Claudio Baglioni Forum - Un mondo in musica

Posts written by Lussy60

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    Storia La storia dei Paradisi
    Cristiani, ebrei, musulmani, induisti: tutti descrivono i loro paradisi, i luoghi dove i giusti si incontreranno dopo la morte. Eccoli.

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    La folla alle porte del paradiso, dettaglio dell'affresco del Giudizio universale, opera collettiva nel monastero di Voronet (Gura Humorului, Romania).

    I primi a sognare il paradiso furono i sumeri e lo chiamarono Dilmun: si trova descritto in una tavoletta (2500 circa avanti Cristo) come un luogo puro e splendido, dove non esistono malattie né violenza. La parola "paradiso" deriva invece dall'antico persiano piridaeza, e significa giardino, parco. Tradotto dai greci diventò paradeisos, e così venne ribattezzato il giardino dell'Eden nella Bibbia dei Settanta, cioè la traduzione in greco dall'ebraico, fatta nel III secolo avanti Cristo.

    Ma il paradiso ha tanti altri nomi, quante sono le religioni che, nel corso dei secoli, l'hanno promesso ai propri devoti: Sheol per gli ebrei, Campi Elisi per gli antichi greci, Gan Eden per i musulmani, Terra Pura per i buddhisti, Vaikhunta per gli induisti. Sono tutti luoghi rassicuranti e idilliaci, che tuttavia rispecchiano le diverse culture dalle quali provengono.

    «Il paradiso è una dimensione simbolica necessaria a ogni cultura perché è il riflesso di un'utopia sociale: nel paradiso tutto è perfetto perché tutti siamo uguali e felici. Non esiste conflitto tra me e te, siamo tutti diversi ma in un unico corpo che è il corpo di Dio. Il paradiso è anche una grande visione psicologica: rappresenta il ritorno all'utero materno, dove si realizza finalmente la fusione di due in uno», dice Massimo Raveri, ordinario di religioni e filosofie dell'Asia orientale all'università Ca' Foscari di Venezia.

    DOV'È?
    Il paradiso quindi è un'utopia, che non si può realizzare in questa vita. Bisogna prima morire e raggiungere il luogo dell'eterno. Ma dove si trova? Il paradiso non è in terra, perché nessun esploratore l'ha mai trovato. Non è in cielo, perché gli astronomi hanno escluso di poterlo avvistare. La scienza, nel corso dei secoli, ha contribuito cioè a indebolire tutte le teorie geografiche sull'aldilà. Eppure la speranza di raggiungerlo è sempre viva.

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    La chiesa cattolica non trascura questa profonda esigenza e definisce il cielo come il «fine ultimo dell'uomo e la realizzazione delle sue aspirazioni più profonde, lo stato di felicità suprema e definitiva». Poi però preferisce frenare l'immaginazione dei credenti e ricondurre la localizzazione del paradiso tra i misteri della fede: «Questa comunione beata con Dio e con tutti coloro che sono in Cristo supera ogni possibilità di comprensione e di descrizione », recita il Catechismo della Chiesa Cattolica.

    SUCCESSO CRISTIANO. Ma non è sempre stato così. Anzi, il successo della religione cristiana, fin dai tempi dell'impero romano, si deve proprio alle rosee prospettive che offre per l'aldilà, a differenza per esempio dell'ebraismo, che nella sua fase più antica aveva descritto l'oltretomba (Sheol) come un mondo oscuro e sotterraneo, dove venivano confinati, dopo la morte, tanto i buoni quanto i malvagi. Più tardi (nel primo secolo dopo Cristo), correggendo il tiro, anche i rabbini introdussero il concetto della resurrezione dei morti e assegnarono ai giusti la vita eterna nel giardino dell'Eden. Un paradiso di pura spiritualità, nel quale il massimo piacere è passeggiare in compagnia di Dio, e per farlo bisogna conoscere alla perfezione la Torah (cioè i primi cinque libri della Bibbia, detti anche Pentateuco).

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    Secondo la tradizione il profeta Maometto venne condotto dall'arcangelo Gabriele, durante un mirabolante viaggio notturno in groppa a un cavallo alato, dalla Mecca a Gerusalemme affinché potesse vedere il paradiso con i propri occhi. © Coll. De Gigord / adoc-photos / adoc-photos


    CITTÀ.
    Un paradiso di pura contemplazione era anche quello prospettato dai primi teologi cristiani, come San Tommaso. Ma il testo sacro che più ha solleticato la fantasia degli esegeti è l'Apocalisse di Giovanni. In essa si descrive come dimora degli eletti, dopo la resurrezione, la Gerusalemme celeste. È una città cinta da mura di diaspro, con le case d'oro e cristallo, decorate di pietre preziose. Nella piazza centrale si trova l'Albero della vita (lo stesso che si trovava nel Giardino dell'Eden), che produce frutti ogni mese.

    Presentare il paradiso come una città ha reso molto più concreta la visione dell'aldilà, almeno per i protestanti che, all'interpretazione allegorica dei cattolici, hanno sempre preferito quella letterale. L'evangelico Judson Cordwall, per esempio, nel suo libro Heaven del 1989, non lesina i particolari. Immagina la Gerusalemme celeste come un cubo di 1500 miglia di diametro, formato da 1500 livelli sovrapposti. Ha anche calcolato quanti potrebbero essere, fino a oggi, gli eletti: 28 miliardi.

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    ATTICO. La promessa più allettante per l'aldilà è comunque quella dell'Islam: nel Corano il Gan Eden viene descritto come un luogo di delizie materiali. Gli eletti possono godere di frutta, carne e miele, vino delizioso, bagni in sorgenti purissime e tante vergini, le urì, per allietare le giornate. "Ma quando rivolgete una supplica al Signore chiedetegli il Firdaws, poiché è il piano migliore e più elevato del paradiso", ha detto Allah. Il Firdaws è in pratica l'attico del paradiso musulmano, che è concepito come un palazzo di otto piani sulla cui cima sta il trono di Dio. «In comune tra queste religioni c'è la concezione che il paradiso, da luogo di perfezione iniziale, perduta, si è trasformato nel luogo della perfezione finale », spiega lo storico delle religioni Giovanni Filoramo. «Nelle religioni orientali, invece, dove vige una concezione ciclica del tempo, il paradiso non è uno stato definitivo, ma un passaggio che torna a ripetersi tra un ciclo di vita e l'altro».

    Così nell'induismo, secondo il quale i paradisi sono molti. «C'è quello di Indra, quello di Shiva, quello di Visnu (il Vaikhunta). Tutti sono luoghi di piacere, con pranzi, bellissime fanciulle, coppieri divini. Però alla fine di questi godimenti l'uomo torna sulla terra. Lo scopo infatti è di migliorare se stessi, di vita in vita, per raggiungere la liberazione definitiva, che è proprio l'annullamento del vivere», dice Stefano Piano, uno dei principali studiosi di indologia italiani.

    85 milioni
    è il numero massimo di reincarnazioni di un individuo secondo l'induismo


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    Su una montagna sacra della catena del Kunlun, nella Cina Occidentale, si trova il paradiso del taoismo. Lì dimora Xi Wang Mu, la Madre regale dell’Occidente e dea della vita eterna, qui rappresentata in un intaglio di giada del XVII secolo. Essa riceve l’uomo, divenuto un genio immortale, e sorveglia sull’equilibrio tra regno celeste e regno terreno.

    NIRVANA. Non diversa la concezione del buddhismo classico (600 avanti Cristo): il Buddha non parla del "dopo" perché quello che conta è la liberazione dal dolore dell'esistenza. La felicità, cioè il nirvana, è la fine delle continue rinascite, il nulla. In una fase storica successiva, invece, il Buddha, che assume le caratteristiche di una divinità, prospetta agli eletti illuminati il suo regno di perfezione assoluta, la Terra Pura. Nell'amidismo, una corrente del buddhismo, la Terra Pura è fatta di laghi, fiori di loto, foreste di pietre preziose, giardini fatati e musica celeste. Ma è un'eccezione. «L'amidismo infatti descrive anche un Buddha molto umano, buono, che si cura di noi, e che ci salva portandoci nella Terra Pura. È insomma molto vicino al cristianesimo », spiega Raveri. «E questa è anche la ragione del suo recente successo in Occidente. Come potrebbe infatti una cultura come la nostra, fortemente influenzata dal cristianesimo, accettare il buddhismo classico e cioè che la realtà ultima sia il vuoto e la felicità il nulla?»

    LE FONTI. Ovviamente ciascuna religione fa riferimento ai propri libri sacri. Nel dettaglio ecco quali.

    Il paradiso dei cristiani viene descritto nella Genesi e nell'Apocalisse di Giovanni. Tuttavia, anche dopo la Bibbia, molti santi e teologi sono tornati sull'argomento.

    Anche per gli ebrei, oltre all'Antico testamento, vale la letteratura post-biblica, cioè le fonti rabbiniche.

    La fonte principale per il paradiso islamico è naturalmente il Corano.

    Le religioni orientali, invece, non hanno un unico testo sacro. I buddhisti, sulla base dell'insegnamento del Buddha, hanno fondato molte scuole e cia- scuna ha prodotto i suoi Sutra (testi sacri). A parlare di paradiso è la scuola amidista.

    Anche l'induismo si divide in molte scuole. Tutte seguono la Bhagavadgita, ciascuna in più ha i propri sampradaya, cioè testi tradizionali. Gli induisti credono che la divinità non abbia una sola forma, ma infinite. A ognuna danno un nome: Shiva, Visnu, Krisna sono le maggiori.

    Il taoismo cinese ha come scopo la ricerca dell'immortalità e indica una serie di pratiche per raggiungerla. Il libro fondamentale è il Tao Teh-Ching.

    Gli indiani d'America non hanno un unico testo sacro, ma molte leggende, per lo più orali.

    fonte:https://www.focus.it/cultura/
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    Mistero I draghi esistevano davvero. E stanno tornando


    Una sorprendente ricerca pubblicata su Nature rivela che gli animali sputafuoco non erano poi così leggendari, ma reali. E che, grazie ai cambiamenti climatici, dobbiamo aspettarci di rivederli presto fra noi.

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    Una scoperta a dir poco sensazionale è stata pubblicata su Nature, e se non fosse per l'autorevolezza della fonte, saremmo portati a definirla una bufala. La sostanza dell'articolo è che i draghi, esseri da sempre considerati frutto di leggende popolari, sono in realtà esistiti davvero, almeno nel Medioevo. E sono destinati a tornare. Il paper elenca i fattori che determineranno la resurrezione dei giganti alati sputafuoco, alcuni dei quali paradossali, come la crisi economica e la mancanza di una politica globale per combattere il riscaldamento globale (global warming).

    Dunque è anche colpa (o merito, dipende da come la pensate politicamente) di Donald Trump.


