il ritmo estremamente fluido e pervaso da una segreta musicalità. Ciò che colpisce maggiormente è che gli enjambements mettono in posizione di rilievo, alla fine o all’inizio del verso, le parole chiavi del brano: rammento, colle, selva, pianto, luci per occhi, travagliosa, ricordanza, noverar l’etate del mio dolore, tempo giovanil, speme. Le cadenze musicali sono date anche dalla libertà metrica, con la presenza libera di rime anche interne: nebuloso-tremulo. Tutti gli elementi sottolineati rappresentano una pedina del mosaico chiamato “piccolo idillio”: in”Alla luna”, nascono e si espandono gli aneliti di vita, di speranza, di felicità, che ancora invadono gli orizzonti leopardiani. Nella vita del Leopardi dei piccoli idilli un istante di gioia infinita o d’immenso dolore giovanile sono fonte di pacati e dolci ricordi, che aiutano a sopravvivere nel mondo delle illusioni.

    Analisi 3

    La lirica “Alla luna”, scritto probabilmente nel 1819, fa parte dei “Piccoli idilli”, ovvero cinque testi comprendenti anche “L’infinito”, “La sera del dì di festa”, “Il sogno” e “La vita solitaria”. Questi sottolineano il passaggio di Leopardi verso dei componimenti di carattere soggettivo ed esistenziale, in contrapposizione al significato civile e tendenzialmente oggettivo delle contemporanee canzoni. In questi anni il poeta vive una condizione di pessimismo definito “storico”, poiché le sue radici risalgono al sensismo settecentesco nel quale la natura umana è predisposta verso il piacere infinito, solo che questa insopprimibile tensione si scontra con l’impossibilità di realizzarsi, portando così nell’uomo dolore, noia e insofferenza. Gli idilli dunque esprimono una condizione interiore, soggettiva, che si collega ad un bisogno di interrogazione e riflessione, rendendo di conseguenza anche lo stile più intimo e colloquiale. Infatti Leopardi rivolge due allocuzioni alla luna sua confidente: la prima nel verso iniziale, “Graziosa luna”, piuttosto fredda e formale, ma che con l’avanzare del dialogo diventa progressivamente più stretta e intima grazie anche all’uso del pronome possessivo, “Mia diletta luna” al verso 10. Il colloquio con la luna è un tema tipicamente preromantico nel quale il poeta, ritornando esattamente un anno dopo (“or volge l’anno) la sua ultima salita sul monte Tabor e rendendo nuovamente l’astro suo confidente, confessa le proprie angosce e inquietudini. In questo idillio la trasfigurazione della realtà attiva il motivo della rimembranza: il poeta ricorda di aver vissuto un anno angosciante come il presente, però la rimembranza è un’esperienza piacevole e comunque consolatoria, anche se gli oggetti del ricordo sono spiacevoli. Quindi il piacere degli anniversari sommato al piacere doloroso dei ricordi danno come risultato in Leopardi un potenziamento della propria vitalità psichica. “E pur mi giova” dice il poeta al verso 10 riferendosi al ricordo; con questo latinismo il poeta richiama la lezione di Pietro Bembo e la sua convinzione di Petrarca come modello lirico per eccellenza, ma, dimostrando la sua adesione sentimentale all’età degli antichi, richiama anche “l’Ultimo canto di Saffo”, testo conosciuto all’interno della biblioteca del padre.
    La luna è spesso scelta come rappresentante dell’indefinito perché con la sua luce illumina la realtà circostante, ma i contorni restano sfumati e non ben delineati, per questo era concepita dagli antichi come portatrice di illusioni benefiche. Il termine al verso 4 “pendevi” appartiene al lessico dell’indefinito, infatti rende l’idea di qualcosa che sfugge a ogni significato preciso; inoltre Leopardi richiama gli stessi suoni di espressione del verso precedente,“pien d’angoscia” , in modo da creare omofonia e musicalità.
    Nell’idillio “l’Infinito” , l’elemento che suscita nel poeta il senso dell’indefinito dello spazio è la siepe, la quale impedisce al poeta di vedere cosa si trova di fronte a lui, permettendogli così di immaginare sterminati spazi, sovrumani silenzi e profondissima quiete, tanto da provare sensi di smarrimento e paura. Intanto, udendo stormire le foglie mosse dal vento, il poeta pensa all’eternità, al tempo passato e quello presente, che sente vivo nel fruscio delle foglie. Così, tra queste immensità di spazio e di tempo si prede il suo pensiero, dicendo che “il naufragar gli è dolce in questo mare”. Poetica del vago e dell’indefinito si sviluppa in questo componimento attraverso l’immaginazione, mentre nell’idillio “Alla luna” attraverso la rimembranza.

    Commento 1

    La tematica del ricordo
    Il tema che domina la lirica è quello tipicamente leopardiano della rimembranza, che è anche il titolo originario della lirica: ricordare il passato, anche se doloroso, è fonte di piacere, perché se ne rievocano le illusioni. Il poeta osserva la luna, simbolo della forza rasserenatrice della natura, e le parla come ad una creatura cara. Egli rammenta che anche l'anno prima era salito su quel colle, ma il volto della luna era apparso tremolante ai suoi occhi velati di pianto. Nulla è cambiato da allora, il suo animo è ancora ricolmo di sofferenza, eppure ricordare il dolore di allora gli arreca sollievo.

    Le caratteristiche dello stile
    Il componimento può essere diviso in due sezioni. Nella prima (vv. 1-10) il poeta rievoca l'angoscia, il pianto e la propria immutata situazione. Nei primi cinque versi prevale la funzione persuasiva della lingua con l'invocazione alla luna (O graziosa luna), poi gradualmente si afferma la componente emotiva (Ma nebuloso e tremulo dal pianto...). In particolare l'enjambement dei versi 8-9 conferisce forza connotativa all'aggettivo (travagliosa / era mia vita) e dà rilievo al dolore: è più importante il carattere "travagliato" della vita che la vita in sé medesima. In questa scelta stilistica emerge la tendenza tipicamente leopardiana e romantica a considerare il dolore come valore assoluto. Il verso 9, nella sua rapida sintesi dell'immutato tormento del poeta (era mia vita: ed è, né Cangia stile), corrisponde al momento di maggiore drammaticità. Nella seconda sezione (vv. 10-16) la riflessione sulla dolcezza del ricordo trasforma l'angoscia in malinconia e chiude in perfetta simmetria la lirica, riprendendo nel verso 15 il motivo della ricordanza (il rimembrar delle passate cose) introdotto nell'incipit (O graziosa luna, io mi rammento).

    Commento 2


    Il chiarore lunare è fissità, luminosità pervasiva e bellezza struggente della natura, poiché in piena notte ridona alla terra la suggestione della luce . Il giovane Leopardi, attento osservatore di queste atmosfere, non può che esserne estasiato, intenerito fino alle lacrime. La notte infatti, con la sua quiete, rasserenante e fascinosa, pare invitare ad un dialogo intimo con la Natura, pare suggerire un rapporto di pienezza tra l'uomo e le cose altrimenti negato. Leopardi vive questo momento particolarmente intenso della sua sensibilità come idillio, cioè come avventura storica dell'animo, confrontandolo con un altra situazione emotivamente simile. Il confronto è capace di chiarire le ragioni del persistere della speranza negli adolescenti davanti a spettacoli di intensa bellezza, che suggeriscono un'attesa, seppur vaga ed indistinta, di possibile futura felicità.

    L'idillio fu composto a Recanati nel 1819 e pubblicato prima nel "Nuovo Ricoglitore" e poi, con il titolo La ricordanza, nell'edizione bolognese dei Versi del 1826. Nell'edizione fiorentina del 1831 fu pubblicato con il titolo attuale.

    A distanza di un anno il poeta torna a contemplare la luna che pende sul monte Tabor e la notte lunare rinnova la stessa sensazione di commozione di fronte alla natura, provata nella passata circostanza. Anche allora la sagoma della luna, il suo volto diafano gli appariva “nebuloso e tremulo” per le lacrime che gli sgorgavano dagli occhi, perché la vita per lui era “travagliosa”, segnata dal dolore come purtroppo è anche ora. Eppure il ricordo del passato, pur nel permanere della sofferenza, gli è di conforto, anche se si accompagna a sensazioni tristi e anche se l’affanno esistenziale ancora dura.

    Commento 3

    L’idillio “alla luna” si fonda su uno dei temi che più frequentemente ricorrono nella lirica leopardiana: il ricordo, che è per il poeta, fonte inesauribile di poesia e di piacere.
    Mentre osserva la Luna che splende nel cielo e illumina il colle Tabor, nei pressi della casa paterna, riaffiora alla memoria del poeta una situazione analoga che ha vissuto l’anno precedente. Anche allora guardava la Luna ma i suoi occhi erano velati di pianto per l’angoscia che lo opprimeva e continua a travagliarlo.
    In realtà nulla è mutato ma il ricordo del passato, anche se triste, racchiude in sé una particolare dolcezza. Il tempo infatti sfuma i contorni degli eventi e attenua l’intensità del dolore rendendo ogni cosa vaga, indeterminata.
    Poiché per Leopardi, tutto ciò che appare infinito, senza limiti precisi procura piacere, ecco che il ricordo, sia pure di eventi tristi, risulta dolce e gradevole, proprio perché è sfumato e incerto.

    La poesia si articola in due sezioni ciascuna delle quali è costituita da due periodi:

    • La prima sezione (versi 1-10),è occupata dal ricordo del passato ed è percorso da una nota di malinconia. Infatti il poeta rievoca l’immutabilità della sua condizione (versi 8-9).La sezione si apre e si chiude con una invocazione alla Luna: verso 1 “o graziosa Luna” e verso 10 “o mia diletta Luna”.Il componimento rispecchia la prima fase del pessimismo leopardiano quando la natura appare agli occhi del poeta come una madre benigna e confortatrice. Infatti tutti i termini riferiti alla Luna hanno connotazione positiva e le sue immagini comunicano sensazioni di vastità e di luminosità.
    • Nella seconda parte (versi 10-16) predomina la riflessione del poeta sulla funzione consolatrice del ricordo e sulla dolcezza che dal ricordo può scaturire.

    “Ricordanza” (11),”memoria” (14),”noverar l’etate” (11),”rimembrare”…sono tutte parole legate al tema del ricordo che sfuma al ricordo delle cose trasformando il presente in dolce malinconia.

    Secondo Leopardi il compito della poesia è suscitare nel lettore il piacere dell’immaginazione. Tale piacere nasce dal vago, dall’indefinito, dall’indeterminato e può essere conseguito mediante alcune scelte tematiche ed espressive.

    Scelte tematiche
    È poetico per Leopardi qualunque oggetto o luogo che susciti rimembranza perché ogni ricordo ha contorni indefiniti e vaghi.
    “Un oggetto qualunque, per esempio un luogo, un sito, una campagna, per bello che sia, se non desta alcuna rimembranza, non è poetico” – G. Leopardi.

    Commento 4

    L'idillio è tutt'uno, in ogni sillaba, con la rimembranza, cioè con il ricordo delle contemplazioni passate. Il poeta contempla la luna dalla cima del monte Tabor e ricorda che allo stesso modo saliva a contemplarla l'anno precedente e che il volto dell'astro appariva nebuloso e tremulo attraverso le sue lacrime; nè minori o diverse sono oggi le sue pene. Eppure come dolce e gradito è negli anni giovanili il ricordo di ogni cosa passata ancora che tris
     
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    Alla primavera o delle favole antiche G. Leopardi, Parafrasi

    alla primavera o delle favole antiche g.leopardi!!!! te ne sarò grata a vita...

    Perché i celesti danni
    Ristori il sole, e perché l'aure inferme
    Zefiro avvivi, onde fugata e sparta
    Delle nubi la grave ombra s'avvalla;
    5Credano il petto inerme
    Gli augelli al vento, e la diurna luce
    Novo d'amor desio, nova speranza
    Ne' penetrati boschi e fra le sciolte
    Pruine induca alle commosse belve;
    10Forse alle stanche e nel dolor sepolte
    Umane menti riede
    La bella età, cui la sciagura e l'atra
    Face del ver consunse
    Innanzi tempo? Ottenebrati e spenti
    15Di febo i raggi al misero non sono
    In sempiterno? ed anco,
    Primavera odorata, inspiri e tenti
    Questo gelido cor, questo ch'amara
    Nel fior degli anni suoi vecchiezza impara?

