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parafrasi e poesie di-Giacomo Leopardi

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  1. lussy601
     
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    Teoria del vago e del piacere

    Leopardi - La teoria del vago e la teoria del piacere

    Leopardi stava individuando un bagaglio lessicale di parole poetiche per natura perché troppo varie e indefinite. La poetica del vago e dell’indefinito nacque da una profonda ricerca del poeta recanatese, densamente documentata nelle pagine dello Zibaldone. Siccome la ragione impoetica è precisa, definita e chiara, allora saranno molto poetiche tutte quelle parole vaghe, oscure, indefinite e sfumate. Nello Zibaldone Leopardi annotò alcune parole poetiche come per esempio “lontano”, “antico”, “simile”… La poetica del vago e dell’indefinito è un tentativo di fuga dalla ragione, che con la sua rigorosità vuole spiegare tutto e uccidere la poesia.

    In questo aspetto Leopardi è profondamente romantico, senza aver avuto contatti diretti con le fonti del genere. Anche il ricordo è poetico per Leopardi. Ciò che si colloca in un ricordo lontano infatti sfugge alla ragione che tutto divora, tutto spiega e tutto definisce.
    Importante fu la cosiddetta teoria del piacere che apparve nel 1820 sulle pagine dello Zibaldone. Secondo questa teoria l’uomo non potrà mai essere felice perché è sua caratteristica sognare un piacere infinito. Siccome i piaceri a un certo punto finiscono, allora l’uomo è destinato a essere sempre deluso e inappagato. L’infinito descrive un’alternanza di sensazioni concrete. Questo è un aspetto che Leopardi riprendeva dalla corrente settecentesca del sensismo.
    Non molti anni prima. Leopardi si era tuffato nello studio dei classici, traducendo i poeti greci Mosco e Teocrito. Da questi due poeti antichi Leopardi assimilò la struttura dell’idillio e lo elaborò. Egli amava il tono lirico dell’idillio, che è una forma di poesia pura in cui si esalta la dimensione personale. A Leopardi non sfuggì la centralità dell’elemento naturale, che è imprescindibile nella poesia classica antica.



    Pastore errante dall'Asia

    • L’uomo e la natura
    Il pastore, simbolo dell’uomo vecchio, infermo destinato a cadere nel baratro, oppresso dagli enormi e pesanti carichi datigli dalla vita, pone alcune domande alla luna sul significato dell’esistenza, sulla ripetitività del vivere, sul perché della vita e, così facendo, sottolinea il rapporto di somiglianza e di antitesi tra uomo e luna e l’opposizione tra caducità umana e eternità lunare. Alla vita errabonda del pastore corrisponde il ciclico movimento degli astri; all’infelicità dell’ingenuo pastore, la silenziosa indifferenza della luna.

    • Il dolore della vita
    Leopardi, nei versi 39-60, sottolinea come nascere sia una vera e propria fatica e come ogni uomo sia destinato a cadere nell’orrido abisso dopo una vita caratterizzata da dolore, tale da far sorgere il dubbio se la vita stessa abbia un senso.

    • L'esistenza e la noia
    Il pastore, dopo aver posto alla luna, muta custode del segreto delle cose, domande che non ottengono alcuna risposta, si accorge del gregge, unico suo compagno di vita, che però, vive nell’inconsapevolezza del male di vivere: al riposo piacevole e ristoratore del gregge si contrappone quello del pastore caratterizzato da angoscia, da noia. Il pastore prova l’infelicità nativa dell’uomo, il più sublime dei sentimenti che lo distingue dagli altri esseri viventi, il tedio, un senso di insoddisfazione che non nasce dall’avvertimento di una mancanza, ma che è condizione congenita di infelicità.
    La strofa di chiusura del canto è scandita dai forse: prima il pastore pensa che potrebbe essere felice sotto altre spoglie (se potesse volare sino a raggiungere le altre stelle), poi si smentisce arrivando a riconoscere che il male è comune ad ogni essere vivente e che la vita è sventura al punto che funesto a chi nasce il dì natale.

     
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