    IL MANOSCRITTO RITROVATO.
    La rivelazione arriva uno studio congiunto di Andrew J. Hamilton (University of Melbourne), Robert M. May (University of Oxford) e Edward K. Waters (University of Notre Dame, Australia), che hanno analizzato alcuni documenti da poco ritrovati presso la Oxford’s Bodleian Library, in occasione degli intensi lavori investigativi su manoscritti dell'epoca della Magna Charta, di cui quest'anno si celebrano gli 800 anni.

    Il documento, letteralmente disseppellito dalla polvere della biblioteca inglese, è attribuito al monaco Godfrey of Exmouth ed è illuminante su alcuni aspetti della vita quotidiana inglese del tredicesimo secolo. Secondo gli studiosi, i testi sembrano dimostrare inequivocabilmente la prova dell'esistenza reale dei draghi nel nostro mondo e addirittura l'impatto che hanno avuto sulla popolazione. Non è un caso che miti e leggende di tutto il mondo ne parlino, dagli scritti dello zoroastrismo alla letteratura greca, dalle religioni slave alle credenze asiatiche. Fino al dipinto di San Giorgio e il Drago, e ai film hollywoodiani.

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    San Giorgio e il drago in un dipinto di Paolo Uccello, conservata alla National Gallery di Londra e databile al 1456 circa.


    UN'EPOCA D'ORO (E ARGENTO). Sbalorditi dalle rivelazioni del testo di Exmouth, i tre studiosi hanno esaminato altri documenti posteriori, che hanno consolidato le evidenze: i draghi hanno davvero proliferato nel periodo medievale. Hanno potuto regnare incontrastati sugli uomini grazie all'abbondanza di cibo (gli esseri umani stessi, in special modo i cavalieri), alla disponibilità di materiali per la nidificazione (oro e argento) e a un periodo climatico inaspettatamente caldo, necessario per mantenere una alta temperatura boccale e nasale, cruciale per la loro sopravvivenza.

    Inoltre, gli strumenti considerati "magici" per combatterli non funzionavano più, cosa che fra l'altro può avere contribuito a relegare streghe e maghi nella sfera della blasfemia: non più in grado di contrastare i draghi, hanno perso il loro ruolo utile nella società, che ha iniziato a perseguitarli per le loro credenze non ortodosse (ad esempio l'eliocentrismo).


    Fu il periodo della Prima Stirpe dei draghi (nel paper vengono chiamati “bestie ectotermiche”).

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    L'IBERNAZIONE. Gli autori dello studio individuano la fine del dominio dei draghi verso la fine del quindicesimo secolo, smentendo quindi gli studi che ritenevano il quattordicesimo secolo come l'epoca della loro fine. Le cause sono da individuare nel calo delle temperature che colpì l'Europa fra 1400 e 1650 circa (la cosiddetta Piccola Era Glaciale) e nella carenza di cibo (era finita l'epoca cavalleresca). Questi elementi, combinati, non avrebbero però provocato l'estinzione, ma solo innescato un processo di ibernazione delle varie specie di mostri. Periodicamente qualche drago si risvegliava dal grande sonno per verificare se le condizioni ambientali potessero consentire un ritorno. Si registrò il sorgere di una Seconda Stirpe, fra 1680 e 1690, favorita dalla fine del periodo freddo. Poi un nuovo grande sonno. Fino ai nostri tempi.


    IL RITORNO.
    Nelle ultime decadi alcuni fattori di cui non stiamo tenendo conto stanno "lavorando" per l'avvento della Terza Stirpe dei draghi. Sono fenomeni apparentemente non riconducibili a un'eventualità del genere, ma pare proprio che gli indizi principali siano la scarsa attenzione al global warming e il fallimento delle politiche economiche, che stanno rimettendo in circolo oro e argento come beni rifugio (gli autori parlano di "quantitative thieving"). A questo si aggiunge il paradossale ritorno dei cavalieri in Australia.


    Tutto questo potrebbe indurre i draghi a uscire dall'ibernazione e riaffacciarsi nel nostro mondo. Che cosa mangeranno? Ovviamente pesci, anzi pesci d'aprile. Se siete arrivati fin qui con il giusto scetticismo non sarà stata una sopresa. Ad ogni modo, buon pesce da aprile da Focus e Nature. E dai draghi.

    fonte:https://www.focus.it/cultura/mistero
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    Salute Vaccino anticovid per i bambini dai 5 agli 11 anni: perché sì?

    Approvato negli USA il vaccino di Pfizer per la fascia 5-11 anni: in attesa della decisione dell'EMA, cerchiamo di capire perché è bene vaccinare anche i più piccoli.

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    La FDA (Food and Drug Administration, il corrispettivo statunitense della nostra EMA) ha da poco autorizzato l'uso del vaccino di Pfizer-BioNtech in dose ridotta sui bambini dai 5 agli 11 anni. In Europa l'approvazione non è ancora arrivata, ma l'EMA sta decidendo sul da farsi: Sabrina Assoumou, specialista in malattie infettive e professoressa di medicina alla Boston University, risponde a qualche domanda in merito, spiegando perché è importante vaccinare i più piccoli e in che cosa il vaccino si differenzia da quello somministrato agli adulti.

    DOSE MINORE.
    La principale differenza tra il vaccino per gli over-12 e quello per gli under-12 sta nella dose somministrata: gli studi hanno infatti dimostrato che per immunizzare i bambini dai 5 agli 11 anni è sufficiente un terzo della dose completa utilizzata per gli adulti. Per il resto, il vaccino di Pfizer approvato per la fascia 5-11 anni è identico a quello inoculato alla popolazione maggiore di 12 anni.

    È DAVVERO NECESSARIO VACCINARE I BAMBINI? La risposta è sì: con la diffusione della variante Delta (quella che una volta veniva chiamata "indiana") molti bambini sono stati contagiati e hanno contribuito a diffondere la covid. «Negli Stati Uniti ci sono 28 milioni di bambini tra i 5 e gli 11 anni», afferma Assoumou, che sottolinea che per ridurre la trasmissione del virus è necessario vaccinare anche i più piccoli.

    MA FUNZIONA, ED È SICURO? Il vaccino della Pfizer è sicuro e scatena una forte risposta immunitaria nei bambini dai 5 agli 11 anni, comparabile a quella dei ragazzi tra i 16 e i 25 anni. L'efficacia nel prevenire la covid si è attestata al 90,7%, e gli studi condotti su oltre 3.000 bambini non hanno rilevato alcun effetto secondario grave. Per ora non abbiamo dati clinici dal mondo reale, poiché la campagna vaccinale non è ancora iniziata: tuttavia un report pubblicato di recente ha confermato l'efficacia del vaccino Pfizer nei ragazzi dai 12 ai 18, e speriamo presto di avere dati simili anche per la categoria più giovane.

    fonte:https://www.focus.it/scienza/
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    Salute Ma invecchiare è davvero inevitabile?

    Forse no: la medicina potrebbe in futuro curare il nostro corpo danneggiato dal tempo, impedendoci di invecchiare e regalandoci una vita più lunga e sana.

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    «L'invecchiamento è la crescita esponenziale del rischio di morte e sofferenza, e rappresenta il maggiore problema umanitario del nostro tempo», afferma il biologo Andrew Steele in un'intervista al Guardian. Ma è davvero obbligatorio invecchiare? Secondo Steele, no: per impedire al corpo di invecchiare e sviluppare le patologie tipiche dell'età, bisogna agire alla fonte, intervenendo su quelli che i biogerontologi chiamano hallmark, ovvero le caratteristiche dell'invecchiamento, come la senescenza cellulare o il danneggiamento del DNA (chiamato disfunzione mitocondriale), che ci predispongono a una serie di malattie legate all'età, come la demenza, l'ipertensione o diverse patologie cardiovascolari.

    I PROGRESSI DELLA SCIENZA. Negli ultimi trent'anni la ricerca in ambito di biogerontologia ha fatto passi da gigante. Qualche esempio? In una ricerca del 2016, un farmaco (la spermidina) si è rivelato un elisir di lunga vita per dei topi, la cui esistenza è stata allungata del 10%; nel 2017 uno studio ha descritto il ringiovanimento di alcune cavie, trattate con una molecola che "spinge al suicidio" le cellule senescenti; nel 2020, un trapianto di cellule staminali da topi più giovani a topi più anziani ha permesso a questi ultimi di vivere tre mesi in più, l'equivalente umano di oltre dieci anni.


    IMMORTALITÀ E SOVRAPPOPOLAZIONE. Quello che Steele ricerca non è certo un'umanità immortale: le persone continueranno a morire, perché i progressi della scienza non potranno impedire incidenti stradali, omicidi, o morti a causa di virus per i quali non esiste un vaccino. Ciò che auspica è una vita più lunga e sana, nella quale nonni e bisnonni possano giocare al parco con i nipotini godendo dei benefici di un corpo giovane.

    Quando qualcuno gli fa notare il problema della sovrappopolazione, risponde sottolineando l'assurdità della domanda: «Esistono molti modi per affrontare la questione», afferma. «Se fossimo immortali, inventare l'invecchiamento sarebbe forse una soluzione?». Una domanda insistente e ridicola, sostiene: se, ad esempio, annunciasse al mondo di aver trovato una cura alla leucemia infantile (che avrebbe dunque lo stesso risultato: impedire la morte di qualcuno), nessuno si porrebbe il problema del rischio sovrappopolazione.

    Secondo Steele, tutto questo fa ben sperare: «Credo che entro i prossimi dieci anni avremo un farmaco contro l'invecchiamento», afferma.

    I MALI CHE UCCIDONO LENTAMENTE
    . Per Steele, l'invecchiamento è paragonabile ai cambiamenti climatici: entrambi sono mali che si muovono in sordina, in una lenta ma inesorabile progressione che ci porta alla morte. Tuttavia, proprio per questa loro apparente immutabilità, non sono visti come minacce a cui far fronte con urgenza, a differenza di eventi improvvisi e (in)aspettati, come ad esempio la pandemia da CoViD-19.

    Ciò che ancora non ci è chiaro è che la medicina funziona meglio se previene, invece che curare: «I farmaci anti invecchiamento avrebbero potuto ridurre l'impatto della covid nelle fasce di popolazione più anziane», sostiene il biologo. Per questo è necessario finanziare la ricerca scientifica non solo in situazioni di emergenza come la covid, ma anche e soprattutto in momenti di relativa "calma", nei quali si possono studiare vaccini e nuove cure senza la fretta data da un mostro invisibile che si porta via ogni giorno centinaia di vite umane.


    Scienze Contro l'invecchiamento: il segreto dell'eterna giovinezza

    Invecchiamento: la chiave dell'eterna giovinezza sta nei telomeri, che ora forse sappiamo come preservare.

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    Contro l'invecchiamento: forse esiste una nuova via. Shutterstock
    Dimenticate i quadri che invecchiano per noi (come quello di Dorian Gray) e le pietre filosofali: il segreto per snobbare l'invecchiamento è nascosto nei telomeri, piccole porzioni di DNA che si trovano alla fine di ogni cromosoma e hanno il compito di proteggerlo.