    20Vivi tu, vivi, o santa
    Natura? vivi e il dissueto orecchio
    Della materna voce il suono accoglie?
    Già di candide ninfe i rivi albergo,
    Placido albergo e specchio
    25Furo i liquidi fonti. Arcane danze
    D'immortal piede i ruinosi gioghi
    Scossero e l'ardue selve (oggi romito
    Nido de' venti): e il pastorel ch'all'ombre
    Meridiane incerte ed al fiorito
    30Margo adducea de' fiumi
    Le sitibonde agnelle, arguto carme
    Sonar d'agresti Pani
    Udì lungo le ripe; e tremar l'onda
    Vide, e stupì, che non palese al guardo
    35La faretrata Diva
    Scendea ne' caldi flutti, e dall'immonda
    Polve tergea della sanguigna caccia
    Il niveo lato e le verginee braccia.

    Vissero i fiori e l'erbe,
    40Vissero i boschi un dì. Conscie le molli
    Aure, le nubi e la titania lampa
    Fur dell'umana gente, allor che ignuda
    Te per le piagge e i colli,
    Ciprigna luce, alla deserta notte
    45Con gli occhi intenti il viator seguendo,
    Te compagna alla via, te de' mortali
    Pensosa immaginò. Che se gl'impuri
    Cittadini consorzi e le fatali
    Ire fuggendo e l'onte,
    50Gl'ispidi tronchi al petto altri nell'ime
    Selve remoto accolse,
    Viva fiamma agitar l'esangui vene,
    Spirar le foglie, e palpitar segreta
    Nel doloroso amplesso
    55Dafne o la mesta Filli, o di Climene
    Pianger credè la sconsolata prole
    Quel che sommerse in Eridano il sole.

    Né dell'umano affanno,
    Rigide balze, i luttuosi accenti
    60Voi negletti ferìr mentre le vostre
    Paurose latebre Eco solinga,
    Non vano error de' venti,
    Ma di ninfa abitò misero spirto,
    Cui grave amor, cui duro fato escluse
    65Delle tenere membra. Ella per grotte,
    Per nudi scogli e desolati alberghi,
    Le non ignote ambasce e l'alte e rotte
    Nostre querele al curvo
    Etra insegnava. E te d'umani eventi
    70Disse la fama esperto,
    Musico augel che tra chiomato bosco
    Or vieni il rinascente anno cantando,
    E lamentar nell'alto
    Ozio de' campi, all'aer muto e fosco,
    75Antichi danni e scellerato scorno,
    E d'ira e di pietà pallido il giorno.

    Ma non cognato al nostro
    Il gener tuo; quelle tue varie note
    Dolor non forma, e te di colpa ignudo,
    80Men caro assai la bruna valle asconde.
    Ahi ahi, poscia che vote
    Son le stanze d'Olimpo, e cieco il tuono
    Per l'atre nubi e le montagne errando,
    Gl'iniqui petti e gl'innocenti a paro
    85In freddo orror dissolve; e poi ch'estrano
    Il suol nativo, e di sua prole ignaro
    Le meste anime educa;
    Tu le cure infelici e i fati indegni
    Tu de' mortali ascolta,
    90Vaga natura, e la favilla antica
    Rendi allo spirto mio; se tu pur vivi,
    E se de' nostri affanni
    Cosa veruna in ciel, se nell'aprica
    Terra s'alberga o nell'equoreo seno,
    95Pietosa no, ma spettatrice almeno.




    Composta all'inizio del 1822, la canzone, che segue il modello petrarchesco, è composta di cinque strofe, ognuna di 19 versi. In essa, il poeta esprime la sua convinzione che, mentre si rinnova ogni anno la primavera nella natura, non è possibile per il genere umano ritrovare quell'epoca - l'antichità, primavera della storia - in cui esso godeva di un'immaginazione fervida e poteva così cogliere segni di vita e presenze misteriose e divine in ogni aspetto naturale. Lo sviluppo della civiltà ha portato la conoscenza del vero e la perdita di quella facoltà immaginativa.

    La poesia si chiude con una supplica alla natura perché ascolti l'infelicità degli uomini, se non pietosa almeno spettatrice; ma qualche verso prima un inciso (v. 91 "se tu pur vivi") rivela come ormai Leopardi non nutra più alcuna illusione.





    Parafrasi "A Silvia", di Giacomo Leopardi


    Silvia, ricordi ancora quando eri in vita

    Quando la tua bellezza splendeva, nei tuoi occhi ridenti e schivi,

    e tu lieta e pensierosa ti apprestavi al passaggio dall’adolescenza alla maturità.



    Suonavano le stanze tranquille e le strade al tuo continuo canto,

    quando tu eri intenta ai lavori femminili, sedevi contenta per il tuo avvenire ancora da definire.

    Era Maggio e tu eri abituata a lavorare.



    Talvolta lasciavo gli studi piacevoli e quelli faticosi su cui trascorrevo la mia adolescenza e veniva spesa la migliore parte di me.

    Dalle stanze e dai balconi della casa paterna io ascoltavo la tua voce. E ti immaginavo lavorare con fatica alla tela.

    Guardavo il cielo sereno, le vie illuminate, e la campagna intorno,

    Da questa parte il mare e dall’altra parte le colline.

    Non ci sono parole giuste per esprimere i sentimenti che provavo nel mio cuore.



    Che bei pensieri,

    che speranze, che cuori, o Silvia mia!

    Come ci sembrava allora la vita umana e il destino!

    Quando mi ricordo di tanta speranza

    Un sentimento molto forte mi opprime e torno a dolermi della mia sfortuna.

    O natura, o natura, perché non mantieni le tue promesse? Perché ci inganni?



    Prima che giungesse l’inverno, venivi uccisa da un dolore forte e morivi o tenerella, e non vedevi la tua adolescenza.

    Non ti struggeva il cuore, le lodi dei ragazzi per i tuoi capelli neri ora dei tuoi sguardi innamorati e schivi.

    E con te le tue amiche non parleranno d’amore durante i giorni di festa.



    Anche la mia speranza morì poco tempo dopo: anche a me il destino ha negato la giovinezza. Ahi come sei passata cara compagna della mia infanzia, mia compianta speranza!

    Questo è quel mondo? Sono questi i divertimenti, l’amore, le opere, gli eventi di cui abbiamo tanto discusso insieme?

    E’ questa la sorte degli esseri umani? All’apparire della verità tu moristi: e con la mano indicavi da lontano la fredda morte ed una tomba spoglia.




     
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    Commento L'infinito di Leopardi


    La struttura

    Quest’idillio è diviso in due parti perfettamente simmetriche che durano circa 7 versi e mezzo; la prima parte descrive il paesaggio mentre la seconda parte è più riflessiva.
    In questa poesia è presente l’uso degli endecasillabi sciolti, vale a dire una serie indefinita di endecasillabi non rimati, però, nonostante ci sia assenza di rima la poesia è teatro di un gioco ritmico, la sua rigida, infatti, struttura viene rotta dagli enjambement.
    Quest’ultimi, inoltre, rallentano lo scorrere delle immagini suscitate dai versi facendo risalire più in fretta il tema di fondo del componimento.
    Le scelte lessicali di Leopardi si avvalgono dell’uso di parole vaghe, indefinite, che lasciano al lettore la possibilità di interpretare la poesia secondo il proprio stato d’animo, inoltre queste parole “annebbiate” danno un senso più lieve e poetico e rendono molto meglio l’idea d’infinito.
    Nella parte conclusiva dell’opera l’abbandono all’infinito è reso attraverso l’uso di metafore che hanno come termine di paragone il mare, nella sua profondità e mutevolezza, nella sua apparenza superficiale.

    Spiegazione

    Il Leopardi nella prima parte descrive un paesaggio familiare che illustra delle immagini a lui care come il colle che si erige solitario. La siepe è per lui un ostacolo alla vista materiale, ma un incentivo per attivare la sua immaginazione che si amplia verso sterminati spazi, sovrumani silenzi e profondissima quiete, che rappresentano un po’ le tre dimensioni, piano, altezza e profondità, di uno spazio infinito. Questa profondissima quiete però non è intesa come silenzio, ma come immobilità, la stessa immobilità che accompagnata al silenzio riesce a spaventare il cuore del poeta tanto è infinita la sua grandezza.
    L’autore è riportato alla realtà dal rumore del vento che muove le fronde delle piante intorno a lui, questo rumore gli ricorda le voci dell’epoca presente in cui vive, mentre quell’infinito silenzio è il portavoce delle epoche passate. L’infinito e l’eterno sono rispettivamente riferite allo spazio e al tempo, eterno sia nel passato sia nel futuro, ma non nel presente perché esso è solo un attimo, questi due elementi uniti assieme riescono a formare la sintesi dell’Immensità, dove il pensiero del Leopardi va a picco, poiché non ce la fa a racchiudere in sé questa grandezza, ma nonostante questo perdersi in questa immensità, in queste riflessioni è gradevole.

    Interpretazione

    La capacità dell’uomo di far sorgere in se un’immaginazione del vago e dell’indefinito, in un luogo della semplice vista delle cose, è dolce e piacevole, ed è tipica dei fanciulli e degli uomini dell’età antica.
    Questa sensazione sta all’origine delle illusioni.
    Si tratta della sensazione - esperienza di un “oltre” rispetto alla semplice vista delle cose: ma un oltre che non esiste, che è solo prodotto dell’immaginazione umana, anche se l’uomo desidera perdersi in esso, lo trova una cosa dolce.
    In quest’idillio è aperta una via verso la dolcezza di queste sensazioni: ma esse rimangono semplicemente costatate e narrate dal poeta, non vengono interpretate dando al lettore la possibilità di naufragare nell’immensità che solitamente il pensiero umano può solo sfiorare.

    -----------------------------------------------------------

    Più che mai in questa breve composizione comunica il profondo senso di solitudine piena di dolore calmo e raccolto. Fa da sfondo all’esperienza della sua anima il paesaggio che è parte di un ambiente paesano e famigliare. La sofferenza del Leopardi acquista una risonanza cosmica, come se nella sua tristezza si esprimesse la voce dolente degli uomini di tutti i luoghi e di tutti i tempi.

    La natura eterna appare serena ed impassibile di fronte al pianto e alla rassegnata malinconia dei mortali. Il luogo della riflessione del poeta è il monte Tabor di Recanati ma nella lirica appare lontano dalla realtà, ci troviamo nel mondo della fantasia, il luogo appartato ci suggerisce, però, la solitudine de poeta ed il suo isolamento.

    La siepe rappresenta l’impedimento, la forza che pone dei limiti invalicabili alla conoscenza dell’uomo, ma è gradita perché gli desta per contrasto, l’immagine dell’infinito spaziale e temporale, gli permette di spaziare con la fantasia. Si costruisce col pensiero spazi interminabili, che si estendono al di là dalla siepe e li riempie di un silenzio infinitamente superiore ad ogni umano silenzio.

    La fantasia ha dato libero spazio al sentimento ha potuto creare una pace ed una immobilità divine, approdo sognato e distacco dall’agitato ed irrequieto mondo umano. L’animo del Leopardi dell’essere finito, supera i limiti sella sua individualità e si sperde, smarrito, in quell’infinita vertiginosa vastità, che cancella ogni traccia della propria piccolezza. Il vento che passa fra le foglie e le fa stormire rappresenta un lieve sussurro se paragonato all’immaginato sovrumano silenzio.

    Rappresenta la storia degli uomini sullo sfondo del tempo infinito. Le età ormai scomparse (le morte stagioni) sono state un momentaneo bisbigliare di foglie mosse dal vento e di loro non è rimasta alcuna traccia. Avverrà così anche per l’epoca presente viva oggi per un attimo prima di smarrirsi e scomparire nell’immensità del tempo. Questo smarrirsi nell’immensità dell’infinito è come un naufragare in un mare aperto, soltanto in questo modo l’animo del poeta trova la sua quiete in questo immergersi nell’infinito.

    Commento

    La poesia è una fuga fantastica, e la fuga fantastica è un'esperienza sensistica, oggetto della realtà sensibile che fa scattare la fuga. L'incipit ci proietta in questa relatà concreta (il colle e la siepe); il "questo" è un elemento deittico che rafforza il realismo. Colle e siepe sono cari perché impediscono la vista, spingendo ad immaginare; c'è quindi un rapporto causa-effetto tra "caro" ed "esclude" (è "caro" perché "esclude").

    L'uomo, non vedendo con gli occhi, è invitato a vedere con la mente. C'è continuità semantica tra "interminati" e "sovrumani", in clausola di versi, e tra "spazi" e "silenzi", in incipit. "Interminati", "sovrumani" e "profondissimi" ben suggeriscono l'infinità di spazio in cui si muove la fantasia per il significato che hanno che per la loro lunghezza (4-5 sillabe).

