Claudio Baglioni Forum - Un mondo in musica

parafrasi e poesie di-Giacomo Leopardi

« Older   Newer »
 
  Share  
.
  1. Lussy60
     
    .
    Avatar

    Millennium Member

    Group
    Administrator
    Posts
    112,793
    Location
    Milano

    Status
    Offline

    Sogno in letteratura - Leopardi e Pascoli
    Tesina di Italiano sull'argomento Il sogno. Analisi e comparazione delle opere Il sogno di Giacomo Leopardi e Ultimo sogno di Giovanni Pascoli.


    Il sogno in letteratura - La sfera onirica in Leopardi e Pascoli

    In letteratura italiana il sogno é un tema che viene trattato più volte e sotto forma sia di poesia che di prosa. Tra le molteplici poesie dedicate a questo particolare tema ho scelto di analizzare due componimenti di due importanti autori del XIX secolo: Giacomo Leopardi e Giovanni Pascoli.

    “Il sogno”, Giacomo Leopardi

    Era il mattino, e tra le chiuse imposte
    Per lo balcone insinuava il sole
    Nella mia cieca stanza il primo albore;
    Quando in sul tempo che più leve il sonno
    E più soave le pupille adombra,
    Stettemi allato e riguardommi in viso
    Il simulacro di colei che amore
    Prima insegnommi, e poi lasciommi in pianto.
    Morta non mi parea, ma trista, e quale
    Degl'infelici è la sembianza. Al capo
    Appressommi la destra, e sospirando,
    Vivi, mi disse, e ricordanza alcuna
    Serbi di noi? Donde, risposi, e come
    Vieni, o cara beltà? Quanto, deh quanto
    Di te mi dolse e duol: né mi credea
    Che risaper tu lo dovessi; e questo
    Facea più sconsolato il dolor mio.
    Ma sei tu per lasciarmi un'altra volta?
    Io n'ho gran tema. Or dimmi, e che t'avvenne?
    Sei tu quella di prima? E che ti strugge
    Internamente? Obblivione ingombra
    I tuoi pensieri, e gli avviluppa il sonno;
    Disse colei. Son morta, e mi vedesti
    L'ultima volta, or son più lune. Immensa
    Doglia m'oppresse a queste voci il petto.
    Ella seguì: nel fior degli anni estinta,
    Quand'è il viver più dolce, e pria che il core
    Certo si renda com'è tutta indarno
    L'umana speme. A desiar colei
    Che d'ogni affanno il tragge, ha poco andare
    L'egro mortal; ma sconsolata arriva
    La morte ai giovanetti, e duro è il fato
    Di quella speme che sotterra è spenta.
    Vano è saper quel che natura asconde
    Agl'inesperti della vita, e molto
    All'immatura sapienza il cieco
    Dolor prevale. Oh sfortunata, oh cara,
    Taci, taci, diss'io, che tu mi schianti
    Con questi detti il cor. Dunque sei morta,
    O mia diletta, ed io son vivo, ed era
    Pur fisso in ciel che quei sudori estremi
    Cotesta cara e tenerella salma
    Provar dovesse, a me restasse intera
    Questa misera spoglia? Oh quante volte
    In ripensar che più non vivi, e mai
    Non avverrà ch'io ti ritrovi al mondo,
    Creder nol posso. Ahi ahi, che cosa è questa
    Che morte s'addimanda? Oggi per prova
    Intenderlo potessi, e il capo inerme
    Agli atroci del fato odii sottrarre.
    Giovane son, ma si consuma e perde
    La giovanezza mia come vecchiezza;
    La qual pavento, e pur m'è lunge assai.
    Ma poco da vecchiezza si discorda
    Il fior dell'età mia. Nascemmo al pianto,
    Disse, ambedue; felicità non rise
    Al viver nostro; e dilettossi il cielo
    De' nostri affanni. Or se di pianto il ciglio,
    Soggiunsi, e di pallor velato il viso
    Per la tua dipartita, e se d'angoscia
    Porto gravido il cor; dimmi: d'amore
    Favilla alcuna, o di pietà, giammai
    Verso il misero amante il cor t'assalse
    Mentre vivesti? Io disperando allora
    E sperando traea le notti e i giorni;
    Oggi nel vano dubitar si stanca
    La mente mia. Che se una volta sola
    Dolor ti strinse di mia negra vita,
    Non mel celar, ti prego, e mi soccorra
    La rimembranza or che il futuro è tolto
    Ai nostri giorni. E quella: ti conforta,
    O sventurato. Io di pietade avara
    Non ti fui mentre vissi, ed or non sono,
    Che fui misera anch'io. Non far querela
    Di questa infelicissima fanciulla.
    Per le sventure nostre, e per l'amore
    Che mi strugge, esclamai; per lo diletto
    Nome di giovanezza e la perduta
    Speme dei nostri dì, concedi, o cara,
    Che la tua destra io tocchi. Ed ella, in atto
    Soave e tristo, la porgeva. Or mentre
    Di baci la ricopro, e d'affannosa
    Dolcezza palpitando all'anelante
    Seno la stringo, di sudore il volto
    Ferveva e il petto, nelle fauci stava
    La voce, al guardo traballava il giorno.
    Quando colei teneramente affissi
    Gli occhi negli occhi miei, già scordi, o caro,
    Disse, che di beltà son fatta ignuda?
    E tu d'amore, o sfortunato, indarno
    Ti scaldi e fremi. Or finalmente addio.
    Nostre misere menti e nostre salme
    Son disgiunte in eterno. A me non vivi
    E mai più non vivrai: già ruppe il fato
    La fe che mi giurasti. Allor d'angoscia
    Gridar volendo, e spasimando, e pregne
    Di sconsolato pianto le pupille,
    Dal sonno mi disciolsi. Ella negli occhi
    Pur mi restava, e nell'incerto raggio
    Del Sol vederla io mi credeva ancora.