    NESSUN RITOCCO. I telomeri cambiano con il passare del tempo, accorciandosi a ogni divisione cellulare fino a perdere il loro ruolo di "cuscinetto" per impedire alla doppia elica di sfibrarsi. Cercare di potenziarli è da tempo l'obiettivo di molti studi, che però in passato sono sempre intervenuti sul DNA, alterando l'espressione genica.

    UN LAVORO DECENNALE. «Il risultato della nostra ricerca rafforza l'idea che per perseguire la longevità non bisogna considerare solo i geni: si può estendere la durata della vita senza alterare il DNA», afferma Maria Blasco, coordinatrice dello studio. La scoperta alla base di questo lavoro è avvenuta per caso dieci anni fa e riguarda le iPS, le cellule staminali pluripotenti indotte (cellule di un organismo adulto alle quali è stata restituita la pluripotenza, ovvero la capacità di differenziarsi in diversi tipi di cellule).

    I ricercatori del CNIO stavano lavorando con alcune colture di iPS quando hanno notato che, dopo un certo numero di divisioni, queste acquisivano dei telomeri lunghi il doppio del normale. Incuriositi, sono andati a fondo, scoprendo infine che anche le cellule embrionali pluripotenti in coltura si comportavano allo stesso modo: i risultati sembrano attribuibili all'azione di un particolare enzima, la telomerasi.


    PIÙ SANI E PIÙ LONGEVI. Ci sono voluti anni di studi prima che il gruppo riuscisse a ottenere, a partire da queste cellule embrionali, topi aventi il 100% delle cellule con telomeri iperestesi. I risultati, stando a quanto affermano i ricercatori, sono "senza precedenti". I roditori vivono il 13% in più della media e sono più sani. «Hanno meno tumori e sono più magri, perché accumulano meno grasso», spiegano i ricercatori: «il loro invecchiamento metabolico è minore, hanno livelli più bassi di colesterolo e tollerano meglio insulina e glucosio. Il loro DNA si danneggia meno con l'età e i mitocondri, il tallone d'Achille della vecchiaia, funzionano molto meglio.»

    Il prossimo passo della ricerca, afferma Blasco, sarà generare una stirpe di roditori che trasmettano i telomeri allungati alle generazioni seguenti, per vedere se questa longevità acquisita possa essere trasmessa e, di più, possa continuare ad aumentare.


    Salute Perché non siamo fatti per vivere per sempre

    I geni che guidano uno dei meccanismi necessari alla salute cellulare e al successo riproduttivo - l'autofagia - contribuiscono allo stesso tempo al processo di invecchiamento.

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    I geni che favoriscono il processo di invecchiamento, in un'illustrazione concettuale. Wikimedia Commons
    Se siamo destinati a invecchiare anziché vivere ad oltranza, è per una svista dell'evoluzione, che ha preferito favorire un meccanismo che promuove il successo evolutivo - anche se questo ha un "costo" in termini di sopravvivenza.

    I geni che presiedono a uno dei processi chiave per la salute delle cellule, l'autofagia, nei vermi giovani e prestanti, sono gli stessi che, in età avanzata, presiedono al processo di invecchiamento. Lo sostiene un articolo pubblicato sulla rivista Genes & Development, che potrebbe avere implicazioni importanti nella ricerca contro le malattie neurodegenerative.

    DOMANDA APERTA. Charles Darwin ci ha insegnato che, per la selezione naturale (il meccanismo con il quale avviene l'evoluzione), in una popolazione molto diversa dal punto di vista genetico, si ha un progressivo aumento della frequenza degli individui con caratteristiche ottimali per quell'ambiente, in grado di riprodursi con più facilità e di trasmettere i geni alle generazioni successive.

    Più un tratto risulta importante nel determinare il successo riproduttivo, più forte dovrebbe essere la selezione di quella caratteristica. In teoria, questo dovrebbe dare origine a individui che non invecchino mai e che - rimanendo sempre giovani - possano continuare a trasmettere i propri geni a ciclo continuo. Ma sappiamo che non funziona così: gli individui di ogni specie invecchiano e muoiono, anche se con modalità e tempi differenti.


    www.focus.it/scienza/s
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    Curiosità I capelli bianchi possono tornare del loro colore originale?

    Se è vero che lo stress ci fa venire i capelli bianchi, sembra che l'assenza di stress li faccia tornare scuri. Ma basta davvero solo rilassarsi per tornare giovani? Spoiler: no.

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    La scienza aveva già dimostrato che lo stress fa davvero venire i capelli bianchi: ciò che però non si sapeva è che l'assenza di stress può avere l'effetto inverso, e far riprendere colore alle nostre chiome. È quanto emerge da uno studio pubblicato su eLife, che spiega come il colore dei capelli può essere ristabilito ritrovando la calma: «Capire i meccanismi che permettono ai capelli bianchi di riacquisire la loro pigmentazione originale potrebbe fornire nuovi indizi sulla malleabilità dell'invecchiamento, e farci capire in che modo viene influenzato dallo stress», sottolinea Martin Picard, uno degli autori.

    Quando i capelli sono ancora sottopelle (come follicoli) sono influenzati dagli ormoni dello stress e da ciò che accade nel nostro corpo e nella nostra mente. Una volta spuntati dallo scalpo, si induriscono e si cristallizzano in una forma stabile. «L'invecchiamento non è un processo lineare, ma può essere alterato, almeno in parte, o anche temporaneamente ribaltato», sostiene Picard.


    VIETATO STRESSARSI. I ricercatori hanno studiato i capelli di 14 volontari, grazie a un innovativo metodo che ha permesso loro di catturare delle immagini dettagliate di minuscole sezioni di capello e analizzarne la perdita della pigmentazione. Ogni sezione, ampia circa 1/20 di millimetro, corrisponde a circa un'ora di crescita del capello. Dai risultati è emerso che gli individui più stressati erano quelli con più capelli grigi, ma non solo: «Uno dei volontari, durante le vacanze, ha riacquisito colore in cinque capelli che erano diventati bianchi per lo stress», spiega Picard.

    Per capire meglio in che modo lo stress influenzi il colore dei nostri capelli, i ricercatori hanno misurato i livelli di migliaia di proteine, rilevandone le variazioni su tutta la lunghezza del capello. È emerso che i cambiamenti indotti dallo stress nei mitocondri potrebbero essere il motivo dell'ingrigirsi dei capelli: «I mitocondri sono come delle piccole antenne dentro le cellule che rispondono a diversi segnali, tra cui lo stress psicologico», spiega Picard.
    NIENTE MIRACOLI. È importante ricordare che una vita frenetica, da sola, non può essere responsabile dello scolorimento delle nostre chiome, e dunque che non basta essere rilassati per scongiurare la comparsa dei capelli bianchi per sempre. Lo stress, infatti, è un fattore che si aggiunge ad altri preesistenti, come l'età biologica e altri: infatti non è verosimile pensare che un bambino di dieci anni possa diventare brizzolato a causa di un periodo di forte stress, come, viceversa, non lo è pensare che un settantenne che ha da anni i capelli bianchi si ritrovi improvvisamente con una chioma scura grazie a un periodo di relax.

    fonte:https://www.focus.it/cultura/curiosita/i-
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    La racchetta: il guantone del tennista

    "Il tennis è pugilato, è uno sport violento, uno contro l’altro, è boxe senza contatto". Aveva ragione Andre Agassi, i colpi arrivano e li senti eccome. Solo che hai bisogno di un prolungamento del braccio, di uno strumento vivo che si chiama racchetta per ricevere e colpire, scegliere la traiettoria, la potenza e la velocità da dare alla pallina, al colpo. Un attrezzo del mestiere concettualmente semplice: c’è un telaio, a cui è fissato un piatto corde incrociate, e un’impugnatura. Tutto qui. Eppure la racchetta, nella sua evoluzione tecnologica di quasi 150 anni, non solo è stata determinante per la prestazione e la componente psicologica del tennista, ma è stata capace di ridefinire lo stile del tennis.
    Le racchette da tennis nel tempo
    La natura ha dato a questo sport quello che ha potuto per circa un secolo. Le racchette in legno hanno segnato un’epoca che va dal 1874 alla fine degli anni Settanta, con il passaggio definitivo alla forma ovale agli inizi del Novecento. Certo, in così tanti anni i metodi di assemblaggio videro un miglioramento, ma la tecnica costruttiva rimase pressoché invariata: un telaio costruito attraverso la stratificazione di sei, sette listelli di legno (principalmente frassino) di diversa qualità ed elasticità, compressi e incollati insieme che rendevano unica ogni racchetta. Le corde erano in budello naturale, il rivestimento dell’impugnatura in cuoio che dopo un paio di settimane di gioco si scuriva a contatto con il sudore nella zona della stretta della mano.

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    Una racchetta sulle altre invase il mercato divenendo popolare sia tra i professionisti (Laver, Nastase, Panatta, Stolle, Hoad) sia tra gli amatori. La Dunlop Maxply Fort, con quelle sottili fasce rosse (o bianche) sulla parte finale dell’impugnatura divenne un’icona che John McEnroe portò sui campi anche nei primi anni Ottanta. Ma era la versione in cui, insieme al legno, venivano inserite delle lamine di grafite. I materiali stavano per cambiare, il tennis stava per cambiare carattere.
    Dalle matite al tennis: la rivoluzione è con la grafite
    Uno dei primi a uscire dalla falegnameria fu René Lacoste, grande tennista francese, fondatore del brand di moda ispirato a questo sport. Il Coccodrillo, così lo chiamavano con inconsapevole lungimiranza i compagni di squadra, nel 1965 realizzò un telaio in alluminio, leggero e con una buona capacità di distribuzione delle masse. Ma il vero colpo di genio arrivò una decina d’anni dopo grazie a Howard Head, che già stava innovando lo sci con la sua Head Ski Company. L’imprenditore iniziò a costruire racchette con strati di resine sintetiche e nel 79 acquisì il brevetto della Black Ace, la prima racchetta con il cento per cento di grafite, lanciata dalla taiwanese Kunnan Lo. Una rivoluzione per leggerezza, precisione, versatilità, che permetteva di colpire una pallina a 150 orari.

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    Da quel momento in poi nacquero veri e propri dipartimenti di ricerca e sviluppo, si iniziò a sperimentare vari materiali come la fibra di vetro, l’astroceramica, il kevlar, il carbonio, il boron, aramide. Fino a quelli di ultima generazione come noryl, vectran, quartzel, dyneema etc... Mentre l’esperienza in altre industrie ha contribuito nel tempo a innovare il tennis, come accade per esempio con la Pro Kennex e la collaborazione con l’ingegnere aerospaziale Howard Sommer: l’inserimento sul telaio di capsule con microsfere che si caricano di energia cinetica permettono di eliminare le vibrazioni nel manico. Tecnologie quindi che non apportano solo maggiori prestazioni ma anche più comfort di gioco, minor affaticamento del braccio e ridotta possibilità incappare in infortuni.
    Quando la tecnologia cambia lo sport

    Racchette più evolute hanno rimodellato stile, caratteristiche e preparazione fisica del tennista. Nell'era del legno la componente tattica, la strategia geometrica, il bel gioco che caratterizzava e categorizzava la firma di un campione erano aspetti più marcati. Perché lo strumento permetteva velocità inferiori e una dinamica di scambio più varia, portando facilmente a dividere i giocatori tra attaccanti del serve & volley e quelli più propensi a una difesa con margini di errore limitati che puntavano tutto su un pallonetto o un passante. E i colpi, in generale, erano piatti o contemplavano una rotazione all'indietro visto che le racchette non facilitavano risposte in top spin.