    Tale è la grandezza degli spazi che il cuore sobbalza: "per poco il cor non si spaura"; dà sensazione di smarrimento. Mente e cuore, abituati a vivere nel finito, quasi si smarriscono nell'infinito. Il v. 8 lega perfettamente le 2 sequenze: il continuum è reso a livello formale su tutti i piani, c'è un movimento lirico assolutamente unitario.

    Il punto fermo a metà del verso divide perfettamente i due momenti, uniti da "E". Prima c'è un momento visivo, poi uditivo. Si crea una corrispondenza assolutamente perfetta tra le due parti della poesia e tra le 2 fasi dell'esperienza: "questo colle", "questa siepe", "queste piante", "questa voce". Lo "stormir" del vento è un suono vago e lontano, indefinito, sussurrato. "Questo" delinea il tangibile; "quello" il remoto. I numerosi enjambement trascrivono il continuum, tracciano una linea continua dall'inizio alla fine del canto. Nel polisindeto c'è l'opposizione finito-infinito, presente-passato. Significa il susseguirsi incalzante dei movimenti interiori. Il naufragio, lo smarrimento, è "dolce", termine che rimanda al "caro" del v. 1. L'esperienza di questo canto dà all'uomo l'illusione del piacere infinito cui esso aspira. E' una poesia consolativa: consola l'uomo, in quanto non potrà mai raggiungere il piacere infinito.

    La poesia è un'illusione indispensabile per quest'uomo dolente. La poesia del "caro immaginar" nasce dal più lucido razionalismo, e per questo è strettamente legato all' "arido vero". La prima fase dell'esperienza, l'entrata nell'infinito, provoca paura, mentre la seconda dà un senso di infinita beatitudine. "Questa immensità" mostra proprio come l'uomo sia entrato nell'infinito. Questa esperienza estatico-mistica non è un percorso, come in Dante, alla ricerca dela verità, ma per fuggire la verità.





    Parafrasi "Ultimo Canto Di Saffo", di Giacomo Leopardi


    Oh placida notte e trasparente raggio della tramontante luna; e tu stella di venere che annunci il giorno fra la silenziosa selva da sopra la rupe; voi foste ai miei occhi dilettose e care sembianze, fino a quando non vissi le furie dell’amore e il mio spietato destino; il dolce spettacolo della natura non rallegra gli animi infelici. Una felicità inconsueta ravviva noi (animi infelici), quando l’onda dei venti turbina nell’aria limpida, e quando il tuono, tuonando sopra di noi, squarcia l’aria tenebrosa del cielo. A noi piace stare tra le nebbie e ci piace andare per le colline e per le profonde valli, a noi piace vedere la disordinata fuga delle greggi impaurite, a noi piace sentire il fragore e il movimento dell’onda di un fiume in piena presso la pericolosa sponda.

    Il tuo manto è bello, o divino cielo, e tu, o terra rugiadosa, sei bella. Ahi gli Dei e la sorte crudele non fecero partecipare in alcun modo alla povera Saffo di così tanta infinita bellezza. Io, addetta ai tuoi supremi regni, come una vile e fastidiosa ospite, e come un’amante disprezzata, o natura, rivolgo invano e supplichevole il mio cuore e i miei occhi alle tue belle e graziate forme. Il soleggiato luogo e il mattutino albore non mi sorride; né il canto dei colorati uccelli né il mormorio dei faggi mi sorride; né un luogo mi sorride dove il chiaro rivo fa scorrere le sue limpide acque e sottrae, mostrando sdegno, le sue serpeggianti acque al mio malfermo piede che nella fuga urta le profumate rive.

    Di quale colpa, di quale misfatto gravissimo mi resi colpevole prima della mia nascita, così che il cielo e la sorte mi mostrarono un volto tanto ostile? In che cosa peccai bambina, quando la vita è priva di misfatti, quando poi privata della giovinezza e del fiore della vita, così che il filo oscuro della mia vita fosse filato nel fuso dell’implacabile Parca? La tua bocca fa domande inspiegabili; una legge misteriosa muove i predestinati eventi; tutto ciò che accade nell’universo è misterioso, tranne il nostro dolore. Noi uomini siamo una specie disprezzata e nascemmo per dolerci e la ragione del nostro dolore è posta sulle ginocchia degli Dei. Oh desideri, oh speranze, della mia più verde gioventù! Giove ha dato dominio duraturo sulle genti alle forme, alle belle forme; e la virtù non appare nelle grandi imprese, né nella dotta poesia né nel canto, se posta in un corpo disadorno.

    Morirò. E dopo che il mio corpo indegno rimarrà a terra, la mia anima nuda fuggirà verso Dite, dio degli inferi, e correggerà il tremendo e crudele errore del cieco dispensatore dei casi. E tu, Faone, a cui un lungo amore e una lunga fedeltà e una inutile passione mai appagata mi tenne legata, vivi felice se mai un uomo mortale è vissuto felice sulla terra. Giove non mi ha bagnata con il suo prezioso liquore conservato nella piccola ampolla, cosi ché le illusioni e i sogni della mia fanciullezza perirono. Ogni giorno più lieto della nostra età per primo fugge. La malattia, la vecchiaia ed infine la gelida morte subentra. Ecco, adesso, solo il Tartaro mi resta, fra i tanti sognati onori e i lusinghevoli sogni della giovinezza ora troncati dalla realtà e, qui, dalla morte imminente; e la tenaria Proserpina e la buia notte e la silenziosa riva già posseggono il mio alto e raro ingegno.
     
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    Parafrasi"La sera del dì di festa", di Giacomo Leopardi


    La notte è dolce, chiara e senza vento. La luna illumina i tetti, gli orti e fa vedere le ombre delle montagne lontane. O signora, i sentieri sono già deserti e si vedono poche lambade accese nelle case. Tu dormi, perché il sonno ti ha accolto nella tua tranquilla stanza. E non hai preoccupazioni, tu non sai quanto sto soffrendo per te. Tu dormi, io mi affaccio a salutare la natura onnipossente che mi ha negato anche la speranza e che mi ha condannato alla tristezza. Questo giorno è stato di festa e degli svaghi, riposati. Forse in sogno ricorderai i tuoi coetanei a cui piacevi e quelli che piacevano a te; io non sarò nei tuoi pensieri e manco ci spero. Intanto io chiedo quanto tempo mi resta da vivere e dal dolore mi butto per terra. Oh, che giorni orrendi ho in questa giovinezza. Non lontano per la via sento il canto solitario dell’artigiano che ormai a sera tardi torna alla sua povera casa. E con rabbia penso al tempo che passa senza lasciare orma. Ora è passato il giorno di festivo che lascia posto al giorno feriale. E il tempo porta con sé ogni faccenda umana. Dove sono andati a finire i tempi antichi e l’antica Roma? Tutto è in silenzio e il mondo è qui. Quando ero bambino aspettavo ansiosamente il giorno di festa che passava veloce e premevo la testa contro il cuscino per non piangere, già allora soffrivo.




    Parafrasi "La Quiete dopo la Tempesta", di Giacomo Leopardi


    La tempesta è passata, sento gli uccelli far festa, e la gallina, tornata sulla strada che ripete il suo verso. Ecco che il sereno rompe le nuvole là da occidente, verso la montagna; la campagna si libera dalle nubi e lungo la valle appare chiaro e ben distinto il fiume. Ogni animo si rallegra, da ogni parte riprendono i soliti rumori e riprende il consueto lavoro. L’artigiano, con il lavoro in mano, si avvicina cantando verso l’uscio a guardare il cielo umido; esce fuori la giovane ragazza (la popolana) per vedere se sia possibile raccogliere l’acqua della pioggia da poco caduta; e l’ortolano ripete di sentiero in sentiero il consueto richiamo giornaliero. Ecco che ritorna nel cielo il sole, eccolo che sorride per i poggi e per i casolari. La servitù apre le finestre, apre le porte dei terrazzi e delle logge: e dalla strada principale si sente un tintinnio di sonagli; il carro del viandante che riprende il suo viaggio stride.
    Ogni animo si rallegra. Quando la vita è così dolce e così gradita come ora? Quando l’uomo si dedica con così tanto amore alle proprie occupazioni come in questo momento? O torna al lavoro? O intraprende una nuova attività? Quando si ricorda un po’ di meno dei suoi mali? Il piacere è figlio del dolore, è solo una gioia vana (un illusione), frutto del timore ormai passato, è frutto di quella paura che scosse chi odiava la vita ed ebbe terrore della morte; a causa della quale le persone fredde, silenziose, pallide sudarono ed ebbero il batticuore nel vedere fulmini, nuvole e vento diretti a colpirci.
    O natura benevola, sono questi i tuoi doni, sono questi i piaceri che tu porgi ai mortali. Fra noi il piacere è uscire dalla paura, cessare di soffrire. Tu spargi in abbondanza dolore; il dolore nasce spontaneamente: e quel nostro piacere che ogni tanto per prodigio e per miracolo nasce dal dolore, è un gran guadagno. O genere umano caro agli dei! ti puoi ritenere molto felice se ti è concesso di tirare il respiro da qualche dolore: ti puoi ritenere beato se la morte ti guarisce da ogni dolore.





    Parafrasi "Imitazione", di Giacomo Leopardi


    ccata dal proprio ramo,

    povera foglia fragile (frale: debole, in balia del vento; foglia frale è un’allitterazione), dove vai?

    Il vento mi ha portato via dal faggio su cui sono cresciuta. Mi staccò (mi divise) il vento.

    Esso (il vento) cambiando di volta in volta direzione (tornando) volando sul bosco, sulla campagna, mi porta dalla valle alla montagna.

    Con il vento (seco) vado continuamente come un pellegrino, e non so nient'altro (e tutto l’altro ignoro: ignoro tutto ciò che sia diverso da questo essere portata dal vento; risponde all’interrogativo del v.3).

    Vado dove vanno tutte le altre cose, dove va naturalmente (naturalmente: per legge di natura) la foglia di rosa e la foglia d'alloro (forse si tratta di un riferimento alla fugacità della bellezza e della gloria).





    Parafrasi "Il sabato del villaggio", di Giacomo Leopardi


    La ragazza torna dalla campagna al tramonto con il fascio di erba da dare agli animali. Torna anche con un mazzo di rose selvatiche, dato che si vuole ornare il petto e i capelli per il giorno di festa.

    Davanti alla porta di casa siede con le vicine un’anziana con lo sguardo rivolto al sole che tramonta.

    Racconta la sua giovinezza, quando al giorno di festa si abbelliva e, ancora sana e snella, era solita ballare quelle sere con tutti gli amici.

    Già il cielo si scurisce e si tinge di blu e tornano le ombre giù dalle colline e dai tetti alla luce della luna appena sorta.

    Il suono di una campana dà il segno della festa che inizia e, a sentire quel suono, il cuore si conforta.



    I bambini gridano nella piazza, e saltano qua e là, fanno un rumore bello, e intanto alla tavola imbandita poveramente lo zappatore che pensa al suo giorno di riposo.



    Poi, quando tutte le luci sono spente, e tutto tace, senti ancora il falegname lavorare per ultimare il lavoro da consegnare l’indomani.



    Il sabato è il giorno più bello pieno di speranza e gioie; domani ci saranno tristezza e noia e si penserà al lavoro abituale.



    Ragazzo allegro, questa età fiorita è come un giorno di primavera, che precede la giovinezza.

    Fanciullo, apprezza questa tua età soave.

    Non voglio dirti altro, ma la tua età, anche se tardi a venire, non ti pesi.
     
