Claudio Baglioni Forum - Un mondo in musica

I mesi dell'anno-GIUGNO

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    Giugno il papavero

    papavero

    Una leggenda che prende spunto dalla mitologia, collega l'origine del papavero alla vicenda di Proserpina, la bellissima figlia di Giove e della dea della Terra, che un giorno di giugno, mentre coglieva fiori in un prato di Sicilia, fu rapita da Plutone, dio degli inferi, che volle farla sua sposa.
    Quando la madre di Proserpina, Demetra, venne a sapere che la figlia avrebbe trascorso il resto dell'esistenza nel mondo sotterraneo su cui regnava Plutone, si disperò e corse a chiedere a Giove di intervenire.
    Giove, tuttavia, non fece nulla. Anzi, tentò di convincere Demetra della felice sorte che aveva avuto la loro figlia, divenuta regina. Ma Demetra non si lasciò lusingare e, presa dal suo dolore, cessò di occuparsi della Terra, tanto che presto ogni cosa avvizzì. Giove, allora, cominciò a temere per la vita delle creature e pregò Demetra di tornare a compiere il suo dovere. In cambio avrebbe convinto Plutone a lasciare tornare sulla terra Proserpina per almeno sei mesi ogni anno. Così fu e quando a primavera Proserpina tornò alla luce del sole, i prati si coprirono di erbe e fiori e tra le spighe di grano sbocciarono i papaveri, il cui caldo colore doveva ricordare a Proserpina la passione dello sposo che l'aspettava.

    fonte:http://ww2.raccontidifata.com/

     
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    CULTI E TRADIZIONI DEL MESE DI GIUGNO


    solstizio_terra_h_partb

    Nel sole la mitologia classica identificava Febo, Elios, ovvero Apollo, signore della luce, dispensatore della vita e della morte con le sue “mortifere quadrella” (le frecce portatrici di morte), sublime suonatore di cetra eptacorde, dominatore indiscusso delle Arti sulle quali presiedeva in Elicona, contornato dalle Muse graziose. Questo dio, bello e terribile ad un tempo, fonte indiscussa di verità che a Delfi oracolava per bocca della profetica Pizia, solcava incessantemente le vie aeree con il suo carro di fuoco compiendo, in sei mesi, un arco di cielo al cui limitare sostava per un attimo e poi, voltato il carro, effettuava instancabilmente un nuovo percorso a ritroso per giungere, dopo altri sei mesi, al capo opposto.

    In questo viaggio immaginario gli uomini del mondo antico identificarono due precisi momenti che chiamarono, in lingua latina, “Solis statio”, ovvero l’attimo della momentanea sosta del sole alla fine della corsa e, in lingua greca, “Tropikòs” l’azione cioè del volgere la direzione del carro per la ripresa del cammino all’inverso. “Solstizio” e “Tropico” sono così due termini spiegati dal punto di vista semantico ma, poiché scriviamo per il mese di giugno, non possiamo non soffermarci sul “Solstizio d’estate”, magari per fare un’ulteriore considerazione un po’ più sottile, se è vero che l’uomo, desideroso di sapere, anela sempre a squarciare il velo della conoscenza sulle cose che lo circondano. La nostra collocazione di abitanti dell’emisfero boreale ci porta a considerare la posizione del sole nel Tropico del cancro (normalmente indicata con le date del 21 giugno, dal punto di vista astronomico e del 24 giugno, dal punto di vista religioso ed esoterico), allo zenith, cioè nel punto più alto del cielo e quindi di maggiore irraggiamento luminoso. Questa circostanza fa sì che nell’iconografia cristiana il solstizio d’estate rappresenti il Cristo invitto che, nelle sembianze apollinee ed aureolato con un nimbo di luce, ci appaia come governatore del tempo e si mostri benedicente nel catino absidale delle cattedrali romaniche.