    Dagli anni Ottanta fino a oggi e, probabilmente ancora di più in futuro, si gioca un altro tennis e la responsabile è proprio la racchetta. I nuovi materiali compositi hanno fatto sì che il punto ottimale d’impatto della pallina (sweet spot) si sia ampliato dal centro a tutto il piatto corde. Cioè, è possibile colpire con una velocità molto elevata da qualsiasi zona della racchetta. Che cosa significa? Che nel tennis contemporaneo le differenze tecniche tra giocatori sono molto sottili. Che ormai sono pochi quelli che portano avanti l’approccio servizio e volée. Che spesso tutto si gioca sulla battuta, un tiro micidiale da 250 orari che riduce la possibilità di risposte tali da strutturare un game come accadeva 40 anni fa.
    È la racchetta che fa il tennista?
    C’è quindi la racchetta sul banco degli imputati, che non necessariamente sta rendendo il tennis meno avvincente, anche se c’è chi invoca una modifica del regolamento da parte della Federazione. Le racchette di oggi consentono colpi potenti da qualsiasi posizione, risposte altrettanto forti a un servizio micidiale, guizzi a sorpresa che prima erano inimmaginabili. Di sicuro però portano in campo giocatori con caratteristiche che sono più allineate tra di loro: grande fisicità, resistenza nel reggere lunghi scambi, abilità nel giocare su qualsiasi superficie. Più regolaristi da fondo campo che fantasisti di vecchia data.


    Un’evoluzione, quindi, anche nell’uomo. Prendiamo per esempio Pete Sampras, paragonadolo al sistema operativo di un computer è un upgrade di McEnroe, da cui riprende le capacità di andare a rete ma con un servizio più potente, un tennista fortissimo sui campi veloci come cemento o erba.

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    Roger Federer? Migliora il gioco di Sampras e acquisisce lo scambio prepotente dal fondo. E andiamo avanti con Rafael Nadal, con cui ci allontaniamo quasi del tutto dal serve & volley arretrando sulla linea di bordo campo insieme alla sua fisicità e alla tenuta nel botta e risposta di grande potenza.
    Ma siamo proprio certi che sia la racchetta a disegnare il tennista? Di sicuro, gli atleti si adeguano a uno sport che cambia, lo interpretano anche con lo strumento che stringono tra le mani. Eppure, questo sport non sarà mai condizionato del tutto dall'evoluzione tecnologica. E forse, dovremmo tenere a mente quello che diceva John McEnroe: "Ogni match meriterebbe di essere pensato allo stesso modo di un pittore davanti a una tela ancora candida. Quantomeno, questo è il tennis che piacerebbe a me".
    Top 10: le racchette che hanno fatto la storia
    Una classifica delle racchette più importanti della storia del tennis? Qualcuno storcerà il naso, perché ognuno ha la sua, con cui ha giocato, vinto quando non riusciva a chiudere un game. Ma queste entrano di diritto nell’albo d’oro per innovazione, vittorie e popolarità.

    È la mamma delle racchette, almeno di quelle in legno. Di sicuro una delle più longeve: introdotta sul mercato nel 1931 divenne una scelta quasi obbligata per generazioni di professionisti (Rod Laver con le sue personalizzazioni) e di appassionati.

    La T2000, nel 1967, segna il primo grande successo commerciale per una racchetta non in legno. Billie Jean King e Clarck Gaebner vinsero con questa Wilson gli Us National dello stesso anno. Ma è con Jimmy Connors e le sue vittorie a Wimbledon nel 74 e nell’82 che questo modello entra nel mito. Unito al fatto che, terminata la produzione, Connors (disperato) cercò qualcuno che riuscisse a produrre ancora la T2000.
    Head Prince Pro
    Peso inferiore e piatto più grande rispetto alle racchette in legno che stavano uscendo di scena. Nel 78, con la Prince Pro la diciottenne Pam Shriver sconfisse la Navratilova agli Us Open e dette battaglia a Chris Evert. Racchetta apprezzatissima dagli amatori perché riuscivano ad imprimere maggiore potenza nei colpi.

    Segna per Dunlop la fase di passaggio dall’alluminio alla grafite nel 1980, una delle prime con questo materiale. Furono Steffi Graf e John McEnroe a mostrare le potenzialità nelle competizioni internazionali, convincendo l’azienda a spingersi nella produzione in fibra di carbonio e in nylon alla ricerca di ancor più leggerezza.
    Prince Graphite 100
    Dentro questo telaio c’è la tendenza, quanto a materiali e dimensioni degli anni Novanta che bigger is better, seguendo la scelta fatta da Dunlop con la Slazenger’s Max Predator, la prima big size del periodo. La Prince Graphite 100 nelle mani di Michael Chang consentiva una grande efficacia nel servizio, a rete e a fondocampo.

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    Yonex R-22
    Il brand giapponese aveva già un modello in catalogo negli anni Settanta, ma è con l’arrivo della grafite e questa versione allargata della sezione trasversale (isometrica, la prima nel suo genere) che vede il successo nel decennio successivo. Era tra le mani di Martina Navratilova nel 1984, quando trionfava al Roland Garros, a Wimbledon e agli Us Open.
    Wilson Pro Staff
    Telai da 85 e95 pollici e grafite intrecciata al Kevlar su tutta la testa della racchetta. Una combinazione che restituiva quello che tutti chiamavano feeling Pro Staff. A renderla ancora più famosa pensarono Pete Sampras, Stefan Edberg, Jim Courier, Jimmy Connors, Steffi Graf e Roger Federer.
    Head Radical
    Sviluppata per massimizzare lo stile di un campione come Andre Agassi. Il tennista americano ricompensò il brand vincendo sette dei suoi otto Slam con la Radical. Fece il suo ingresso sui campi nel 93, divenendo la racchetta più venduta tra il 1999 e il 2004.
    Babolat Pure Drive
    Il marchio che nel 1875 mise per primo le corde sulle racchette, tirò fuori la Pure Drive con cui Andy Roddick vinse gli Us Open nel 2003. Fu il rilancio di un marchio che proseguirà la sua presenza sul mercato con ulteriori innovazioni di ultima generazione.
    Babolat Play
    La prima connected racket è stata sviluppata e messa sul mercato da Babolat. Una racchetta con sensori inseriti nel manico che registrano potenza, rotazione dei colpi, top spin, punto d’impatto della pallina e altre statistiche restituendo una panoramica di gioco tramite app. Approvata dalla Federazione, la Play è utilizzata da molti campioni.

    FONTE:https://www.technogym.com/
  7. .
    Storia Il Natale si festeggia ovunque il 25 dicembre?


    La data che indica il 25 dicembre per festeggiare il Natale è convenzionale e non è la stessa per tutti i popoli e le religioni. Ecco perché
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    La Messa di Natale in una chiesa ortodossa in Ucraina non viene celebrata il 25 dicembre, ma il 7 gennaio.

    Il Natale cristiano festeggia la nascita di Gesù. La data del 25 dicembre è convenzionale, ed è documentata nei calendari delle festività religiose a partire dal III-IV secolo d. C.; il Natale fu stabilizzato in quella giornata dopo che diverse tradizioni avevano sostenuto, nei primi secoli del cristianesimo, anche date diverse. Oggi viene celebrato in quel giorno da tutti i cristiani, tranne che dagli ortodossi russi.

    IN RITARDO. La Chiesa ortodossa russa, infatti, continua ad adottare il calendario giuliano (dovuto cioè a Giulio Cesare) invece di quello gregoriano, diffuso nel 1582 grazie a papa Gregorio XIII. Il calendario gregoriano fu introdotto per rimettere in pari le date di inizio delle stagioni astronomiche con il calendario civile, che nel XVI secolo a causa del moto di precessione della Terra erano sfasate di circa 11 giorni. Oggi il ritardo è di circa 13 giorni. Risultato: il Patriarca di Mosca e di tutte le Russie celebra la messa di Natale il 7 gennaio, 13 giorni dopo il nostro Natale.



    Storia Come sono nate le tradizioni del Natale?



    Chi ha inventato Babbo Natale? E l'albero addobbato? Il presepe (con o senza bue ed asinello) a quando risale? Ecco come e quando sono comparse le usanze della festa più amata dell'anno.

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    Gesù nacque nell'anno zero?
    No, non nacque nel primo anno della nostra era, bensì dopo o (quasi certamente) prima. Attorno al 6-7 a.C., secondo la maggior parte degli studiosi. Dei quattro evangelisti canonici, due (Marco e Giovanni) non dicono nulla sul tema; un terzo dedica al Natale un versetto telegrafico: “Gesù nacque a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode” (Matteo, 2: 1). Solo il Vangelo di Luca indugia su qualche dettaglio.
    Tanto silenzio non deve stupire: i primi cristiani consideravano sconveniente parlare di certi aspetti della vita del Messia, ritenuti troppo “terreni”.

    Foto: © IPA

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    Ma almeno è nato il 25 dicembre?
    La data del 25 dicembre in cui il Natale cristiano festeggia la nascita di Gesù è convenzionale ed è documentata nei calendari delle festività religiose a partire dal III-IV secolo d. C.
    Chi scava alle radici della festa cristiana non trova evangelisti, infatti, ma un paganissimo imperatore romano, e un papa. L’imperatore era Aureliano che, volendo unificare culturalmente il mondo romano, nel 274 istituì per decreto un dio uguale per tutti i sudditi (il Sol invictus), fissandone la festa (Dies natalis) poco dopo il solstizio d’inverno, quando le giornate ricominciano ad allungarsi. Così i cristiani trovarono il Natale del Dio Unico già bell’e pronto. E presto sostituirono il Sole con Gesù. Poi arrivò il papa, che si chiamava Giulio I: probabilmente fu lui a fissare ufficialmente la festa a fine dicembre. Ciò accadde entro il 352, quando il cristianesimo era legale da 40 anni scarsi.

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    Chi ha inventato il panettone?
    Ci sono diverse leggende sulla nascita del dolce italiano natalizio per eccellenza (vedi video), ma una delle più famose racconta che il panettone fu inventato a Milano dal cuoco di Ludovico il Moro.
    Il primo a scrivere di una focaccia dolce che ricorda l’impasto del panettone fu Cristoforo di Messisbugo, un cuoco di Ferrara che nel 1549 in un suo ricettario parlava di un dolce fatto dalle parti di Milano, a base di farina, burro, zucchero uova e latte. Non c’erano ancora uvette e canditi, ma l’impasto era lo stesso.