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    Parafrasi "Canto Notturno Di Un Pastore Errante", di Giacomo Leopardi



    O luna, cosa fai tu nel cielo? Dimmi silenziosa luna, cosa fai? Sorgi di sera e vai contemplando i deserti; infine poi scompari. Non sei ancora sazia di ripercorrere sempre gli stessi percorsi? Non ti sei ancora nauseata, sei ancora desiderosa si osservare queste valli? La vita del pastore somiglia alla tua vita. Si alza alle prime luci dell’alba , spinge il gregge attraverso i campi, e vede greggi, fonti d’acqua ed erbe; poi giunta la sera si riposa ormai stanco: altro non spera. Dimmi, o luna: che valore ha per il pastore la sua vita, la vostra vita per voi? Dimmi: dove porta questo mio vagare breve, il tuo viaggio eterno?
    Un vecchietto con i capelli bianchi, malato, mezzo vestito e senza scarpe, con un grosso peso sulle sue spalle, corre via, corre, si affatica attraverso montagne e valli, su sassi pungenti, e sabbia alta, e sterpaglie, al vento e alla tempesta, e quando il tempo diventa caldo, e quando arriva il gelo, attraversa torrenti e stagni, cade, si rialza, e sempre più si affretta senza mai riposarsi o consolarsi, ferito, sanguinante; finché non arriva là dove la strada e tutta la sua fatica lo dovevano condurre: abisso orrido, immenso, precipitando nel quale egli tutto dimentica. O vergine luna, così è la vita degli uomini.
    L’uomo nasce con fatica, e la nascita rappresenta un rischio di morte. Per prima cosa prova pena e tormento; e all’inizio stesso la madre e il padre si dedicano a consolarlo per essere nato. Quando inizia a crescere il padre e la madre lo sostengono, e via di seguito sempre con gesti e con parole si impegnano ad incoraggiarlo, e a consolarlo di essere uomo.: altro compito più gradito non si compie da parte dei genitori verso i figli. Ma perché far nascere, perché mantenere in vita chi poi deve essere consolato per il suo stato? Se la vita è una sventura perché da noi dura? O luna intatta, questa è la situazione umana. Ma tu non sei mortale, e forse di ciò che io sto dicendo ti importa poco.
    Tuttavia tu, solitaria, eterna pellegrina, che sei così pensosa, tu forse riesci a comprendere che cosa sia questa vita terrena, le nostre sofferenze, il sospirare; che cosa sia questa morte, questo supremo impallidire del volto, e il venir meno ad ogni amata compagnia. E tu certamente comprenderai il perché delle cose, e vedrai il frutto del mattino, della sera, del silenzioso, tranquillo trascorrere del tempo.
    Tu certamente sai, tu, a quale suo dolce amore sorrida la primavera, a chi faccia comodo il caldo, e che cosa ottenga l’inverno con i suoi ghiacci. Mille cose sai tu, mille ne scopri, che sono nascoste al semplice pastore. Spesso quando io ti osservo stare così muta stare su nella pianura deserta, che in lontananza confina con il cielo; oppure con il mio gregge ti vedo seguirmi e spostarti pian piano; e quando osservo in cielo brillare le stelle; dico dentro di me pensando perché tante scintille? Che cosa significa lo spazio infinito e quel profondo cielo infinito? Cosa vuol dire questa interminabile solitudine? E io cosa sono? Così penso tra me e me e non riesco a trovare nessuna utilità, nessuno scopo ne dello spazio infinito e superbo, ne delle famiglie numerose , poi di tanto darsi da fare, di tanti moti, di ogni astro e di ogni cosa terrena. MA tu certamente, o giovinetta immortale, conosci tutto ciò. Questo io conosco e sento, che delle eterne rotazioni, che della mia esistenza fragile, forse qualcun altro ricaverà qualche vantaggio o qualche bene; per me la mia vita è dolore.
    Oh mio gregge che ti riposi, beato te, che credo non sei cosciente della tua miseria! Quanta invidia ho nei tuoi confronti! Non solo perché sei quasi priva di sofferenza; dato che ti dimentichi subito ogni stento, ogni danno ogni timore forte; ma più di tutto perché nn proverai mai noia. Quando tu stai all’ombra, sopra l’erba, tu sei calma e contenta; e in quello stato trascorri gran parte dell’anno senza provare noia. E anche io siedo sopra l’erba, all’ombra, e un fastidio mi occupa la mente, e un bisogno quasi mi stimola così che, sedendo, sono più che mai lontano da trovar pace e riposo. Eppure non desidero nulla, e fino ad ora non ho motivo per piangere. Di che cosa o quanto tu goda non lo so certamente dire; ma sei fortunato. E io, o mio gregge, godo ancora poco, né mi lamento solamente di questo. Se tu sapessi parlare , io ti chiederei: dimmi: perché giacendo comodamente senza fare nulla ogni animale si appaga; ma se io giaccio e mi riposo vengo assalito dalla noia?
    Forse se io avessi le ali per volare sopra le nuvole, e contare le stelle ad una d una, o come il tuono potessi viaggiare di montagna in montagna, sarei più felice, mio dolce gregge, sarei più felice, o candida luna. O forse il mio pensiero si discosta dalla verità, riflettendo sulla condizione degli altri: forse in qualunque forma avvenga, in qualunque forma o condizione, dentro una tana o una culla, il giorno della nascita è funesto a tutti.




    Parafrasi "Alla primavera o delle favole antiche", di Giacomo Leopardi

    Secondo un antico mito Filomela, dopo aver subito violenza e avere assistito a grandi atrocità, fu trasformata in usignolo. E cosí il “musico augel” che inizia il canto al tramonto ha goduto fama di essere esperto delle vicende umane: le sue note non sarebbero altro che un lamento per la sventura subita e per la triste condizione degli uomini.
    La consapevolezza scientifica (e filosofica) ha smascherato la fallacia del mito, ha distrutto l’illusione, ha restituito alla indifferenza della Natura il canto dell’usignolo che non è mosso da alcun dolore e che nulla ha a che vedere con il genere umano. Una indifferenza della Natura sempre piú evidente dopo la caduta delle illusioni del mito (“... poscia che vote / son le stanze d’Olimpo ...”): per tutti, giusti e ingiusti, l’unico destino destino è la fredda dissoluzione nella morte. Nell’ultima pagina dell’autografo Leopardi annota: “[...] oggi stante la mancanza delle illusioni, la terra stessa e l’albergo stesso dei vivi, è divenuto sede di morte, e tutto morto”.
    A questo punto – di fronte all’evidenza del Nulla – Leopardi vuole recuperare l’illusione degli antichi, la “favella antica”, che non è l’ingenuità del mito, ma, come le “Favole antiche” del titolo, la capacità comunicativa della fabula (dal latino for, faris, “io parlo” e, quindi, “io comunico”, “io esprimo”). La fabula mette l’uomo in comunicazione con la Natura; e proprio alla Natura si rivolge Leopardi negli ultimi versi per ristabilire il contatto e il dialogo che la razionalità scientifica sembrava avere interrotto per sempre: eppure tu vivi, o Natura, e non può non esserci sulla terra, o in cielo o nelle acque degli oceani qualcosa che, vivendo, rompa la tua indifferenza e ci degni almeno di uno sguardo.
    In questi versi, accanto ai temi consueti nel pensiero di Leopardi (la consapevolezza del Nulla, la capacità salvifica dell’illusione) ci sembra compaia quello, meno usuale, della innocenza della Natura. L’usignolo, spogliato della carica emotiva attribuitagli dal mito, diventa meno caro agli uomini, ma “di colpa ignudo”, come la Natura a cui esso è stato restituito, nascosto in fondo a una valle buia. L’innocenza della Natura carica di enormi responsabilità l’uomo, ma gli lascia aperta la strada per comunicare con lei, per poterla chiamare “vaga”, bella. In fondo questa nostra facoltà di fabulare è un suo dono).










    Parafrasi "Alla Luna", di Giacomo Leopardi



    O graziosa luna, mi ricorso che un anno fa io venivo a guardarti pieno d´angoscia sopra questo colle e ti affacciavi come fai adesso illuminando tutto. Ma il tuo volto mi appariva offuscato e tremante ai miei occhi in lacrime a causa della mia vita piena di dolore come lo è ora e non cambia mai! Eppure mi fa bene ricordare e raccontare il mio dolore. Oh come è gradito durante la gioventù, quando davanti c´é ancora tanta speranza e poca memoria del passato da ricordare anche se era triste e pieno di sofferenze che durano ancora adesso





    Parafrasi "A Se Stesso", di Giacomo Leopardi


    Ora, o mio cuore stanco, riposerai x sempre, nn avrai piu` motivo di palpitare ancora x qlcs ke ti puo` solo fare soffrire. E` morta anke l'ultima illusione quella ke io avevo creduto ke nn dovesse morire mai. Mori`, me ne rendo conto kiaramente, in te e in me, o mio cuore, si e` spenta nn sl la speranza ma anke il desiderio dei dolci inganni d'amore. smetti x sempre di sbattere, di soffrire. hai palpitato, hai sofferto abbastanza x amore. niente merita i tuoi palpiti e il mondo nn e` degno dei sospiri della tua sofferenza. la vita e` soltanto dolore e noia e niente altro, e il mondo e` qlcs di spregevole, privo di qualsiasi valore. calmati, dispera x l'ultima volta. il destino ha fatto al genere umano un solo dono: quello di morire. ormai, o mio cuore, disprezza te stesso, cioe` la tua inutile sensibilita`, la natura cosi` ostile e crudele e la cinica forza ke segretamente domina su tutto nn x il bene ma x il male dell'umanita`, il brutto potere ke kausa un danno comune, e l'assoluta inutilta` del tutto. [/color][/size] [/font][/color][/size]




    Davanti San Guido di Giosuè Carducci-parafrasi

    parafrasi


    Il poeta Giosuè Carducci sta viaggiando sulla linea Roma – Pisa in treno ed immagina che i cipressi che fiancheggiano la ferrovia dove lui giocava a Bolgheri, gli si facciano incontro e lo invitino a fermarsi. I cipressi alti e snelli dell’oratorio di san Guido a Bolgheri, formando un viale, sembrano al poeta, che li guarda dal treno in corsa, giovani giganti che corrono verso di lui e lo guardano. Lo riconoscono e gli chiedono, chinandosi con la cima piegata dal vento, di fermarsi perché la sera è fresca e lui conosce la strada. Lo invitano a fermarsi presso i loro alberi profumati, dove dal mare spira il vento impetuoso di nord-ovest e gli dicono che non conservano rancore per le sue “battaglie a colpi di sassi” perché in fondo non facevano male. Portano ancora nidi di usignoli e si lamentano che lui si allontani così in fretta. I passeri intersecano il cielo con voli. Il poeta risponde ai cipressi, sinceri amici dell’infanzia, che egli giudica migliore dell’età adulta, che volentieri si fermerebbe, ma chiede loro di lasciarlo andare perché ormai è un uomo maturo e ironicamente dice che, non per vantarsi, è diventato un uomo importante che capisce il greco ed il latino, scrive, ha tanti pregi e capacità e soprattutto non è più un ragazzo vivace ed impertinente e non tira più sassate alle piante (ma casomai invettive e battute polemiche agli uomini del suo tempo). Attraverso le cime che oscillano mosse dal vento, come chi scuote la testa per esprimere un dubbio o dire di no, passa, come un’onda, un brontolio ed il sole, che sta tramontando con un sorriso pietoso (cioè un riso un poco ironico e malizioso, ma senza cattiveria), splende rossastro in mezzo al verde cupo della vegetazione. Il poeta capisce che i cipressi ed il sole hanno un sentimento di pietà per lui ed improvvisamente il mormorare delle piante si trasforma in parole distinte. I cipressi hanno capito che non è altro che un uomo tormentato dagli affanni e dalle delusioni della vita. Il vento, sfiorando le case, porta via con sé l’eco dei sospiri degli uomini e conosce come dentro al petto del poeta brucino tormenti e passioni che egli non sa né può placare. Il poeta potrebbe raccontare alle querce ed ai cipressi la sua pena personale ed il dolore universale degli uomini in quel paesaggio sole sul mare, calmo ed azzurro, scende sorridente il sole. Il tramonto è pieno do voli e di stridi di uccelli, di notte si sentiranno i canti melodiosi degli usignoli. Lo invitano a rimanere ed a non seguire le idee e le passioni vane che sono colpevoli dell’infelicità dell’uomo perché lo staccano dalla semplicità della vita naturale. Le passioni (i pensieri agitati, torbidi, tristi ed angosciosi) nascono dalle profondità dei cuori umani sconvolti dai pensieri come i fuochi fatui dei cimiteri (mettono tanta para ma in realtà sono leggere fiamme vaganti prodotte dai gas che si sprigionano dove ci sono sostanze in putrefazione). Nell’ora del mezzogiorno (che per gli antichi era misteriosa e segreta), quando presso le querce i cavalli stanno nell’ombra muso a muso e introno tutto è pace nella pianura assolata, i cipressi gli canteranno quelle armonie che cielo e terra si scambiano tra loro eternamente e le divinità silvane, che abitano i tronchi delle piante, usciranno dagli olmi per ristorarlo dalla calura e sospingerlo a sognare ed il dio Pane (dio dei boschi e dei pastori) che, a quell’ora se ne va errando senza compagnia per i monti e le pianure, placherà l’insanabile contrasto dei suoi affanni nella divina serenità della natura. Ma il poeta non si può fermare, a Bologna lo aspetta la figlioletta, la Titì, piccola ancora e bisognosa di assistenza. Non si veste di piume come la passeretta a cui provvede madre natura, né si nutre di bacche di cipresso. A questo punto il poeta lancia una sassata polemica contro gli imitatori del Manzoni (quelli che in arte ed in politica si attenevano alle idee del Manzoni e principalmente accettavano le sue idee in fatto di lingua) che badano solo al guadagno e si accaparrano il maggior numero possibile di uffici e stipendi. Non essendo nel numero di costoro urge che il poeta si affretti ai suoi doveri di insegnante per provvedere ai bisogni della sua famiglia e lo fa con un saluto affettuoso e doloroso. I cipressi che hanno cercato di fermare il poeta con le lusinghe del paesaggio, cercano di fermarlo con il ricordo della nonna paterna tanto amata, Lucia Santini, morta nel 1843 e sepolta a Bolgheri. Al ricordo della nonna i “giganti giovinetti” si trasformano in un corteo funebre che si allontana mormorando. Dal dolce pendio per il verde viale dei cipressi ecco apparire al poeta alta e maestosa, vestita di nero, la nonna. Dalla sua bocca in mezzo ai bianchi capelli sgorgava la pura e schietta parlata toscana che molti non toscani imitano goffamente, con la malinconica e dolce inflessione della natia Versilia che è tanto cara al cuore del poeta. La lingua toscana, quando è parlata genuinamente, è nitida e soave come un antico componimento poetico (il sirventese era un antico metro poetico di origine provenzale che celebrava avvenimenti storici e poetici). Il poeta si rivolge al fantasma della nonna e vuole farsi raccontare, lui che con tutto il suo sapere non è riuscito a raggiungere, se non la felicità, almeno la tranquillità dell’animo, l’antica fiaba di “Amore e Psiche” (una fanciulla che aveva sposato un mostro ripugnante per volontà dei parenti, siccome viola il giuramento di non vederlo durante la notte quando riacquista il primitivo e bellissimo aspetto, viene abbandonata dal marito. Per ritrovarlo deve errare per il mondo per sette lunghi anni, consumare sette verghe di ferro per sorreggere i suo corpo stanco, colmare sette fiasche di lacrime… e quando finalmente ritrova lo sposo, questi è immerso in un profondo sonno, né a lei è possibile destarlo). Il Carducci modifica il finale del racconto originario che dice che lo sposo fuggiasco ritorna alla fanciulla commosso dai suoi sacrifici. Nella sorte della fanciulla abbandonata il poeta vede rispecchiata la propria sorte individuale di un uomo incapace di raggiungere gli ideali che si è proposto. Infatti continuando il discorso con la nonna dice che la favola non è soltanto bella, ma anche pena di amara verità. La felicità, la pace che ha cercato invano nei tanti anni è forse nella tranquillità del cimitero e della morte, sotto quel viale dove non soltanto spera, ma non pensa neppure più di fermarsi, ora che la vita lo ha ghermito con le sue necessità ed i suoi doveri. A questo punto la realtà lo riafferra, il treno corre ansimando affannosamente, mentre il poeta si sente triste e desolato. Una schiera di puledri, che in Maremma vivono liberamente nelle campagne, nitriscono, mettendosi a correre in gara con il treno, mentre un asino grigio continua con serietà e lentezza a mangiare il cardo dai fiori rosso turchino. La chiusura della poesia è simbolica: se il treno rappresenta il progresso o comunque la vita che va avanti ed i puledri sono l’immagine della giovinezza che insegue gioiosamente, ma vanamente, i sogni, la figura dell’asino può essere il simbolo degli uomini chiusi ad ogni ideale o anche della persona saggia che si accontenta delle cose che ha, senza lasciarsi distrarre dal chiasso e dai desideri inutili.