    La poesia fu composta probabilmente tra il 1820 e il 1821 a Recanati. La poesia fa parte dei numerosi idilli che il poeta scrisse in quel periodo: più precisamente “Il sogno” viene anche chiamato “Idillio IV”. Nella poesia Leopardi racconta di avere sognato una giovane donna: si tratta di Teresa Fattorini, una delle poche donne da lui amate, scomparsa molto giovane. Nel sogno, la giovane donna si avvicina al poeta e gli chiede se lui si ricorda ancora di lei; egli le risponde che si ricorda certamente ma vorrebbe scoprire che cos’é che la tormenta (E che ti strugge/ Internamente?). Ella risponde che lui l’aveva vista morire nel fiore della sua giovinezza (nel fior degli anni estinta,/ Quand'è il viver più dolce), il cielo infatti aveva destinato a lei una vita breve mentre lui era ancora in vita. Il destino aveva riservato ad entrambi una vita dedicata al pianto (Nascemmo al pianto,/ Disse, ambedue). Il poeta, ancora colmo di pianto per la morte di lei, domanda se in vita lei abbia mai provato qualche sentimento d’amore nei suoi confronti (Favilla alcuna, o di pietà, giammai/ Verso il misero amante il cor t'assalse/ Mentre vivesti?). La risposta é positiva, al punto che Leopardi chiede gentilmente alla giovane donna di avvicinare la mano destra al suo petto (concedi, o cara,/ Che la tua destra io tocchi) e lei corrisponde alla richiesta. Il poeta, allora, ansimante e pieno di sudore, accosta la mano destra della ragazza al suo cuore e la bacia. A quel punto, la giovane donna, guardandolo dritto negli occhi, gli dice che ormai lei é priva di bellezza fisica mentre lui freme ancora inutilmente di amore. Il destino ha spezzato l’amore e la fedeltà che lui le aveva giurato in vita (già ruppe il fato/ La fe che mi giurasti) e così la donna avverte il poeta che lui non vive e non vivrà più per lei (A me non vivi/ E mai più non vivrai). Leopardi, a quel punto, ansimando e piangendo, si risveglia dal sonno, anche se gli sembra ancora di vedere la fanciulla negli occhi e nella luce tenue della stanza.
    Si crede però che la poesia non sia interamente dedicata a Teresa Fattorini ma che nello scriverla, Leopardi abbia armonizzato due vivide esigenze. Da un lato esprime il suo profondo dolore per la morte della Fattorini (donna che il poeta ascoltava cantare e guardava dal suo balcone prima che lei morisse), dall’altro lato si crede che l’ispirazione a scrivere la poesia sia stata data dal desiderio di baciare un’altra giovane donna di Recanati, Teresa Brini. Con la poesia quindi, trasferendo tutto in un sogno, il giovane Leopardi immagina di poter soddisfare il desiderio di dare un bacio reale alla Brini.
    Il messaggio che ci dà la poesia (messaggio che viene rivelato a Leopardi nel sogno) é la terribile verità che egli non avrà più un amore nella sua vita. Attraverso le parole della giovane donna, la quale dice che non lo rivedrà più perché il fato ha interrotto il loro amore, Leopardi é disperato, piange e si sveglia dall’incubo che gli ha annunciato questa triste verità in piena mattina. Leopardi capisce che é destinato a restare da solo e l’unica cosa che gli rimane dopo il risveglio é quella di attendere e sperare.
    La poesia sembra sia stata influenzata dalle letture di Petrarca; egli aveva infatti descritto in forma onirica ed elegiaca il suo incontro con Laura morta. Infatti, questo canto di Leopardi sintetizza in forma poetica ed elegiaca il mondo interiore e sentimentale del poeta.
    Il poema é composto da versi endecasillabi sciolti ed il linguaggio é aulico e raffinato. Il tema emotivo dominante della poesia é la disperazione, la tristezza e l’angoscia che prova il poeta per la perdita di questa giovane donna. Il sogno in Leopardi é quindi un sogno che é portatore di verità, verità che possono fare male; é un sogno che si trasforma in incubo per il finale che presenta.