    Ma, ad un’analisi più approfondita, il simbolismo del solstizio, se proviamo ad allargarlo ad entrambi, quello d’inverno e quello d’estate, ci accorgiamo che non corrisponde affatto con il carattere delle stagioni che rispettivamente aprono. Il solstizio del 21 giugno è vero che prelude all’estate, ma apre la fase discendente del ciclo annuale. Viceversa, il solstizio del 21 dicembre, ancorché preluda all’inverno, dischiude decisamente la fase ascendente del ciclo annuale. Questa particolarità, già intuita dal mondo greco-romano, veniva rappresentata dal simbolismo delle cosiddette “porte solstiziali” incarnate dalle due facce di Giano bifronte alle quali, in età cristiana, dopo l’editto di Teodosio, si sovrapposero le figure dei due San Giovanni: il Battista (24 giugno) per il solstizio d’estate e l’Evangelista (27 dicembre) per il solstizio d’inverno.

    Contrariamente al comune sentire, la porta estiva introduce quindi la fase oscura, mentre la porta invernale conduce alla fase luminosa ed è per questo che la nascita del Cristo doveva collocarsi necessariamente nel solstizio d’inverno e quella del Battista nel solstizio d’estate in quanto sta scritto nel vangelo: “Occorre che egli (Cristo) cresca e che io (Giovanni Battista) decada” (Giovanni, 3, 30). Situazioni analoghe le riscontriamo in altre tradizioni culturali. Nel simbolismo pitagorico il solstizio invernale era la “porta degli dei”, mentre il solstizio d’estate era la “porta degli uomini”. Concetti questi che trovano un’eco nella tradizione indù che considera appunto il solstizio invernale la deva-yâna (la via degli dei) e il solstizio estivo la pitri-yâna (la via degli antenati). Alla luce di queste brevi considerazioni, qualora ce ne fosse ancora bisogno, non possiamo che convenire come la verità sia soltanto una, sebbene la sua essenza si manifesti nel mondo sensibile in forme multiformi e cangianti a seconda delle varie tradizioni e culture. Ma poiché siamo nel clima solstiziale, riterrei più pertinente chiudere parafrasando l’antico adagio dell’Ecclesiaste (cap. I, 10): Nihil sub sole novum (Nulla di nuovo sotto il sole).

    Durante il mese di Giugno viene festeggiato un momento riconosciuto in tutte le culture, il solstizio d’estate, intorno al 21 Giugno, Litha nel calendario neopagano. I solstizi sono i due momenti dell'anno nei quali il Sole raggiunge il punto più meridionale o settentrionale della sua corsa apparente nel cielo, rispettivamente al tropico del Capricorno e al tropico del Cancro.
    Etimologicamente, solstizio significa "arresto del sole", perché la sua elevazione zenitale non sembra cambiare da un giorno all'altro. I solstizi dipendono dall'inclinazione dell'asse terrestre. Il solstizio d'estate è la data del giorno più lungo dell'anno, e di conseguenza della notte più corta. Al momento del solstizio, il Sole raggiunge la sua massima declinazione nel suo movimento apparente rispetto al piano dell'eclittica, ed è allo zenit al tropico del Cancro. Rappresentando l'inizio dell'Estate è sempre stato nella storia occasione di feste.

    fonte:http://www.ecocastelli.it

     
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    Festa della Repubblica, tre poesie per i bambini

    Il 2 giugno si celebra la Festa della Repubblica e la nascita della nazione italiana nella data in cui si tenne nel 1946 il referendum tra Monarchia e Repubblica. La cerimonia prevede una parata militare e poi deposizione di una corona d’alloro sull’Altare della Patria a Roma.

    festa-della-prepubblica

    Per festeggiare la nostra Repubblica, proponiamo tre poesie anche per i bambini, All’Italia di Giacomo Leopardi, Il mio paese è l’Italia di Salvatore Quasimodo, Fratelli d’Italia di Goffredo Mameli diventato l’inno d’Italia.