    Edited by Lussy60 - 2/9/2019, 22:33
     
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    "Il sogno" di Leopardi...parafrasi


    "Sogno di un'ombra è l'uomo". Il verso dell'ottava "Pitica" di Pindaro, citato da Leopardi nello Zibaldone è la prova del nulla dell'uomo. Condizione antica e moderna: di sempre. Ma i versi che seguono la famosa sentenza pindarica ci parlano di una luce che, a volte, scende dal cielo e fa dolce la vita. Paradossalmente Leopardi, che tace su questi versi, quando guarda al mondo antico lo vede illuminato da una luce non dissimile: la prossimità degli uomini agli dei, la poesia "tutta vestita a festa", e condivisa dal popolo, in un tempo in cui la parola del poeta era detentrice della verità, il "falso" era unito al "vero", il mito alla ragione. Con disincanto Leopardi si chiede quale sia il compito del poeta moderno: farsi filosofo per testimoniare la nuda verità? O mettersi in ascolto di una voce che - nonostante tutto - continua a riecheggiare dalla "prima condizione", riaprendo così alla possibilità dell'illusione e della bellezza, pur nel disinganno? Benché l'ineludibile dominio della ragione gli imponga di seguire la prima via, egli non si preclude la seconda purché il "cuore" sia disposto ad accoglierla. Ma che questa eco lontana possa farsi udire dipende da un inatteso momento di grazia, come per quel raggio che, per Pindaro, "rende più dolce la vita". Così Leopardi tiene miracolosamente insieme mito e ragione che l'illuminismo e, in modo rovesciato, il romanticismo, avevano separato.
     
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    La vita solitaria di Giacomo Leopardi.


    Introduzione alla poesia "La vita solitaria".

    Leopardi scrisse il canto "La vita solitaria", che chiuse l'esperienza dei primi idilli, tra l'estate e l'autunno del 1821. Lo spunto iniziale del canto, presumibilmente, indica che Leopardi scrisse la poesia ricordando un suo soggiorno nella casa di campagna di famiglia nella tenuta di San Leopardo, presso Recanati. Molti passi dello Zibaldone del 1821 si rifanno al tema della "vita solitaria" che era presente da tempo nella mente di Leopardi come si evince dai molti altri riferimenti letterari, insiti nel canto. Molti versi, infatti, fanno riferimento ad opere letterarie di Monti, di Pindemonte, di Parini e di Foscolo e riprendono, anche, versi di Odae adespotae che Leopardi aveva tradotto nel 1816. Iltema, inoltre, esprime il contrasto tra la vita della campagna e la vita delle città. Ma io, Biagio Carrubba, credo, che Leopardi abbia voluto esprimere il suo amore per una natura ritenuta ancora, soprattutto benigna. Questo sentimento di amore verso la natura cambierà radicalmente nel 1824. Nel canto la natura è soprattutto benigna, anche se in certi versi Leopardi già comincia a fare vedere la natura come madre matrigna ed indifferente verso gli uomini; dal 1824 in poi, nelle opere di Leopardi, scomparirà completamente il volto benigno della natura e rimarrà solo il volto maligno di essa.

    La Vita solitaria è composta da 107 versi e fu pubblicata per la prima volta nel "Nuovo Ricoglitore" del 1826.
    La mattutina pioggia, allor che l'ale
    Battendo esulta nella chiusa stanza
    La gallinella, ed al balcon s'affaccia
    L'abitator de' campi, e il Sol che nasce
    I suoi tremuli rai fra le cadenti 5
    Stille saetta, alla capanna mia
    Dolcemente picchiando, mi risveglia;
    E sorgo, e i lievi nugoletti, e il primo
    Degli augelli susurro, e l'aura fresca,
    E le ridenti piagge benedico: 10
    Poiché voi, cittadine infauste mura,
    Vidi e conobbi assai, là dove segue
    Odio al dolor compagno; e doloroso
    Io vivo, e tal morrò, deh tosto! Alcuna
    Benché scarsa pietà pur mi dimostra 15
    Natura in questi lochi, un giorno oh quanto
    Verso me più cortese! E tu pur volgi
    Dai miseri lo sguardo; e tu, sdegnando
    Le sciagure e gli affanni, alla reina
    Felicità servi, o natura. In cielo, 20
    In terra amico agl'infelici alcuno
    E rifugio non resta altro che il ferro.
    Talor m'assido in solitaria parte,
    Sovra un rialto, al margine d'un lago
    Di taciturne piante incoronato. 25
    Ivi, quando il meriggio in ciel si volve,
    La sua tranquilla imago il Sol dipinge,
    Ed erba o foglia non si crolla al vento,
    E non onda incresparsi, e non cicala
    Strider, né batter penna augello in ramo, 30
    Né farfalla ronzar, né voce o moto
    Da presso né da lunge odi né vedi.
    Tien quelle rive altissima quiete;
    Ond'io quasi me stesso e il mondo obblio
    Sedendo immoto; e già mi par che sciolte 35
    Giaccian le membra mie, né spirto o senso
    Più le commova, e lor quiete antica
    Co' silenzi del loco si confonda.

    Amore, amore, assai lungi volasti
    Dal petto mio, che fu sì caldo un giorno, 40
    Anzi rovente. Con sua fredda mano
    Lo strinse la sciaura, e in ghiaccio è volto
    Nel fior degli anni. Mi sovvien del tempo
    Che mi scendesti in seno. Era quel dolce
    E irrevocabil tempo, allor che s'apre 45
    Al guardo giovanil questa infelice
    Scena del mondo, e gli sorride in vista
    Di paradiso. Al garzoncello il core
    Di vergine speranza e di desio
    Balza nel petto; e già s'accinge all'opra 50
    Di questa vita come a danza o gioco
    Il misero mortal. Ma non sì tosto,
    Amor, di te m'accorsi, e il viver mio
    Fortuna avea già rotto, ed a questi occhi
    Non altro convenia che il pianger sempre. 55
    Pur se talvolta per le piagge apriche,
    Su la tacita aurora o quando al sole
    Brillano i tetti e i poggi e le campagne,
    Scontro di vaga donzelletta il viso;
    O qualor nella placida quiete 60
    D'estiva notte, il vagabondo passo
    Di rincontro alle ville soffermando,
    L'erma terra contemplo, e di fanciulla
    Che all'opre di sua man la notte aggiunge
    Odo sonar nelle romite stanze 65
    L'arguto canto; a palpitar si move
    Questo mio cor di sasso: ahi, ma ritorna
    Tosto al ferreo sopor; ch'è fatto estrano
    Ogni moto soave al petto mio.

    O cara luna, al cui tranquillo raggio 70
    Danzan le lepri nelle selve; e duolsi
    Alla mattina il cacciator, che trova
    L'orme intricate e false, e dai covili
    Error vario lo svia; salve, o benigna
    Delle notti reina. Infesto scende 75
    Il raggio tuo fra macchie e balze o dentro
    A deserti edifici, in su l'acciaro
    Del pallido ladron ch'a teso orecchio
    Il fragor delle rote e de' cavalli
    Da lungi osserva o il calpestio de' piedi 80
    Su la tacita via; poscia improvviso
    Col suon dell'armi e con la rauca voce
    E col funereo ceffo il core agghiaccia
    Al passegger, cui semivivo e nudo
    Lascia in breve tra' sassi. Infesto occorre 85
    Per le contrade cittadine il bianco
    Tuo lume al drudo vil, che degli alberghi
    Va radendo le mura e la secreta
    Ombra seguendo, e resta, e si spaura
    Delle ardenti lucerne e degli aperti 90
    Balconi. Infesto alle malvage menti,
    A me sempre benigno il tuo cospetto
    Sarà per queste piagge, ove non altro
    Che lieti colli e spaziosi campi
    M'apri alla vista. Ed ancor io soleva, 95
    Bench'innocente io fossi, il tuo vezzoso
    Raggio accusar negli abitati lochi,
    Quand'ei m'offriva al guardo umano, e quando
    Scopriva umani aspetti al guardo mio.
    Or sempre loderollo, o ch'io ti miri 100
    Veleggiar tra le nubi, o che serena
    Dominatrice dell'etereo campo,
    Questa flebil riguardi umana sede.
    Me spesso rivedrai solingo e muto
    Errar pe' boschi e per le verdi rive, 105
    O seder sovra l'erbe, assai contento
    Se core e lena a sospirar m'avanza.


    ( Parafrasi tratta dal blog Aspirante Poeta )

    La mattutina pioggia mi risveglia, mentre la gallinella saltella nel pollaio sbattendo le ali, mentre il contadino s’affaccia al balcone, mentre il sole, che sorge, fa passare i suoi deboli raggi fra le gocce della pioggia che cade sopra la mia capanna; ed io mi alzo e saluto con gioia le piccole nuvole, il primo cinguettio degli uccelli, le aperte campagne e l’aria fresca; poiché io vidi e conobbi voi, disgraziate mura cittadine, là dove l’odio è inseparabile al dolore; ed io vivo addolorato e morirò in tal modo, deh subito! Benchè ora la natura mi mostra nessuna o poca pietà in questi luoghi, un tempo essa fu molto generosa con me! E tu, o Natura, non guardi i miseri; tu, disprezzando gli affanni e le sciagure, sei asservita solo alla felicità. Sia in cielo che in terra nessuno è amico degli infelici, e, a loro, non rimane nessun altro rifugio che il suicidio.