    “Ultimo sogno”, Giovanni Pascoli

    Da un immoto fragor di carrïaggi
    ferrei, moventi verso l'infinito
    tra schiocchi acuti e fremiti selvaggi...
    un silenzio improvviso. Ero guarito.

    Era spirato il nembo del mio male
    in un alito. Un muovere di ciglia;
    e vidi la mia madre al capezzale:

    io la guardava senza meraviglia.

    Libero!... inerte sì, forse, quand'io
    le mani al petto sciogliere volessi:
    ma non volevo. Udivasi un fruscio
    sottile, assiduo, quasi di cipressi;

    quasi d'un fiume che cercasse il mare
    inesistente, in un immenso piano:
    io ne seguiva il vano sussurrare,
    sempre lo stesso, sempre più lontano.

    “Ultimo sogno” é il componimento che chiude la raccolta Myricae, la cui terza edizione uscì nel 1897. Il titolo della poesia é molto emblematico e poco chiaro. Qual é l’ultimo sogno a cui Pascoli si riferisce? Leggendo la poesia ci troviamo su un confine tra vita e morte, dove a tutto il rumore dell’esistenza che sembrava infinito si sostituisce il silenzio. Tutto lo scompiglio ed il rumore, gli schiocchi e i fremiti, si esauriscono all’improvviso ed il motivo di tutto ciò é la guarigione. Dunque Pascoli stava sognando. Nella seconda quartina, il poeta apre lentamente gli occhi (un muovere di ciglia) e vede al suo capezzale la madre, da tempo morta. Egli la guarda senza meraviglia, forse convinto che quella guarigione in realtà fosse la morte e quel silenzio fosse tipico dell’aldilà. La terza strofa si apre con un’esclamazione: “Libero!”. Il poeta si sente libero da qualsiasi affanno e da qualsiasi dolore e comincia ad udire e quindi ad immaginare un paesaggio formato da cipressi e da un fiume che confluisce in un mare. Tutto ciò é un chiaro simbolo di morte, che però Pascoli vede come una liberazione da tutto il dolore che ha provato. Pascoli é convinto di essere morto, vedendo la madre e udendo il fruscio dei cipressi.
    La poesia é formata da quattro quartine, caratterizzate da una rima alternata ABAB.

    Il sogno in Pascoli non é quindi un sogno di dolore come per Leopardi, ma più una liberazione dal dolore fisico avuto in vita che se ne va una volta che pure la vita se n’é andata. Un sogno che é capace di viaggiare in un mondo che può essere quello dell’aldilà.

    Leopardi e Pascoli oltre la somiglianza del tema trattato, si accomunano tra loro per lo sviluppo di esso. Sia in Leopardi che in Pascoli l’atmosfera é angosciosa e predominata dal dolore: le parole di Leopardi (pallor, strugge, angoscia, gridar, pianto), esprimono le stesse emozioni di quelle di Pascoli, date da parole come carrïaggi, schiocchi, fremiti, male, fruscio sottile (…) di cipressi, sussurare, lontano.

     
    Top
    .
21 replies since 13/3/2011, 13:15   20723 views
  Share  
.