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    Chi ha fatto il primo albero di Natale?
    Secondo la leggenda fu San Bonifacio (ca. 673-754) che, per convertire i popoli germanici, abbatté una quercia sacra ai pagani e, per riparare all’offesa, regalò un piccolo abete che addobbò appoggiando sui rami delle candele accese che simboleggiavano la discesa dello Spirito Santo sulla terra con la venuta del “bambino Gesù”. Una curiosità: ogni anno in Nord America vengono tagliati circa 40 milioni di alberi di Natale .

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    Perché si mettono i doni sotto l'albero di Natale?
    Questa usanza arriva dal Nord Europa. A portarli però non è soltanto Babbo Natale, ma anche san Nicola di Bari, santa Lucia e san Martino (l’11 novembre).

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    Chi ha inventato Babbo Natale e Santa Claus?

    Santa Claus (nella "versione italiana" Babbo Natale) esce dalla penna di Clement Clarke Moore nel 1823 che scrive la poesiola “Era la notte prima di Natale” per divertire i propri figli la notte del 24 dicembre. Santa Claus somiglia a un nissen, folletto della mitologia vichinga, e viaggia su una slitta tirata da renne.

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    Chi è la mamma di babbo Natale?

    Si potrebbe dire che sia l'illustratrice svedese Jenny Nyström (1854 - 1946) che nel 1875 illustra una serie di cartoline augurali con le prime immagini di un Babbo Natale come lo conosciamo oggi: i suoi vestiti però sono di colore verde.

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    Ma allora chi ha vestito di biancorosso Babbo Natale?

    È colpa dell’illustratore americano Haddon Sundblom che nel 1930 codificò l’abito biancorosso di Babbo Natale. Lo fece per la Coca-Cola, che usò Babbo Natale come testimonial fisso della sua bibita.

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    Dove compare la prima stella cometa?

    Il primo artista che dipinse la stella cometa fu Giotto nella Cappella degli Scrovegni. Da allora, la stella cometa che guida i re Magi verso Gesù diventa quasi un dogma anche se i testi antichi che raccontano la storia dei Magi parlano solo di un “astro anomalo”.

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    A quando risale la tradizione del bue e dell'asinello?
    Il bue e l'asinello inserito nella scena della natività risale ai vangeli apocrifi. Il primo a parlarne fu un testo, forse risalente forse al IV secolo, a cui un falsario aggiunse la firma di san Matteo.

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    Dove fu allestito il primo presepe vivente italiano?

    A Greccio, in provincia di Rieti, e fu voluto da san Francesco. Ma soprattutto in Provenza, già nei decenni precedenti, si rappresentava la Natività di Gesù.

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    Chi ha inventato la ricetta del mandorlato?

    Il dolce tipico delle feste natalizie e prodotto con miele, zucchero, albume d'uovo e mandorle nella zona di Cologna Veneta (Verona), fu realizzato dallo speziale Antonio Finco nel suo laboratorio di Cologna Veneta. Dove ancora oggi, ogni anno, con la festa dell'Immacolata Concezione, si festeggia la produzione pluricentenaria del dolce. Si dice anche che forse il mandorlato si produceva già ai tempi della signoria degli Scaligeri nel XIII-XIV secolo.

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    Chi ha composto astro del ciel? La canzone tradizionale di Natale più famosa, Stille nacht, tradotta in 65 lingue (in italiano Astro del ciel) arriva dall’Austria. A inventarsela, nel 1818, fu Joseph Mohr, curato del paesino di Oberndorf, che la notte della vigilia si accorse con sgomento che l’organo della chiesa era fuori uso. Per non deludere i parrocchiani buttò giù qualche verso sulla calma (stille) che regna sovrana mentre scende la Santa Notte (nacht). L’organista ci compose sopra la melodia per il coro: quella canzone piacque a tal punto che da allora Stille nacht è entrata nel repertorio.

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    Qual è la canzone di Natale moderna più famosa al mondo? Si tratta di White Christmas, scritta da Irving Berlin nel 1940 e cantata da Bing Crosby per la prima volta il giorno di Natale del 1941 durante uno programma radiofonico della NBC. Bing Crosby la registrò nel 1942 e la canzone fu premiata con l'Oscar alla migliore canzone nel 1943. Da allora, moltissimi artisti hanno inciso questa canzone, ma il disco di Crosby è stato il più venduto della storia per 50 anni, con circa 50 milioni di copie. Fu scalzato dalla classifica delle vendite solo nel 1997 da Candle in the wind, il brano cantato da Elton John al funerale della principessa Diana.

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  8. .
    Mistero La sacra famiglia, la storia della famiglia di Gesù

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    “Natività Allendale” di Giorgione (1505). Contiene gli elementi classici della Natività (la grotta, Giuseppe e Maria, i pastori adoranti) in un tipico paesaggio veneto: così la scena risultava familiare agli spettatori dell’epoca.

    Betlemme. Nella Basilica della Natività c’è una stella d’argento su cui è incisa la scritta: “Qui dalla Vergine Maria è nato Cristo Gesù”. Per entrare in quel luogo bisogna inchinarsi: l’unico portone d’accesso è alto 1 metro e 20. L’ingresso così basso impediva che si entrasse in chiesa a cavallo. Ma è davvero qui che il Salvatore è apparso sulla Terra? Chi erano i suoi genitori, dove sono vissuti? Si può ricostruire la loro storia?

    Innanzitutto bisogna partire dai vangeli. “In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra (...). Anche Giuseppe, dalla Galilea, dalla città di Nazaret, salì in Giudea alla città di Davide chiamata Betlemme: egli apparteneva infatti alla casa e alla famiglia di Davide. Doveva farsi censire insieme a Maria, sua sposa, che era incinta. Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio”.

    L’evangelista Luca racconta tutto sulla nascita di Gesù: il nome dei genitori, il momento e il luogo. Matteo, l’unico altro evangelista che parla della Natività, si limita a dire che Gesù nacque a Betlemme al tempo del re Erode. Sommando le due storie, si ottiene il presepe perfetto. Ma già pieno di misteri. A cominciare da mamma e papà.

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    Il luogo della Natività nella Basilica di Betlemme.


    VERGINE E MADRE. Maria, la madre di Gesù, concepì il bambino senza perdere la verginità (e attenzione non è l'Immacolata Concezione). Lo racconta Luca e lo conferma Matteo, che narra l’apparizione dell’angelo a Giuseppe (“Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo”).

    Sulla verginità di Maria dopo il parto «insiste anche un vangelo apocrifo che ha avuto un influsso enorme, il Protovangelo di Giacomo scritto verso il 150 d. C.» nota Mauro Pesce, docente di Storia del cristianesimo all’Università di Bologna.


    Per giustificare il miracolo, Matteo cita il profeta biblico Isaia: “Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele (Dio con noi)”. L’obiettivo è chiaro: «Una parte dei primi cristiani» dice Pesce «era convinta che le Sacre scritture ebraiche avessero riferimenti precisi a Gesù. Così interpretavano gli antichi testi biblici in modo da adattarli alla contemporaneità».


    Alla base di tutto, però, c’è una probabile forzatura: nel passo di Isaia, la parola ebraica almàh significa sì “vergine”, ma nel senso di “giovane donna”, senza precisarne la condizione sessuale. Ma nel 2° secolo d. C., alcuni cristiani, influenzati da filosofie ellenistiche, guardavano con sospetto la materia e la sessualità: così, traducendo almàh, preferirono accentuare quella sfumatura. «E la verginità di Maria è servita a rafforzare una visione antisessuale», dice Pesce.

    A CASA DI MARIA. Nessun testo dice che Maria fosse di Gerusalemme. Anzi, l’angelo la va a trovare a Nazaret, paese di Giuseppe, quando ella è già sua promessa sposa. Così narra Luca, che prosegue con la storia della visitazione di Maria alla cugina Elisabetta, anch’ella protagonista di una gravidanza miracolosa perché era già anziana. Sebbene le due donne si incontrino fuori dalle mura cittadine , Elisabetta abitava di certo poco distante da Gerusalemme, poiché era la moglie del sommo sacerdote Zaccaria, che al tempio doveva per forza recarsi. Inoltre, per Luca questa coppia è essenziale ai fini del messaggio che vuole inviare: da Elisabetta e Zaccaria nascerà Giovanni il Battista, il profeta che riconoscerà Gesù come il Messia, ma anche suo cugino. Una parentela di santità assoluta, insomma.


    Il Protovangelo di Giacomo colloca la famigliola di Maria a Gerusalemme. Giuseppe, invece, abitava a Nazaret. Ma come s’incontrarono? L’autore del Protovangelo cercò di unire tutti i fili del racconto: Maria nasce a Gerusalemme e trascorre l’intera infanzia nel tempio dove “riceveva il cibo dalla mano di un angelo”. In seguito sarà data sposa a Giuseppe, che la condurrà a Nazaret. Qui la troverà l’angelo dell’Annunciazione e da qui partirà per cercare Elisabetta. E, a questo punto, il Protovangelo deve prendersi cura del papà di Gesù, che diventa una figura cardine.


    I vangeli di Matteo e di Luca pongono Davide, re e messia d’Israele, fra gli avi di Giuseppe. Ma, oltre a questa genealogia, sul padre putativo di Gesù gli evangelisti dicono ben poco: si sa che era un tékton, termine greco per molto tempo tradotto come “falegname”, ma in realtà significa “carpentiere”: non fabbricava armadi, ma lavorava nell’edilizia.

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    Ai tempi di Gesù, la Palestina era una provincia dell’Impero romano: la Giudea. Nella cartina i luoghi teatro della vita di Gesù: Nazaret, dove trascorse l’infanzia; i dintorni del Lago di Tiberiade, dove predicò; Gerusalemme, dove fu crocefisso e dove si concentrarono i suoi primi seguaci.

    NUMERO CHIUSO. Secondo il Protovangelo, invece, quando Maria compì 12 anni, il sacerdote Zaccaria ordinò che tutti i vedovi di stirpe reale giungessero a Gerusalemme, affinché uno di loro fosse scelto da Dio come sposo della giovane, che da tempo viveva nel tempio in odor di santità. Tra costoro c’era anche Giuseppe: la sua prima moglie (di cui si ignora il nome) era morta, lasciandolo padre di più figli: 4 maschi (Giuda, Giuseppe, Giacomo e Simone) e più femmine, almeno 2. Anche in questa storia l’intento è chiaro: giustificare i fratelli di Gesù presenti nei vangeli, senza contaminare il mito della Vergine.