    Alcune volte mi siedo in un luogo solitario, sopra un’altura, al margine di un lago, circondato da piante silenziose. Qui, quando il meriggio si dispiega nel cielo, il sole riflette la sua tranquilla immagine sul lago, né erba né foglia si muovono al vento e quando non si ode, né da vicino né da lontano, voce né movimento, né si vede onda muoversi e nè si sente cicala stridere, né uccello battere le ali sui rami, né farfalla sussurrare, allora una profondissima quiete domina sulle rive; tanto che io, stando seduto immobile, dimentico quasi me stesso e il mondo; e già mi pare che il mio corpo si liberi dalla mia anima e mi pare che, né spirito né sensazioni riescano più ad animarlo e mi pare che la stasi prolungata del mio corpo si assimili al silenzio del luogo.

    Amore, amore, sei volato via lontano dal mio cuore, che un giorno fu caldo, anzi rovente. La sciagura lo ha stretto con la sua fredda mano ed esso si è tramutato in ghiaccio nel pieno della mia gioventù. Ricordo il tempo che tu, amore, mi scendesti nel cuore. Era quel dolce ed indimenticabile tempo, quando questo infelice spettacolo del mondo si apre alla vista del giovane e gli appare in forma di paradiso. Allora il cuore palpita nel petto al ragazzo che è pieno di speranze ancora intatte, non deluse; e il misero mortale già si prepara al lavoro di questa vita come fosse danza o gioco. Ma non appena mi accorsi di te, o amore, ecco che già la sfortuna aveva spezzato il mio vivere, cosicché non altro restò ai miei occhi, se non il piangere sempre. Se qualche volta mi trovo per le campagne assolate, o durante la silenziosa aurora, o quando i tetti, le colline e le campagne brillano al sole, incontro lo sguardo di una bella fanciulla; o quando nella tranquilla quiete di una serata estiva contemplo la terra solitaria, soffermandomi davanti alle ville e sento il sonoro canto di una fanciulla che lavora nelle solitarie stanze e aggiunge con le sue mani nuovo lavoro al lavoro del giorno, allora questo mio cuore insensibile ritorna a palpitare; ma, ahi, torna subito al duro torpore, poiché ogni sentimento soave è diventato estraneo al mio cuore.

    O cara luna, le lepri danzano al tuo tranquillo raggio; e, alla mattina, il cacciatore si lamenta perché trova le orme false e sparpagliate che lo sviano dalle tane; salve, o benigna regina delle notti. Il tuo raggio scende nocivo fra gli alberi e fra le valli o dentro case abbandonate o sulla lama del pallido ladrone, il quale, con le orecchie tese, ascolta il rumore delle ruote, il calpestio dei cavalli o il fruscio dei passi sul silenzioso sentiero; poi all’improvviso con il suono delle armi, con la voce rauca e con il volto truce e minaccioso egli gela il cuore del passeggero, e in un battere d’occhio lo lascia semivivo e nudo. La tua bianca luce scende nelle vie cittadine ed è sfavorevole all’amante adultero, che, rasentando le mura delle case e seguendo le ombre degli edifici, s’arresta e ha paura delle lucenti lucerne e delle finestre aperte. (Il tuo raggio) Scende nemico a tutte le menti malvagie. Invece, per me, la tua vista sarà sempre benevola perché mi illumina non altro che lieti colli ed ampi campi. Benché io fossi innocente, io solevo accusare il tuo bel raggio, quando nei luoghi abitati mi esponeva allo sguardo degli altri, o quando scopriva gli altri al mio sguardo. Ora, invece, sempre lo loderò, quando, o luna, ti vedrò passare tra le nuvole, o quando tu, serena dominatrice del cielo stellato, contemplerai questa piangente terra umana. Tu vedrai me, spesso muto e solitario errare nei boschi o per le verdi rive, o mi vedrai sedere sopra le erbe, e mi vedrai assai contento, se mi rimarrà tanta forza nel cuore per sospirare, per sperare e per vivere.





     
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    parafrasi ad angelo mai di leopardi




    Italo ardito, a che giammai non posi
    Di svegliar dalle tombe
    I nostri padri? ed a parlar gli meni
    A questo secol morto, al quale incombe
    Tanta nebbia di tedio? E come or vieni
    Sì forte a' nostri orecchi e sì frequente,
    Voce antica de' nostri,
    Muta sì lunga etade? e perchè tanti
    Risorgimenti? In un balen feconde
    Venner le carte; alla stagion presente
    I polverosi chiostri
    Serbaro occulti i generosi e santi
    Detti degli avi. E che valor t'infonde,
    Italo egregio, il fato? O con l'umano
    Valor forse contrasta il fato invano?
    Certo senza de' numi alto consiglio
    Non è ch'ove più lento
    E grave è il nostro disperato obblio,
    A percoter ne rieda ogni momento
    Novo grido de' padri. Ancora è pio
    Dunque all'Italia il cielo; anco si cura
    Di noi qualche immortale:
    Ch'essendo questa o nessun'altra poi
    L'ora da ripor mano alla virtude
    Rugginosa dell'itala natura,
    Veggiam che tanto e tale
    È il clamor de' sepolti, e che gli eroi
    Dimenticati il suol quasi dischiude,
    A ricercar s'a questa età sì tarda
    Anco ti giovi, o patria, esser codarda.
    Di noi serbate, o gloriosi, ancora
    Qualche speranza? in tutto
    Non siam periti? A voi forse il futuro
    Conoscer non si toglie. Io son distrutto
    Nè schermo alcuno ho dal dolor, che scuro
    M'è l'avvenire, e tutto quanto io scerno
    È tal che sogno e fola
    Fa parer la speranza. Anime prodi,
    Ai tetti vostri inonorata, immonda
    Plebe successe; al vostro sangue è scherno
    E d'opra e di parola
    Ogni valor; di vostre eterne ledi
    Nè rossor più nè invidia; ozio circonda
    I monumenti vostri; e di viltade
    Siam fatti esempio alla futura etade.
    Bennato ingegno, or quando altrui non cale
    De' nostri alti parenti,
    A te ne caglia, a te cui fato aspira
    Benigno sì che per tua man presenti
    Paion que' giorni allor che dalla dira
    Obblivione antica ergean la chioma,
    Con gli studi sepolti,
    I vetusti divini, a cui natura
    Parlò senza svelarsi, onde i riposi
    Magnanimi allegràr d'Atene e Roma.
    Oh tempi, oh tempi avvolti
    In sonno eterno! Allora anco immatura
    La ruina d'Italia, anco sdegnosi
    Eravam d'ozio turpe, e l'aura a volo
    Più faville rapia da questo suolo.
    Eran calde le tue ceneri sante,
    Non domito nemico
    Della fortuna, al cui sdegno e dolore
    Fu più l`averno che la terra amico.
    L'averno: e qual non è parte migliore
    Di questa nostra? E le tue dolci corde
    Susurravano ancora
    Dal tocco di tua destra, o sfortunato
    Amante. Ahi dal dolor comincia e nasce
    L'italo canto. E pur men grava e morde
    Il mal che n'addolora
    Del tedio che n'affoga. Oh te beato,
    A cui fu vita il pianto! A noi le fasce
    Cinse il fastidio; a noi presso la culla
    Immoto siede, e su la tomba, il nulla.
    Ma tua vita era allor con gli astri e il mare,
    Ligure ardita prole,
    Quand'oltre alle colonne, ed oltre ai liti
    Cui strider l'onde all'attuffar del sole
    Parve udir su la sera, agl'infiniti
    Flutti commesso, ritrovasti il raggio
    Del Sol caduto, e il giorno
    Che nasce allor ch'ai nostri è giunto al fondo;
    E rotto di natura ogni contrasto,
    Ignota immensa terra al tuo viaggio
    Fu gloria, e del ritorno
    Ai rischi. Ahi ahi, ma conosciuto il mondo
    Non cresce, anzi si scema, e assai più vasto
    L'etra sonante e l'alma terra e il mare
    Al fanciullin, che non al saggio, appare.
    Nostri sogni leggiadri ove son giti
    Dell'ignoto ricetto
    D'ignoti abitatori, o del diurno
    Degli astri albergo, e del rimoto letto
    Della giovane Aurora, e del notturno
    Occulto sonno del maggior pianeta?
    Ecco svaniro a un punto,
    E figurato è il mondo in breve carta;
    Ecco tutto è simile, e discoprendo,
    Solo il nulla s'accresce. A noi ti vieta
    Il vero appena è giunto,
    O caro immaginar; da te s'apparta
    Nostra mente in eterno; allo stupendo
    Poter tuo primo ne sottraggon gli anni;
    E il conforto perì de' nostri affanni.
    Nascevi ai dolci sogni intanto, e il primo
    Sole splendeati in vista,
    Cantor vago dell'arme e degli amori,
    Che in età della nostra assai men trista
    Empièr la vita di felici errori:
    Nova speme d'Italia. O torri, o celle,
    O donne, o cavalieri,
    O giardini, o palagi! a voi pensando,
    In mille vane amenità si perde
    La mente mia. Di vanità, di belle
    Fole e strani pensieri
    Si componea l'umana vita: in bando
    Li cacciammo: or che resta? or poi che il verde
    È spogliato alle cose? Il certo e solo
    Veder che tutto è vano altro che il duolo.
    O Torquato, o Torquato, a noi l'eccelsa
    Tua mente allora, il pianto
    A te, non altro, preparava il cielo.
    Oh misero Torquato! il dolce canto
    Non valse a consolarti o a sciorre il gelo
    Onde l'alma t'avean, ch'era sì calda,
    Cinta l'odio e l'immondo
    Livor privato e de' tiranni. Amore,
    Amor, di nostra vita ultimo inganno,
    T'abbandonava. Ombra reale e salda
    Ti parve il nulla, e il mondo
    Inabitata piaggia. Al tardo onore
    Non sorser gli occhi tuoi; mercè, non danno,
    L'ora estrema ti fu. Morte domanda
    Chi nostro mal conobbe, e non ghirlanda.
    Torna torna fra noi, sorgi dal muto
    E sconsolato avello,
    Se d'angoscia sei vago, o miserando
    Esemplo di sciagura. Assai da quello
    Che ti parve sì mesto e sì nefando,
    E peggiorato il viver nostro. O caro,
    Chi ti compiangeria,
    Se, fuor che di se stesso, altri non cura?
    Chi stolto non direbbe il tuo mortale
    Affanno anche oggidì, se il grande e il raro
    Ha nome di follia;
    Nè livor più, ma ben di lui più dura
    La noncuranza avviene ai sommi? o quale,
    Se più de' carmi, il computar s'ascolta
    Ti appresterebbe il lauro un'altra volta?
    Da te fino a quest'ora uom non è sorto,
    O sventurato ingegno,
    Pari all'italo nome, altro ch'un solo,
    Solo di sua codarda etate indegno
    Allobrogo feroce, a cui dal polo
    Maschia virtù, non già da questa mia
    Stanca ed arida terra,
    Venne nel petto; onde privato, inerme,
    (Memorando ardimento) in su la scena
    Mosse guerra a' tiranni: almen si dia
    Questa misera guerra
    E questo vano campo all'ire inferme
    Del mondo. Ei primo e sol dentro all'arena
    Scese, e nullo il seguì, che l'ozio e il brutto
    Silenzio or preme ai nostri innanzi a tutto.
    Disdegnando e fremendo, immacolata
    Trasse la vita intera,
    E morte lo scampò dal veder peggio.
    Vittorio mio, questa per te non era
    Età nè suolo. Altri anni ed altro seggio
    Conviene agli alti ingegni. Or di riposo
    Paghi viviamo, e scorti
    Da mediocrità: sceso il sapiente
    E salita è la turba a un sol confine,
    Che il mondo agguaglia. O scopritor famoso,
    Segui; risveglia i morti,
    Poi che dormono i vivi; arma le spente
    Lingue de' prischi eroi; tanto che in fine
    Questo secol di fango o vita agogni
    E sorga ad atti illustri, o si vergogni.