    All’Italia di Giacomo Leopardi



    O patria mia, vedo le mura e gli archi
    E le colonne e i simulacri e l’erme
    Torri degli avi nostri,
    Ma la la gloria non vedo,
    Non vedo il lauro e il ferro ond’eran carchi
    I nostri padri antichi. Or fatta inerme
    Nuda la fronte e nudo il petto mostri,
    Oimè quante ferite,
    Che lívidor, che sangue! oh qual ti veggio,
    Formesissima donna!
    Io chiedo al cielo e al mondo: dite dite;
    Chi la ridusse a tale? E questo è peggio,
    Che di catene ha carche ambe le braccia,
    Sì che sparte le chiome e senza velo
    Siede in terra negletta e sconsolata,
    Nascondendo la faccia
    Tra le ginocchia, e piange.
    Piangi, che ben hai donde, Italia mia,
    Le genti a vincer nata
    E nella fausta sorte e nella ria.

    Se fosser gli occhi tuoi due fonti vive,
    Mai non potrebbe il pianto
    Adeguarsi al tuo danno ed allo scorno;
    Che fosti donna, or sei povera ancella.
    Chi di te parla o scrive,
    Che, rimembrando il tuo passato vanto,
    Non dica: già fu grande, or non è quella?
    Perchè, perchè? dov’è la forza antica?
    Dove l’armi e il valore e la costanza?
    Chi ti discinse il brando?
    Chi ti tradì? qual arte o qual fatica
    O qual tanta possanza,
    Valse a spogliarti il manto e l’auree bende?
    Come cadesti o quando
    Da tanta altezza in così basso loco?
    Nessun pugna per te? non ti difende
    Nessun de’ tuoi? L’armi, qua l’armi: ío solo
    Combatterà, procomberò sol io.
    Dammi, o ciel, che sia foco
    Agl’italici petti il sangue mio.
    Dove sono i tuoi figli?. Odo suon d’armi
    E di carri e di voci e di timballi
    In estranie contrade
    Pugnano i tuoi figliuoli.
    Attendi, Italia, attendi. Io veggio, o parmi,
    Un fluttuar di fanti e di cavalli,
    E fumo e polve, e luccicar di spade
    Come tra nebbia lampi.
    Nè ti conforti e i tremebondi lumi
    Piegar non soffri al dubitoso evento?
    A che pugna in quei campi
    L’itata gioventude? O numi, o numi
    Pugnan per altra terra itali acciari.
    Oh misero colui che in guerra è spento,
    Non per li patrii lidi e per la pia
    Consorte e i figli cari, Ma da nemici altrui
    Per altra gente, e non può dir morendo
    Alma terra natia,
    La vita che mi desti ecco ti rendo.
    Oh venturose e care e benedette
    L’antiche età, che a morte
    Per la patria correan le genti a squadre
    E voi sempre onorate e gloriose,
    O tessaliche strette,
    Dove la Persia e il fato assai men forte
    Fu di poch’alme franche e generose!
    lo credo che le piante e i sassi e l’onda
    E le montagne vostre al passeggere
    Con indistinta voce
    Narrin siccome tutta quella sponda
    Coprir le invitte schiere
    De’ corpi ch’alla Grecia eran devoti.
    Allor, vile e feroce,
    Serse per l’Ellesponto si fuggia,
    Fatto ludibrio agli ultimi nepoti;
    E sul colle d’Antela, ove morendo
    Si sottrasse da morte il santo stuolo,
    Simonide salia,
    Guardando l’etra e la marina e il suolo.
    E di lacrime sparso ambe le guance,
    E il petto ansante, e vacillante il piede,
    Toglicasi in man la lira:
    Beatissimi voi,
    Ch’offriste il petto alle nemiche lance
    Per amor di costei ch’al Sol vi diede;
    Voi che la Grecia cole, e il mondo ammira
    Nell’armi e ne’ perigli
    Qual tanto amor le giovanette menti,
    Qual nell’acerbo fato amor vi trasse?
    Come si lieta, o figli,
    L’ora estrema vi parve, onde ridenti
    Correste al passo lacrimoso e, duro?
    Parea ch’a danza e non a morte andasse
    Ciascun de’ vostri, o a splendido convito:
    Ma v’attendea lo scuro
    Tartaro, e l’ond’a morta;
    Nè le spose vi foro o i figli accanto
    Quando su l’aspro lito
    Senza baci moriste e senza pianto.
    Ma non senza de’ Persi orrida pena
    Ed immortale angoscia.
    Come lion di tori entro una mandra
    Or salta a quello in tergo e sì gli scava
    Con le zanne la schiena,
    Or questo fianco addenta or quella coscia;
    Tal fra le Perse torme infuriava
    L’ira de’ greci petti e la virtute.
    Ve’ cavalli supini e cavalieri;
    Vedi intralciare ai vinti
    La fuga i carri e le tende cadute,
    E correr fra’ primieri
    Pallido e scapigliato esso tiranno;
    ve’ come infusi e tintí
    Del barbarico sangue i greci eroi,
    Cagione ai Persi d’infinito affanno,
    A poco a poco vinti dalle piaghe,
    L’un sopra l’altro cade. Oh viva, oh viva:
    Beatissimi voi
    Mentre nel mondo si favelli o scriva.
    Prima divelte, in mar precipitando,
    Spente nell’imo strideran le stelle,
    Che la memoria e il vostro
    Amor trascorra o scemi.
    La vostra tomba è un’ara; e qua mostrando
    Verran le madri ai parvoli le belle
    Orme dei vostro sangue. Ecco io mi prostro,
    O benedetti, al suolo,
    E bacio questi sassi e queste zolle,
    Che fien lodate e chiare eternamente
    Dall’uno all’altro polo.
    Deh foss’io pur con voi qui sotto, e molle
    Fosse del sangue mio quest’alma terra.
    Che se il fato è diverso, e non consente
    Ch’io per la Grecia i mororibondi lumi
    Chiuda prostrato in guerra,
    Così la vereconda
    Fama del vostro vate appo i futuri
    Possa, volendo i numi,
    Tanto durar quanto la, vostra duri.