    Che Gesù avesse dei fratelli, infatti, nessuno l’aveva negato: nel Vangelo di Marco (6,3-4) e di Matteo (13,55-56) sono citati per nome. «E dopo la morte di Gesù» spiega ancora Pesce «il fratello Giacomo ebbe un ruolo importante nel gruppo dei seguaci a Gerusalemme. Secondo gli Atti degli Apostoli, è addirittura a capo della comunità. Il problema, semmai, era capire se i figli fossero di Maria o di un’altra, come afferma il Protovangelo di Giacomo. Io credo che siano tutti fratelli di sangue. Nessun testo canonico, quando parla di loro, nega che siano figli di Maria e di Giuseppe». Eppure, nell’iconografia la sacra famiglia è sempre composta da mamma, papà e bambino. «Fratelli e sorelle sono stati eliminati dal quadro familiare» spiega Pesce «per privare di significato la figura storica di Gesù ed esaltarne la figura divina».

    Un analisi, questa, che però non convince tutti gli esperti, perché si scontra su un aspetto linguistico fondamentale: al tempo e in quei luoghi, il termine fratello aveva un significato molto più ampio di quello che abbiamo oggi. Un po' come quando i giovani di oggi

    TUTTI A BETLEMME. Ad ogni modo, ora occorreva il posto giusto per far venire al mondo Gesù. Il luogo ideale era Betlemme, dove era nato re Davide. Su questo insistono Matteo e Luca: nascere nella città di Davide, appartenendo alla sua stirpe, costituisce una conferma che fosse l’atteso Messia. Tanto che Flavia Giulia Elena, la madre dell’imperatore Costantino, nel 327 giunse in pellegrinaggio nei luoghi della passione di Gesù. E proprio a Betlemme si fece indicare da gente del posto dove fosse nato il Salvatore. Trovò così una grotta dietro a un altare romano dedicato ad Adone : un posto ideale per farci nascere Gesù. Qui fu costruita la Basilica della Natività.


    La penna di Matteo e Luca, insomma, vuole offrire a Gesù quegli aspetti divini che i fedeli si attendevano fin dall’Antico Testamento. E così, se in Matteo i genitori di Cristo sembrano spinti dal destino a Betlemme proprio quando Maria deve partorire, Luca fornisce una spiegazione più terrena: erano a Betlemme perché c’era un grande censimento, che obbligava tutti a tornare dove erano nati. Ma c’è un problema: il censimento di Augusto dell’8 a. C. riguardava solo i cittadini romani. Il censimento di cui parla Luca fu invece di Quirinio, governatore della Siria, del 6 d. C.: forse lo scrittore forzò le date pur di collocare la nascita a Betlemme. Altri storici invece pensano che il censimento citato sia quello del 6 a. C., sempre dello stesso Quirinio, quando era un semplice funzionario. Ma ciò che importa, alla fine, è salvare la simbologia: come ha un valore simbolico il suo giorno di nascita, collocato, nel 4° secolo, al 25 dicembre . Del resto, gli evangelisti qualificano Gesù come “nazareno”: probabilmente il vero luogo di nascita fu dove Gesù trascorse la giovinezza.

    POCA IMPORTANZA. «Nei testi più antichi non c’è grande interesse per il padre e la madre di Gesù, né sugli eventi della nascita» precisa Pesce. «L’interesse per la sacra famiglia nacque attorno agli anni 70-80, quando furono scritti i vangeli di Luca e Matteo, e poi coi vangeli apocrifi. Tutti assieme, ricostruendo gli avvenimenti come potevano, fondarono il loro presepe. Un presepe fatto di fede, più che di storia.

    L’UOMO GESÙ. «Nessuno dei vangeli è opera di apostoli o di testimoni oculari, bensì di anonimi seguaci: li redassero fra il 70 e il 150 d. C. usando testi sui detti di Gesù che circolavano fra i primi cristiani. Perciò non possiamo risalire fino a ciò che ha effettivamente detto e fatto Gesù. Possiamo ricostruire la forma che le sue parabole, i suoi detti o i racconti su di lui avevano prima che fossero rielaborati nei vangeli. Ma fra queste ricostruzioni e Gesù c’è una distanza non colmata da testimonianze storiche».


    Così resta ancora più fitto il mistero sulla giovinezza di Gesù: quali incontri formarono il suo carattere, oltre a Giovanni Battista? Come maturò la sua formazione culturale e religiosa il figlio di un umile carpentiere? Le domande resteranno senza risposta. Forse per sempre.


    Giorgio Giorgetti per Focus
  9. .
    Storia L'ombra della salmonella dietro al collasso azteco

    Il DNA del batterio trovato nei corpi delle antiche popolazioni messicane, decimate da misteriose epidemie. Svelata l'identità del patogeno letale esportato dall'Europa.

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    Nell'illustrazione, il condottiero spagnolo Hernán Cortés con l'imperatore azteco Montezuma, nel 1519. Contrasto/Lebrecht Music & Arts
    L'epidemia che nel XVI secolo decimò le popolazioni dell'odierno Messico, portando al collasso della società azteca, potrebbe essere stata causata da una forma di salmonella portata dai conquistadores. Il DNA del batterio è stato trovato nei resti di sepolture che risalgono a un periodo attorno al 1540: è la prima evidenza genetica dell'identità del patogeno che uccise l'80% di questa popolazione del Nuovo Mondo.

    ALLO STREMO. Nel 1519, quando Hernán Cortés approdò in Messico, la popolazione locale contava 25 milioni di persone; un secolo più tardi, era calata ad appena un milione. Nel mezzo ci furono conquiste, soprusi e una serie di epidemie chiamate dai locali cocoliztli ("pestilenza", in lingua azteca), le peggiori delle quali (nel 1545 e nel 1576) uccisero da 7 a 18 milioni di persone, nelle regioni montuose del Messico.

    UCCISI, MA DA COSA? Sul tipo di epidemie non c'è mai stato consenso: si è parlato di morbillo, vaiolo, tifo, febbre emorragica. Finché un gruppo di genetisti guidati da Johannes Krause (Max Planck Institute, Germania), non ha sequenziato il DNA di 29 sepolture nella regione di Oaxacan, nel sud del Messico. Tutte, tranne 5, erano morte per un'epidemia avvenuta tra il 1545 e il 1550.

    PISTOLA FUMANTE. Il DNA batterico rinvenuto nei corpi coincide con quello della Salmonella enterica, in particolare del ceppo Paratyphi C, che ancora oggi uccide il 10-15% delle persone infettate, nei Paesi in via di sviluppo. Si trasmette attraverso le feci ed è ragionevole che sia stato questo batterio, in una società il cui ordine sociale era al collasso, a causare una delle peggiori epidemie, paragonabile soltanto alla peste nera europea.

    VENUTO DA LONTANO.
    Verosimilmente, il patogeno fu importato dall'Europa: un secondo studio, dell'università di Warwick (UK), ha dimostrato l'esistenza del Paratyphi C in una donna norvegese vissuta intorno al 1200, cioè circa 300 anni prima del periodo di cui parliamo. Non è una prova diretta, ma dimostra che il batterio era già presente in Europa, prima di diffondersi nel Nuovo Mondo.

    FONTE:https://www.focus.it/cultura/storia/
  10. .
    Scienze Devi morire. Di vecchiaia o di cancro, ma devi morire

    Un mistero della vita (si può vivere per sempre?) risolto con la matematica da due biologi. Risposta: no.

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    Illustrazione per un'edizione di L'uomo che comprò la Terra, di Cordwainer Smith (1965): racconta le disavventure di un'immortale, reso tale da una droga estratta dalla lana di una pecora, e che alla fine (1968) diventerà, per disperazione, L'uomo che regalò la Terra...

    L'invecchiamento sembra un fatto inevitabile della vita, almeno della nostra, e tuttavia questa catastrofe globale delle nostre cellule (che gli scienziati chiamano senescenza) non ha impedito all'umanità intera di inseguire da sempre il sogno dell'immortalità. Ecco il perché dei miti della fontana dell'eterna giovinezza o dell'elisir di lunga vita, ma anche e soprattutto ecco il perché dei guadagni stratosferici delle aziende che vendono "creme rigeneranti" o di quelle che promettono di mantenere i morti o parti di essi a temperature bassissime, in attesa che la scienza trovi un rimedio alle cause del loro decesso.
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    Alice nel Paese delle Meraviglie, morte, senescenza, durata della vita, genetica, invecchiamento
    Un'interpretazione dell'immortalità dalle Avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie, di Lewis Carroll (1865):
    Alice: «Per quanto tempo è "per sempre"?»
    Bianconiglio: «A volte, solo un secondo.»
    Acque miracolose, cremine, superfreddo... finora tutto è stato vano. Come se non bastasse, adesso una impietosa dimostrazione matematica spiega perché tutto ciò è impossibile.

    L'EVOLUZIONE HA GIÀ DETTO NO. I biologi evoluzionisti hanno iniziato a spegnere le speranze di una vita eterna (su questa Terra, almeno) con due principi scientifici fondamentali: l'ombra della selezione e le differenze nell'azione dei geni in gioventù e in vecchiaia.

    La premessa di tutto il discorso è sorprendentemente semplice:

    lo scopo ultimo dell'evoluzione è selezionare individui che si riproducono meglio di altri: che lasciano cioè più discendenti.

    L'ombra della selezione identifica la fase in cui la selezione naturale non agisce più sulle mutazioni che insorgono in età avanzata, quando gli individui si sono riprodotti. Anche se le naturali mutazioni del Dna sono negative, infatti, non influiscono sulla prole dell'individuo, già nata: perciò non sono più "oggetto di interesse" della selezione naturale e non vengono bloccate.

    Gli immortali, morte, evoluzione, senescenza, durata della vita, genetica, invecchiamento
    Gli immortali (film del 2011): prima dell'Olimpo c'erano gli Dei e i Titani, poi toccò agli uomini rimediare ai guai.
    Le azioni differenti dei geni in diverse età della vita è un fenomeno definito pleiotropia antagonista: ciò che avviene è che se alcuni dei geni presenti hanno un'azione positiva in gioventù (e quindi aumentano il successo riproduttivo) la selezione naturale tende a mantenerli.

    Se poi questi stessi geni hanno un'azione negativa in vecchiaia... peggio per gli anziani, che si ritrovano con pezzi di DNA dall'azione contrastante.

    FONTE;https://www.focus.it/scienza/



    LA MATEMATICA DELLA MORTE. Queste erano le premesse, a cui si aggiunge una dimostrazione matematica elaborata da due studiosi del dipartimento di ecologia e biologia evolutiva dell'Università dell'Arizona. I ricercatori fanno notare che negli organismi multicellulari le cellule devono cooperare per mantenere in vita l'intero organismo: nel fare questo alcune cellule potrebbero anche essere eliminate perché non si riproducono più, non riescono a riparare eventuali danni e perciò non sono più funzionali.
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    Storia Egitto: scoperta la più antica mappa per l'Aldilà

    Un frammento del Libro delle due Strade trovato in un sarcofago dell'Antico Egitto di 4000 anni fa: è forse la più antica guida illustrata.