    PARAFRASI

    O italiano coraggioso, per quale motivo non cessi giammai di svegliare dalle tombe i nostri antichi padri romani, e li conduci a parlare a questo secolo, morto , spiritualmente per l’inettitudine, sul quale pesa tanta nebbia di noia?
    E come ora, o voce antica dei padri, muta per così lungo tempo, arrivi così forte ai nostri orecchi e così frequentemente?
    E perché tanti rìsorgimenti, cioè tanti ritorni a nuova vita delle opere antiche, mediante le molte scoperte del Mai?
    D’un tratto le antiche carte divennero feconde di voci uscite dai palinsesti; le biblioteche dei chiostri, polverosi per l’abbandono, tennero nascoste le nobili e sante parole degli avi a beneficio dell’età presente.
    E che forza, o illustre italiano, ti infonde il fato?
    O forse il fato, che vorrebbe perpetuare lo stato di viltà degli Italiani, contrasta invano con l’umano valore (che ti induce a frugare nelle biblioteche, per scovare le opere dei nostri grandi)?

    Certamente non è senza alto volere dei Numi che, quando il disperato oblio della nostra dignità è più pigro e grave, sempre una nuova voce dei nostri padriviene a percuoterci, a svegliarci dal nostro torpore.
    Il cielo dunque, cioè Dio, è ancora pietoso verso l'Ita1ia; ancora ha cura di noi qualche divinità: poiché, essendo questa l’ora, e mai se ne presenterà un’altra simile, di ripristinare il nativo valore degli Italiani, tuttora inerte come una spada arrugginita, vediamo che la voce dei morti è grande e nobile, e che la terra fa quasi , uscire gli eroi (cioè i grandi scrittori antichi) per vedere se in questa età, venuta così tardi, ti piace, o patria, essere ancora vile.


    O gloriosi eroi del passato, di noi dunque avete qualche speranza di resurrezione? Non siamo del tutto spiritualmente morti? Forse a voi non si impedisce di conoscere il futuro. lo sono moralmente distrutto dal dolore né ho alcuna difesa da esso, perché per me l'avvenire è oscuro, e tutto quello che vedo è tale da far parere la speranza sogno e favola. O anime di eroi, nella vostra terra ha preso posto una plebe priva di onore, perciò spregevole e turpe; per i vostri discendenti (al vostro sangue) ogni valore di azione (opra) nel campo civile, e di poesia (parola) nel campo della letteratura, è rigetto di scherno; dei vostri eterni meriti non hanno più né vergogna (rossor) né invidia; una vita oziosa ed indifferente si svolge intorno ai vostri monumenti; e siamo diventati un esempio di viltà per l'età futura.

    O nobile ingegno, poiché ora agli altri non importa nulla dei nostri gloriosi progenitori, siano essi a cuore a te (a te ne caglia), a te a cui il fato spira o soffia (aspira) favorevolmente (benigno), così che, per merito tuo, sembrano presenti, cioè rivivono anno, quei giorni (dell’Umanesirno), quando dal triste e lungo oblio (del Medioevo) risorgevano insieme con gli studi, prima abbandonati, gli antichi eccelsi (divini) scrittori, ai quali la natura, pur senza rivelare i suoi segreti, parlo direttamente, ispirando fervide e generose illusioni, così che con le loro poesie allietarono gli ozi, i riposi magnanimi (perché goduti dopo i negotia, cioè dopo il lavoro) dei cittadini di Atene e di Roma.

    Erano ancora calde le tue sante ceneri (o Dante), nemico indomito della fortuna, al cui sdegno e dolore fu più amico l’inferno che la terra, perché ti rifugiasti col pensiero nell’inferno per vedere puniti in esso i malvagi della terra. E quale luogo (parte)-perfino l’Inferno! -non è migliore della terra?
    E le dolci corde della tua lira vibravano ancora al tocco della tua mano, o Petrarca, amante sfortunato. Ahimé, la poesia italiana comincia e nasce dal dolore. E tuttavia la sventura che ci addolora, è meno opprimente e straziante (grava e morde) del tedio, della noia derivata dall’inerzia, dal vuoto dell’anima. Oh te beato, o Petrarca, a cui il pianto fu ragione di vita! Noi, fin dalla nascita, la noia avvolse nelle fasce; sia quando nasciamo (presso la culla), sia quando tiriamo (su la tomba) vicino a noi siede irremovibile il Nulla.

    La tua vita, o coraggioso figlio della Liguria (Cristoforo Colombo) era in compagnia degli astri e del mare, allorquando, oltre alle colonne d’Ercole e ai lidi occidentali, ai cui abitanti parve, verso sera, udire stridere le onde all’immergersi del sole affidato agli infiniti flutti dell'oceano, tu ritrovasti, a occidente, il raggio del sole tramontato, e (ritrovasti) il giorno che nasce, allorquando ai nostri lidi esso è giunto alla fine, cioè a sera; e, superato ogni contrasto della natura, un immenso continente sconosciuto fu motivo di gloria per il tuo viaggio e per i rischi del ritorno. Ma, ahimé, il mondo conosciuto dopo le nuove scoperte, non s’ingrandisce, anzi rimpicciolisce, perché l'ideale raggiunto è sempre deludente; perciò l’aria vibrante di suoni e la terra che ci nutre (alma) e il mare appaiono assai più vasti al fanciullino, che ne ignora le dimensioni, che non al sapiente che ne è informato.

    Dove sono andate, che fine hanno fatto le nostre belle fantasticherie (sogni) intorno alle contrade sconosciute (ignoto ricetto) di ignote popolazioni (ignoti abitatori, come i Giganti, i Centauri, i Ciclopi, le Amazzoni, ecc.), e intorno alla dimora degli astri durante il giorno, e intorno al letto lontano, in fondo al mare, in cui di notte la giovane Aurora dormiva col vecchio marito Titone, e intorno al sonno nascosto (occulto) del sole (maggior pianeta)?

    Ecco, dopo l’impresa di Colombo, a un tratto esse svanirono e il mondo è disegnato in una piccola carta geografica; ecco, tutto è uniforme, e con le scoperte aumenta solo il nulla, perché il reale è così povero e meschino che, rispetto all’ideale, a quello cioè che siamo capaci di immaginare, è nulla.
    O caro immaginare, conforto quotidiano al nostro male di vivere, appena è
    giunto, il vero ti vieta a noi, ti proibisce cioè di operare in noi; da te si allontana
    per sempre la nostra mente; al tuo meraviglioso potere sopra di noi ci strappano
    gli anni, cioè le esperienze della vita e le conoscenze fornite dalla scienza; e con
    la tua scomparsa cesso il conforto, che ci veniva da te, delle nostre pene.

    O Torquato (Tasso), allora, nel pieno Rinascimento sfolgorante di leggiadre fantasie, il cielo (destino), con la tua nascita (1544), preparava, a noi, il tuo alto ingegno, a te, unicamente (non altro) il pianto, una vita di dolore. Oh infelice Torquato! la dolce poesia non basto a consolarti o a' sciogliere il gelo, col quale l’invidia dei privati e dei principi Estensi ti avevano avvolto l’animo appassionato. Anche l’amore (per la principessa Eleonora d’Este), che è l’ultima illusione della nostra vita, perché è la più tenace, ti rendeva infelice (ti abbandonava). Il nulla, ossia la totale vanità delle cose, ti parve come un’ombra, qualcosa d’immateriale e inconsistente, e tuttavia reale e solida, e il mondo (ti parve) un luogo deserto. I tuoi occhi non videro il tardo onore della incoronazione poetica; l’ora della morte per te fu una grazia, non una sventura. Chi conobbe il dolore della nostra umana condizione, domanda la morte, non la corona di alloro, simbolo della gloria.

    Torna a vivere tra noi, levati dal tuo sepolcro, silenzioso e desolato, perché non curato dai viventi, se sei desideroso (vago) di angoscia, o esempio pietoso (miserando) di vita dolorosa e infelice (sciagura). Il nostro vivere è assai peggiorato rispetto a quello che a te parve così triste e così spregevole. O caro, chi ti compiangerebbe, se per sfrenato egoismo, ciascuno non ha cura se non di se stesso? Chi anche oggi non chiamerebbe folle la tua grave angoscia, se desiderare qualcosa di
    grande e di eccezionale è chiamato follia, se ai sommi ingegni tocca in sorte non più l’invidia che implica pur sempre il riconoscimento di un valore, ma l’indifferenza, che è ben più crudele dell’invidia, perché implica la negazione di ogni valore; o quale alloro ti si preparerebbe, se oggi il computar, la ricerca cioè dei beni materiali, è perseguito più della poesia?

    Dopo di te, fino ad oggi, o sventurato ingegno (del Tasso), non è nato altro uomo degno dell’antica gloria italiana, se non uno solo (Alfieri): solo un fiero piemontese (Allobrogo), immeritevole di vivere nella sua epoca codarda, a cui nel petto il virile coraggio venne dal cielo, non dalla mia Italia stanca ed inaridita; per questa maschia virtù venutagli dal cielo (onde), egli, cittadino privato ed indifeso (memorabile audacia), con le sue tragedie sulla scena fece guerra ai tiranni: almeno si conceda questa piccola (misera) guerra a questo metaforico, e perciò insufficiente (vano), campo di battaglia, costituito dal teatro, alle ire impotenti degli oppressi contro i tiranni. Egli per primo e solo scese in campo, e nessuno lo seguì, perché l’ozio e il vile silenzio oggi importa ai nostri concittadini più di ogni altra cosa.


    Aborrendo i tiranni ei vili e fremendo di sdegno contro di essi, condusse la vita intera in modo incontaminato e la morte lo liberò dal vedere il peggio dell’età seguente. O mio Vittorio, non era questa l’età adatta per te, né la terra. Altri tempi ed altra sede conviene agli alti ingegni. Oggi viviamo soddisfatti dell’ozio (riposo) e guidati da ideali mediocri: il sapiente è sceso e la plebe, il volgo, è salita allo stesso livello, che rende tutti uguali.

    O famoso scopritore di opere antiche, continua la tua opera, riveglia i morti, poiché dormono i vivi; ridona la forza alle voci spente degli antichi eroi; così che, alla fine, questo secolo corrotto o aspiri a nuova vitae sorga a compiere azioni illustri o, almeno, si vergogni.

    Edited by Lussy60 - 2/9/2019, 22:35
     
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    Questa collina solitaria mi e' sempre stata cara, e cosi' pure questa siepe, che da tanta parte (?) nasconde dallo sguardo l'orizzonte piu' lontano. Ma quando, mentre sono seduto, intravvedo al di la' di questa siepe spazi sterminati (?), silenzi sovrumani (?) e una calma profondissima, nel pensiero mi fingo (?), finche' il mio cuore quasi si spaventa. E, quando sento il vento stromire (?) fra queste piante, paragono quel silenzio infinito a questo suono (?) e mi appare l'eternita'. Mi appaiono il tempo passato e quello attuale e vivente, e il suo suono (?). E cosi' il mio pensiero si perde in questa immensita', e perdersi in tale pensiero e' dolce(?).
     
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    Parafrasi - Giacomo Leopardi : « Imitazione »

    Staccata dal proprio ramo, povera foglia fragile, dove vai? -- Il vento mi ha portato via dal faggio su cui sono cresciuta. Mi divise il vento. Esso (il vento) cambiando di volta in volta direzione volando sul bosco, sulla campagna, mi porta dalla valle alla montagna. Con il vento vado continuamente come un pellegrino, e non so nient'altro. Vado dove vanno tutte le altre cose, dove va naturalmente la foglia di rosa e la foglia d'alloro.