    Fratelli d’Italia di Goffredo Mameli

    Fratelli d’Italia,
    l’Italia s’è desta,
    dell’elmo di Scipio
    s’è cinta la testa.
    dov’è la vittoria?
    Le porga la chioma,
    che schiava di Roma
    Iddio la creò.
    Stringiamoci a corte,
    siam pronti alla morte;

    l’Italia chiamò.
    Uniamoci, uniamoci,
    l’unione e l’amore
    rivelano ai popoli
    le vie del Signore.
    Giuriamo far libero
    il suolo natio:
    uniti, per Dio,
    chi vincer ci può?
    Stringiamoci a coorte,
    siam pronti alla morte.

    l’Italia chiamò,
    Noi siamo da secoli
    calpesti, derisi,
    perché non siam popolo,
    perché siam divisi.
    raccolgaci un’unica
    bandiera, una speme:
    di fonderci insieme
    già l’ora suonò.
    Stringiamoci a coorte,
    siam pronti alla morte.
    Italia chiamò,

    Dall’Alpe a Sicilia
    dovunque è Legnano;
    ogn’uom di Ferruccio
    ha il core, ha la mano;
    i bimbi d’Italia
    si chiaman Balilla;
    il suon d’ogni squilla
    i vespri suonò.
    Stringiamci a coorte,
    siam pronti alla morte:
    Italia chiamò.

    Il mio paese è l’Italia di Salvatore Quasimodo

    Più i giorni s’allontanano dispersi
    e più ritornano nel cuore dei poeti.
    Là i campi di Polonia, la piana dì Kutno
    con le colline di cadaveri che bruciano
    in nuvole di nafta, là i reticolati
    per la quarantena d’Israele,
    il sangue tra i rifiuti, l’esantema torrido,
    le catene di poveri già morti da gran tempo
    e fulminati sulle fosse aperte dalle loro mani,
    là Buchenwald, la mite selva di faggi,
    i suoi forni maledetti; là Stalingrado,
    e Minsk sugli acquitrini e la neve putrefatta.
    I poeti non dimenticano. Oh la folla dei vili,
    dei vinti, dei perdonati dalla misericordia!

    Tutto si travolge, ma i morti non si vendono.
    Il mio paese è l’Italia, o nemico più straniero,
    e io canto il suo popolo, e anche il pianto
    coperto dal rumore del suo mare,
    il limpido lutto delle madri, canto la sua vita.


    www.tuttomamma.com

     
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