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    Un antico sarcofago dipinto di recente scoperto nella necropoli di al-Asasif, nella Valle dei Re (Egitto). In un sarcofago egizio di 4000 anni fa sono stati trovati i più antichi frammenti del Libro delle due Strade, una "guida illustrata" per l'Aldilà. REUTERS/Mohamed Abd El Ghany


    Nell'Antico Egitto neanche il decesso concedeva il meritato riposo - o almeno, non subito: prima di raggiungere Rostau, il regno glorioso di Osiride, signore della morte, il defunto doveva intraprendere una sorta di simbolica corsa ad ostacoli nell'Aldilà, un viaggio verso una nuova vita a tutti gli effetti, talmente pericoloso da meritare un'apposita guida scritta.

    Un frammento di questo testo - chiamato Libro delle due Strade, per via dei due percorsi (via terra o via acqua) che conducevano a Rostau - è stato ritrovato in un sarcofago di almeno 4000 anni fa. Secondo gli archeologi si tratterebbe della più antica copia nota di questo testo sacro, nonché, forse, del primo "libro illustrato" di cui si abbia conoscenza.

    Cultura
    I paradisi nelle diverse religioni

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    DI FACILE CONSULTAZIONE. La scoperta, di recente descritta sul Journal of Egyptian Archaeology, risale in realtà al 2012. Un team di archeologi delle Università di Liverpool (Regno Unito) e di Leuven, in Belgio, stava conducendo una serie di scavi nella necropoli di Dayr al-Barshā, un antico cimitero per le personalità di alto rango in uso nel Medio Regno (2055-1650 a.C.). In fondo a una tomba ignorata dalle precedenti generazioni di archeologi, perché chiaramente saccheggiata dai tombaroli, i ricercatori hanno trovato i resti di un sarcofago di legno decorato con una serie di geroglifici - una sorta di guida portatile al viaggio nell'Aldilà illustrata direttamente sulle assi interne della cassa, dove sarebbe stata facilmente accessibile al defunto.

    UN COLPO DI FORTUNA. Le istruzioni sono risultate - a sorpresa - i resti di una copia del Libro delle due Strade, una versione incompleta e non in forma "di libro", ma comunque la più antica finora descritta in una pubblicazione scientifica. La tomba risale all'epoca del faraone Mentuhotep II, che regnò fino al 2010 a.C.: la guida è dunque almeno 40 anni più vecchia di tutte le altre copie scoperte da un secolo a questa parte. Benché esistano altre rappresentazioni più arcaiche e più semplici dell'Aldilà egizio, il Libro delle due Strade lo descrive in un modo più complesso ed elaborato: alcuni studiosi lo considerano per questo motivo "il primo libro illustrato" della Storia.





    LIBRETTO DI ISTRUZIONI. La guida appena scoperta decorava il sarcofago di una donna di alto rango di nome Ankh, alla quale però ci si riferisce, nel testo, con pronomi maschili. Un particolare importante, per comprendere l'origine di questo testo: secondo la religione egizia, Osiride dominava l'Aldilà... da morto, e l'intero culto in suo onore ruotava attorno alla possibilità di riportarlo in vita attraverso i riti sacri. Le "istruzioni" contenute nel Libro delle due Strade potrebbero aver avuto origine dalle cerimonie religiose in cui i sacerdoti tentavano di far rivivere Osiride attraverso la preghiera. Solo successivamente, queste stesse formule sarebbero state usate per i comuni defunti, mantenendo però il pronome maschile usato per la divinità.

    Nell'impianto generale della guida rimaneva comunque spazio per la personalizzazione. Per esempio il viaggio di Ankh sarebbe stato funestato, stando ai simboli, da un anello di fuoco, da demoni e spiriti, contro i quali ci si poteva difendere solo a colpi di incantesimi. Il frammento di libro scoperto sembra contenere istruzioni specifiche per formulare questi sortilegi.



    Storia Egitto, la tomba intatta di un sacerdote di 4.400 anni fa
    La casa eterna di un alto dignitario dell'Antico Regno è venuta alla luce sotto alle sabbie di Saqqara: contiene statue e rilievi a colori, perfettamente conservati e rimasti nascosti per millenni.

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    Una macchina del tempo sepolta nel deserto, a cinque metri di profondità, che ha conservato intatti per millenni, come in uno scrigno, i suoi tesori: la tomba di un sacerdote di nome Wahtye, vissuto nell'antico Egitto ai tempi delle Piramidi di Giza, è stata scoperta a Saqqara, un sito archeologico a sud del Cairo che in antichità serviva da necropoli per Menfi, capitale dell'Antico Regno.

    La tomba risale a 4.400 anni fa e contiene decine di statue e rilievi a colori perfettamente conservati, iscrizioni dettagliate sul dignitario deceduto e sulla sua famiglia nonché scorci pittorici di vita quotidiana dell'epoca. Gli archeologi che l'hanno riportata alla luce con una serie di scavi iniziati a novembre e non ancora terminati hanno parlato di una scoperta "unica", come non se ne facevano almeno da un decennio.

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    Statue e basso rilievi hanno mantenuto praticamente intatto il colore originale. © Mohamed Abd El Ghany/Reuters
    CONSIGLIERE DEL RE. Il pigmento in particolare cattura l'attenzione perché ricopre ancora totalmente sculture e decorazioni, come doveva essere in origine. Wahtye serviva il faraone Neferirkare Kakai, terzo re della Quinta Dinastia, una famiglia che governò l'Antico Egitto per meno di due secoli, dal 2.500 al 2.350 a.C. Il nome del deceduto si legge sui geroglifici che decorano la porta di ingresso della tomba, che declamano anche i suoi titoli onorifici: sacerdote per la purificazione reale, supervisore reale, ispettore della barca sacra (un battello rituale che si pensava accompagnasse i faraoni nell'Aldilà).

    SPACCATO DELL'EPOCA.
    La galleria rettangolare a cui nessuno finora aveva avuto accesso, sfuggita ai tombaroli, misura 10 metri da nord a sud, quasi 3 da est a ovest e 3 in altezza. Rilievi a colori con Wahtye, sua moglie Weret Ptah e sua madre Merit Meen decorano le pareti, su cui si trovano anche scene di lavoro del periodo di attività dell'uomo, con persone intente a cacciare, navigare, compiere offerte religiose e produrre vasellame e altri oggetti funerari.

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    ALTRE SORPRESE. Grandi statue dipinte a colori del sacerdote e dei suoi familiari riempiono 18 nicchie sulle pareti della tomba, mentre altre 26 nicchie vicino al pavimento ospitano sculture di un'altra persona non ancora identificata in varie posizioni, in piedi o seduta a gambe incrociate come uno scriba. Nella tomba gli archeologi egiziani hanno individuato cinque camere sepolcrali, una delle quali è aperta e vuota: le altre sono ancora sigillate e potrebbero custodire il sarcofago del sacerdote insieme al suo corredo funebre. Gli scavi proseguiranno a gennaio.
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    Mistero Tutti i paradisi delle diverse religioni


    Cristiani, ebrei, musulmani, induisti: tutti descrivono, a modo loro, i luoghi dove i giusti si incontreranno dopo la morte. Eccoli.

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    Ebrei. Nei testi dei rabbini il paradiso viene descritto come un recinto di rose e mirti, in mezzo al quale si erge l’Albero della vita. Un paradiso di pura spiritualità, nel quale il massimo piacere è passeggiare in compagnia di Dio.

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    Cristiani. Il paradiso dei cristiani viene descritto nella Genesi e nell’Apocalisse di Giovanni dove si descrive la Gerusalemme celeste: circondata da mura solide, custodite da angeli, con al centro il trono di Dio e l’Albero della vita. Tuttavia, anche dopo la Bibbia, molti santi e teologi sono tornati sull’argomento. Si arriva con un corpo “in forma”, secondo Sant’Agostino. È un giardino fiorito presieduto da Maria, angeli a disposizione e scala che conduce alla Santissima Trinità, secondo Savonarola. Poi però la Chiesa ha preferito frenare l’immaginazione dei credenti e ricondurre la localizzazione del paradiso tra i misteri della fede: il paradiso è un luogo del cielo dove avviene la comunione con Dio. «Questa comunione beata con Dio e con tutti coloro che sono in Cristo supera ogni possibilità di comprensione e di descrizione», recita il Catechismo della Chiesa Cattolica.

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    Musulmani. Nel Corano i musulmani pii di entrambi i sessi entrano in un giardino di piaceri, il Gan Eden: il clima è buono, l’acqua abbonda, e così frutta, carne e miele. Ci sono vergini bellissime, le urì, per allietare le giornate ma anche tutti i propri cari. Nell'immagine, Maometto, guidato dall'arcangelo Gabriele, sale in Paradiso.

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    Buddisti. La Terra Pura è il luogo dove si ritrovano i devoti del Buddha Amida: è cosparsa di laghi e fiori di loto e gli eletti hanno abiti splendidi. Non ci sono donne umane, ma solo ninfe, le apsaras. In realtà però la concezione del buddhismo classico (600 avanti Cristo) è un po' diversa: il Buddha non parla del “dopo” perché quello che conta è la liberazione dal dolore dell’esistenza. La felicità, cioè il nirvana, è la fine delle continue rinascite, il nulla.

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    Induisti. Esistono diversi paradisi, tra i quali quelli di Visnu e di Shiva. Sono luoghi da dove, dopo un breve soggiorno, si torna sulla terra, in una nuova vita. Nel Vaikhunta, il paradiso di Visnu, ci sono solo corpi perfetti, in un ambiente sfavillante di mille colori, tra fiumi di vino e laghi di burro. Si mangia di buon appetito e si fa l’amore senza stancarsi.

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    Pellerossa. Per i nativi americani l’aldilà è il proseguimento della vita terrena, ma senza più affanni. Quindi il paradiso è fatto di praterie, bisonti da cacciare e tante fonti d’acqua. Ma la gioia massima è che in paradiso si possono incontrare gli antenati.


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    Taoisti. Secondo il taoismo cinese gli immortali vivono sulle montagne, non mangiano ma aspirano vento e bevono la rugiada. Per muoversi montano su nubi di vapore o su draghi volanti.

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    Vichinghi. Il paradiso vichingo si chiama Valhalla ed è un palazzo situato in cielo. Secondo la tradizione vi accede soltanto chi muore da eroe. Le anime vengono condotte dalle “valchirie” (donne a cavallo) in questa splendida residenza di Odino in attesa della battaglia finale contro il male. Per prepararsi ogni giorno combattono nelle pianure di Ásgarðr, organizzando giostre cavalleresche, e ogni sera le ferite si rimarginano, le membra si ricompongono e i guerrieri ritornano nel palazzo di Valhalla per banchettare.

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    Antichi Egizi. Con la barca solare si arriva al regno dei morti dove Osiride presiede 42 giudici che devono pesavare il cuore dei defunti. Se leggero, per mancanza di colpe, si è ammessi. Altrimenti si muore per sempre. Tuttavia l'aldilà è un ambiente oscuro, dal quale però si ritorna dopo un certo periodo. Per questo bisogna conservare il corpo intatto con la mummificazione. Nell'illustrazione, un sacerdote recita l’ultima preghiera prima che la tomba del faraone venga sigillata.