    Parafrasi Giacomo Leopardi : « Il sogno »



    ( Parafrasi tratta dal blog Aspirante Poeta )

    Il mattino era arrivato e il sole faceva filtrare tra le fessure delle imposte del balcone la prima luce biancheggiante nella mia buia stanza; quando il sonno più lieve e più dolce oscura gli occhi, l’immagine, di colei che prima mi insegnò l’amore e poi mi lasciò nel pianto, mi venne accanto e mi guardò nel viso. Non mi sembrava morta, ma triste, e aveva l’aspetto di essere infelice. Avvicinò la sua mano destra al mio capo e, sospirando, mi disse: «Tu vivi ancora e ti rimane qualche ricordo di me?» Risposi: «Da dove e come vieni, o cara beltà? Quanto, oh quanto dolore ho provato per te e quanto ne provo: né avrei creduto allora che tu saresti venuta a saperlo e questo rendeva il mio dolore ancore più intenso. Ma tu stai per lasciarmi un’altra volta? Io ho gran paura di ciò. Ora dimmi: che cosa ti è accaduto? Sei quella di prima? Che cosa ti tormenta internamente?». Ella rispose: «l’oblio offusca i tuoi pensieri, e il sonno della morte li cancella. Io sono morta e sono trascorsi molti mesi da quando tu mi vedesti l’ultima volta». A queste parole, un immenso dolore mi oppresse il cuore. Poi ella proseguì: «sono morta nel fior degli anni, quando il vivere è più dolce, e prima che il cuore diventi consapevole di come l’umana speranza sia tutta inutile. L’infelice mortale non mette molto tempo a desiderare la morte che lo tragga fuori dagli affanni; ma la morte si porta via i giovani in modo disperato, sconsolatamente, e il fato è crudele nello spegnere le speranze giovanili, che muoiono definitivamente sottoterra. Il voler sapere ciò che la natura nasconde è inutile ai giovani, il cieco dolore è più forte della conoscenza ancora immatura della vita». Risposi: «Oh sfortunata, oh cara, taci, taci, perché tu con questi discorsi mi spezzi il cuore. Dunque sei morta, o mia diletta, ed io sono vivo, ed era stabilito dal cielo che la tua tenera salma dovesse provare gli estremi sudori della morte, e che il mio misero corpo dovesse rimanere integro? Oh quante volte, quando ripenso che tu non vivi più, e che io non ti ritroverò più al mondo non lo posso credere. Ahi, ahi, ma che cos’è questa cosa che si chiama morte? Oggi credo che io potrei intenderlo direttamente, morendo, e così potrei sottrae il mio capo indifeso agli atroci odi del destino. Io sono giovane, ma la mia giovinezza si consuma e si disperde come se fosse vecchiaia della quale io ho paura anche se essa è ancora lontana da venire. Ma la mia giovinezza differisce poco dalla vecchiaia». La fanciulla rispose: «tutti e due nascemmo per il pianto; la felicità non sorrise al nostro vivere, e il cielo si compiacque delle nostre disgrazie». Risposi: «Ora, se io porto il cuore pieno d’angoscia, se ho gli occhi pieni di pianto, se ho il viso di pallido colore, dimmi, se qualche fiamma d’amore o di pietà, qualche volta, ti assalì il cuore verso questo misero amante, mentre vivesti? Io vivevo i giorni e le notti ora disperato e ora sperando; oggi la mia mente si logora nell’inutile dubbio. Se una volta il tuo dolore ti prese per la mia vita infelice, non me lo nascondere, ti prego, dal momento che il ricordo di te mi aiuta a vivere oggi poiché il nostro futuro ci è stato tolto dalla morte». La fanciulla rispose: «Fatti coraggio, o sventurato. Io, mentre vissi, non ti fui avara di pietà e non lo sono neanche ora, perché anch’io fui misera. Non lamentarti di questa povera ed infelice fanciulla». Risposi: «In ricordo delle nostre sventure, in nome dell’amore che mi tormenta, in nome della diletta gioventù, in nome della perduta speranza dei nostri giorni, concedi, o cara, che io tocchi la tua mano destra». E lei, con modi gentili e soavi, la porgeva. Ora, mentre io la ricoprivo di baci e la portavo al cuore ansimante, e mentre palpitavo d’affannosa dolcezza, il volto e il petto si riempivano di sudore, la voce diventava grossa e la luce del giorno traballava davanti ai miei occhi. Dopo che lei ebbe fissato teneramente gli occhi (suoi) negli occhi miei, disse: «Già dimentichi, mio caro, che io sono priva della mia bellezza? E invece, tu, o sfortunato, ti scaldi e fremi inutilmente d’amore. Ora finalmente ti dico addio. Le nostri miseri menti e i nostri miseri corpi sono disgiunti per sempre. Non vivi per me e non vivrai più per me; il destino ha sciolto l’amore che mi hai giurato». Allora io, volendo gridare per l’angoscia e, spasimando, aprii gli occhi pieni di desolato pianto e mi disciolsi dal sonno. Eppure lei mi restava negli occhi, ed io credevo ancora di vederla nel lucente raggio del sole.

     
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    Parafrasi - Opera Omnia >> Giacomo Leopardi : « La vita solitaria »

    ( Parafrasi tratta dal blog Aspirante Poeta )

    La mattutina pioggia mi risveglia, mentre la gallinella saltella nel pollaio sbattendo le ali, mentre il contadino s’affaccia al balcone, mentre il sole, che sorge, fa passare i suoi deboli raggi fra le gocce della pioggia che cade sopra la mia capanna; ed io mi alzo e saluto con gioia le piccole nuvole, il primo cinguettio degli uccelli, le aperte campagne e l’aria fresca; poiché io vidi e conobbi voi, disgraziate mura cittadine, là dove l’odio è inseparabile al dolore; ed io vivo addolorato e morirò in tal modo, deh subito! Benchè ora la natura mi mostra nessuna o poca pietà in questi luoghi, un tempo essa fu molto generosa con me! E tu, o Natura, non guardi i miseri; tu, disprezzando gli affanni e le sciagure, sei asservita solo alla felicità. Sia in cielo che in terra nessuno è amico degli infelici, e, a loro, non rimane nessun altro rifugio che il suicidio.

    Alcune volte mi siedo in un luogo solitario, sopra un’altura, al margine di un lago, circondato da piante silenziose. Qui, quando il meriggio si dispiega nel cielo, il sole riflette la sua tranquilla immagine sul lago, né erba né foglia si muovono al vento e quando non si ode, né da vicino né da lontano, voce né movimento, né si vede onda muoversi e nè si sente cicala stridere, né uccello battere le ali sui rami, né farfalla sussurrare, allora una profondissima quiete domina sulle rive; tanto che io, stando seduto immobile, dimentico quasi me stesso e il mondo; e già mi pare che il mio corpo si liberi dalla mia anima e mi pare che, né spirito né sensazioni riescano più ad animarlo e mi pare che la stasi prolungata del mio corpo si assimili al silenzio del luogo.

    Amore, amore, sei volato via lontano dal mio cuore, che un giorno fu caldo, anzi rovente. La sciagura lo ha stretto con la sua fredda mano ed esso si è tramutato in ghiaccio nel pieno della mia gioventù. Ricordo il tempo che tu, amore, mi scendesti nel cuore. Era quel dolce ed indimenticabile tempo, quando questo infelice spettacolo del mondo si apre alla vista del giovane e gli appare in forma di paradiso. Allora il cuore palpita nel petto al ragazzo che è pieno di speranze ancora intatte, non deluse; e il misero mortale già si prepara al lavoro di questa vita come fosse danza o gioco. Ma non appena mi accorsi di te, o amore, ecco che già la sfortuna aveva spezzato il mio vivere, cosicché non altro restò ai miei occhi, se non il piangere sempre. Se qualche volta mi trovo per le campagne assolate, o durante la silenziosa aurora, o quando i tetti, le colline e le campagne brillano al sole, incontro lo sguardo di una bella fanciulla; o quando nella tranquilla quiete di una serata estiva contemplo la terra solitaria, soffermandomi davanti alle ville e sento il sonoro canto di una fanciulla che lavora nelle solitarie stanze e aggiunge con le sue mani nuovo lavoro al lavoro del giorno, allora questo mio cuore insensibile ritorna a palpitare; ma, ahi, torna subito al duro torpore, poiché ogni sentimento soave è diventato estraneo al mio cuore.

    O cara luna, le lepri danzano al tuo tranquillo raggio; e, alla mattina, il cacciatore si lamenta perché trova le orme false e sparpagliate che lo sviano dalle tane; salve, o benigna regina delle notti. Il tuo raggio scende nocivo fra gli alberi e fra le valli o dentro case abbandonate o sulla lama del pallido ladrone, il quale, con le orecchie tese, ascolta il rumore delle ruote, il calpestio dei cavalli o il fruscio dei passi sul silenzioso sentiero; poi all’improvviso con il suono delle armi, con la voce rauca e con il volto truce e minaccioso egli gela il cuore del passeggero, e in un battere d’occhio lo lascia semivivo e nudo. La tua bianca luce scende nelle vie cittadine ed è sfavorevole all’amante adultero, che, rasentando le mura delle case e seguendo le ombre degli edifici, s’arresta e ha paura delle lucenti lucerne e delle finestre aperte. (Il tuo raggio) Scende nemico a tutte le menti malvagie. Invece, per me, la tua vista sarà sempre benevola perché mi illumina non altro che lieti colli ed ampi campi. Benché io fossi innocente, io solevo accusare il tuo bel raggio, quando nei luoghi abitati mi esponeva allo sguardo degli altri, o quando scopriva gli altri al mio sguardo. Ora, invece, sempre lo loderò, quando, o luna, ti vedrò passare tra le nuvole, o quando tu, serena dominatrice del cielo stellato, contemplerai questa piangente terra umana. Tu vedrai me, spesso muto e solitario errare nei boschi o per le verdi rive, o mi vedrai sedere sopra le erbe, e mi vedrai assai contento, se mi rimarrà tanta forza nel cuore per sospirare, per sperare e per vivere.

     
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    Parafrasi - Opera Omnia >> Giacomo Leopardi : « Amore e morte »

    ( Parafrasi tratta dal blog Aspirante Poeta )

    La sorte generò ad un tempo l’Amore e la Morte. La terra e le stelle non hanno altre cose più belle. Il bene nasce dall’Amore, e anche il piacere maggiore, che si trova nell’universo, nasce dall’Amore. La Morte annulla ogni male e ogni dolore. O Morte, tu sei una bellissima fanciulla, sei bella a vedersi, e non sei brutta come ti raffigura la gente. Sovente (tu morte) accompagni il fanciullo Amore, e insieme andate sorvolando sopra la vita degli uomini. Non vi è cuore umano, che colpito dall’amore, non disprezzò la vita, così come non vi fu cuore umano che non fu disposto a lottare per conquistare l’Amore; l’amore, dove porge aiuto, fa nascere il coraggio, tanto che gli uomini diventano saggi nelle opere, e non nei pensieri sterili, come suole avvenire.

    Quando un nuovo profondo amore nasce in un cuore, nasce anche un desiderio di morire. Non so il perché, ma il primo e potente effetto dell’amore è tale. Forse la terra deserta atterrisce gli occhi del giovane amante, al quale, se immagina la vita senza l’amore, la terra appare inabitabile. Allora dinanzi al tormentante desiderio, che già tutt’intorno oscura ogni cosa, (il giovane) desidera quiete e un porto dove rifugiarsi.

    Quando poi il tempestoso desiderio avvolge tutto e fulmina il cuore, allora il giovane amante invoca la morte, e una volta coricato non desidera più alzarsi per non vedere l’amara luce. E il giovane amatore sentendo il suono del canto funebre invidiò la morte, come colui che veniva portato al cimitero. Anche il contadino, ignaro del piacere che deriva dal sapere, anche la giovane fanciulla, pudica e schiva, quando sente nominare la morte, le si rizzano i capelli, guarda attentamente la tomba, medita di suicidarsi, o con il ferro o con il veleno, concepisce e matura nella sua mente incolta la necessità della morte. La scuola dell’amore conduce alla morte. Quando il travaglio amoroso è giunto a tal punto di sofferenza, la volontà non riesce a contenerla, e allora, o il corpo fragile cede alle terribili sofferenze, oppure l’Amore scava così in fondo che la Morte prevale; allora, sia il contadino innocente, che la giovane donna con la mano violenta, si danno la morte da se stessi, abbandonando i loro corpi a terra. La gente, alla quale il destino possa concedere pace e vecchiaia, ride dei casi dei giovani suicidi.

    Agli animi ardenti, ai felici, il fato possa concedere, o l’Amore o la Morte, dolci signori, amici degli uomini, il cui potere non assomiglia a nessuna altra potenza e non è superato da niente altro se non dal Fato. E tu, o morte bella ed onorata, regina del tempo, che io ti chiamo già fin dalla mia fanciullezza, pietosa degli affanni umani, dopo che io ti ho celebrata, e ho cercato di compensarti degli insulti che ti manda la gente ingrata, esaudisci le mie preghiere e chiudi questi miei occhi tristi. Mi troverai di certo pronto qualsiasi sia il momento che tu verrai da me, mi troverai con la testa alzata, indomito, e resistente all’infelicità, troverai me che non benedico la mano del fato che si colora del mio sangue innocente; troverai me che non riempio di lodi la morte come gli uomini usano fare per antica consuetudine e viltà; troverai me che getto via ogni vana speranza con cui gli uomini si consolano come i fanciulli; troverai me che aspetto solo te; troverai me che, solo e sereno, aspetto quel giorno che, addormentato, possa piegare il mio capo sul tuo virgineo seno.

     
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