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    Antichi Greci e Romani. Dopo la morte tutte le anime buone (quelle amate dagli dei) vanno nei Campi Elisi. Anche gli antichi romani hanno ripreso questa tradizione. Come scriveva Omero, nei Campi Elisi gli uomini vivono tranquilli, non c’è neve, pioggia o freddo e spira una brezza di zefiro costante. Nella foto, una scena di Il gladiatore (2000) di Ridley Scott.

    FONTE:https://www.focus.it/
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    Curiosità In Messico per la festa più allegra dell'anno: i Giorni dei Morti

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    Paese che vai, tradizioni che trovi: come in Messico, tra il 28 ottobre e il 2 novembre i morti fan baldoria. Niente abiti a lutto, lumini e crisantemi: qui la commemorazione dei defunti si trasforma ogni anno in una coloratissima festa, dove sulla tomba del caro estinto si portano anche frutta, dolci e bottiglie di tequila, e sulle piazzole del cimitero si organizzano concerti in memoria di chi non c'è più.

    Piume rosa shocking e bikini striminzito, la Morte si è sfilata il mantello nero per gettarsi nelle danze. Sulle prime un costume così potrebbe far pensare a un modo un tantino "irriverente" di esorcizzare la paura dell’aldilà. Ma per i messicani il culto dei defunti ha radici più profonde.

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    Già presso le civiltà precolombiane, quasi 3 mila anni fa, l’idea della morte era strettamente legata al concetto di "rinascita". Gli Aztechi per esempio, consideravano il continuo alternarsi di morte e vita un fenomeno indispensabile per il mantenimento dell’ordine cosmico.

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    Secondo la tradizione popolare, ogni anno nel Día de los Muertos (tra il 28 ottobre e il 2 novembre per distinguerli per tipo di morte ed età), i defunti tornano dall’oltretomba per riabbracciare amici e parenti, gustare qualche manicaretto terreno e far bisboccia insieme ai vivi. Per accoglierli come si deve, i familiari decorano le tombe con fiori variopinti, e costruiscono davanti alle lapidi piccoli "altari" privati - chiamati ofrendas - con foto, liquori, sigarette e altri oggetti cari al defunto. Alcuni si accampano tra un sepolcro e l’altro per passare la notte vicino ai propri morti, altri al cimitero, organizzano addirittura un picnic! Ma non pensate all’atmosfera malinconica dei nostri camposanti: qui le tombe hanno altri colori, che vanno dal verde all’azzurro, al giallo acceso. Foto: © Alejandro Eguía Lis

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    Nel calendario azteco la festa dei morti cadeva nel nono mese dell’anno, e cioè per noi, più o meno all’inizio di agosto. Le celebrazioni duravano diverse settimane ed erano dedicate a Mictecacihuatl, dea di Mictlan, il regno ultraterreno dove le anime dei defunti finivano subito dopo il trapasso. Furono gli spagnoli nel XVI secolo, a riadattare il culto locale alle festività cattoliche dell’1 e 2 novembre.


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    Generose ofrendas sono allestite anche nelle case, nei locali e nelle piazze principali. Ce ne sono di ogni tipo, dalle più semplici e "caserecce" a vere e proprie sculture d’artista che raffigurano il defunto nelle sue attività terrene preferite: quella della foto probabilmente, è dedicata a un grande "intenditore" di tequila! Alcune famiglie lasciano cibo e bevande davanti alla porta di casa, insieme a un cuscino e a una coperta: al suo ritorno così, il morto potrà rifocillarsi e schiacciare un pisolino.

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    Scegliete un teschietto, c’è l’imbarazzo della scelta: i calaveras, piccoli crani di zucchero colorato, sono i dolcetti più regalati durante il Giorno dei Morti (ce ne sono anche di "personalizzati", con il nome del destinatario scritto sulla fronte). Foto: © Marco Siguenza


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    Vengono acquistati in grandi quantità e sistemati sugli altari delle offerte.Calaveras sono anche i finti epitaffi canzonatori composti in questi giorni per parenti, amici, e personaggi politici: questi ultimi vengono "bersagliati" di necrologi immaginari sulle pagine dei quotidiani nazionali.

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    Quest’ossuto "fattorino" è pronto per un recapito speciale. Nel suo sombrero infatti, c’è un'altra prelibatezza messicana: il pan de muertos, una pagnotta dolce impastata con l’uovo, ricoperta con due strisce di glassa allo zucchero. Queste morbide michette vengono appoggiate sugli altari o deposte sulle tombe dei defunti, nella convinzione che al loro ritorno dall’aldilà, le anime si fermino per uno spuntino. Foto: © Enrique Cárdenas Obregón

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    Anche i defunti come i vivi, hanno i loro fiori preferiti. In particolare si pensa impazziscano per i cempasúchil (Tagetes erecta), fiori arancioni che crescono in questa stagione. Sparsi sul percorso tra le tombe e le case, i petali di questi fiori - soprannominati Flor de muertos - indicheranno alle anime la via del ritorno, evitando che si perdano per strada. Nella foto, ghirlande di cempasúchil adornano le croci del cimitero di Romerillo, nella regione messicana del Chiapas. Foto: © joven_60

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    C’è anche chi trova quest’atmosfera fatta di teschi e ossa da morto particolarmente romantica. Sono le coppie di fidanzati, che nel Día de los Muertos si scambiano bare di zucchero con apertura a scatto, contenenti un piccolo scheletro che porta il nome dell’amato. Un modo come un altro per promettersi amore "eterno". Foto: © ojoqtv

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    In questo periodo anche i mariachi, i famosi "menestrelli" messicani, hanno il loro bel da fare. Di sera infatti, suonano per le migliaia di turisti arrivati nel paese per assistere alla festa. Mentre di giorno lavorano per i parenti dei defunti, che li assoldano per suonare davanti alle tombe le canzoni preferite dei cari scomparsi.

    Dal novembre 2003 il Día de los Muertos è Patrimonio dell’Umanità, in quanto, si legge nella motivazione dell’Unesco, "una delle espressioni culturali più antiche e di maggior rilevanza tra i gruppi indigeni del paese". Foto: © BellaKarma™

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    Riti, ricette, musica e tradizioni. Tutto ruota intorno a lei, La Catrina, ovvero la personificazione della morte nel folklore messicano. Reso famoso dalle incisioni dell’artista locale José Guadalupe Posada, in origine questo scheletro vestito di tutto punto era una caricatura delle signore dell’alta borghesia messicana di fine Ottocento (Catrina infatti, significa "donna elegante"). Ma è presto passata a simboleggiare la Morte, che non manca mai alle feste, socializza con le sue "vittime" e sorridente ed elegante, le invita a godersi la vita, finchè si è in tempo.

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    Catrina, la Signora dei Morti alla finestra.

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    I fiori arancioni usati per allestire gli altari delle offerte (Tagetes erecta) sono tipicamente messicani e soprannominati "Fiori dei Morti". Si pensa possano attrarre le anime dei defunti verso i doni che amici e parenti hanno predisposto per loro.

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    Le tradizioni che circondano questa festa non sono universali, ma variano di paese in paese. Qui siamo ad Oaxaca, dove le celebrazioni sono arricchite dalle Comparsas, rappresentazioni teatrali di piazza del ritorno dei defunti dall'aldilà.

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    Le celebrazioni fervono anche fuori dal Messico, dove la tradizione è sostenuta dagli emigrati - e dove ha preso corpo come festa folclorica. Qui, un membro della comunità ispanica di Los Angeles impegnato in una parata.

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    Spogliata di tutti i tabù che la circondano nella cultura europea, la morte viene celebrata anche dai più piccoli. Molte le celebrazioni del Día de los Muertos rivolte ai bambini (come questa, fotografata a San Miguel de Allende, in Messico centrale).

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    Un'altra Catrina. La figura della Morte, agghindata con abiti eleganti e cappelli a tesa larga di foggia europea era intesa in origine come una rappresentazione satirica dei nativi messicani che, secondo José Guadalupe Posada, l'artista e incisore dei primi del Novecento che ideò il personaggio, aspiravano ad adottare uno stile di vita capitalistico.

    FONTE:https://www.focus.it/
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    Storia di una Famiglia perbene: la nuova Serie TV con Giuseppe Zeno e Simona Cavallari dal 3 novembre su Canale 5

    Un'altra grande Serie TV targata Mediaset debutta sul piccolo schermo di Canale 5 dal prossimo 3 novembre: Storia di una Famiglia perbene, il racconto di un amore contrastato, sullo sfondo di una difficile Bari anni '80. Nel Cast Giuseppe Zeno e Simona Cavallari
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    Le Serie TV ancora protagoniste dei palinsesti di Canale 5, dopo Luce dei tuoi Occhi, l'offerta Mediaset si arricchisce di un nuovo titolo: Storia di una Famiglia perbene, adattamento dall’omonimo best seller di Rosa Ventrella, diretto da Stefano Reali e scritto da Mauro Casiraghi e Eleonora Fiorini. Un'altra grande storia italiana sullo sfondo di una problematica Bari anni '80, che vede al centro della trama Giuseppe Zeno e l'attrice Simona Cavallari, tra le protagoniste di un'altra attesa Serie Mediaset sul piccolo schermo il prossimo anno, Viola come il mare. Storia di una Famiglia perbene andrà in onda in Prima Serata su Canale 5 tutti i mercoledì per quattro appuntamenti a partire dal 3 novembre 2021. Le puntate, composte ciascuna da 2 episodi da 50 minuti, saranno disponibili anche in streaming sulla piattaforma Mediaset Infinity.

    Storia di una Famiglia perbene, la nuova Serie TV Mediaset al via mercoledì 3 novembre 2021 su Canale 5
    La Serie racconta la vita nel rione vecchio di Bari tra il 1985 e il 1992, attraverso gli occhi della piccola Maria (Silvia Rossi e Federica Torchetti), una tredicenne vivace e insolente conosciuta col nome di Malacarne. Figlia di un onesto pescatore Antonio De Santis (Giuseppe Zeno) e dell'amorevole, ma troppo remissiva Teresa (Simona Cavallari), Maria vede nella saggia nonna Antonietta (Elena Cantarone), l'unica ancora di salvezza in una situazione familiare complicata dalla violenza del padre sulla madre. Negli anni tra l’infanzia e l’adolescenza però, Maria ha un altro punto fermo: Michele Straziota (Andrea Arru e Carmine Bruschini), suo compagno di scuola, figlio della famiglia più disgraziata di Bari vecchia, quella del boss Nicola (Vanni Bramati). Anche Michele ha una situazione familiare infelice: la mamma Angelica (Sonia Aquino) e i fratelli Salvo e Carlo, vogliono spingerlo verso l’attività di famiglia. L’amicizia tra i due si salda e rinforza, nonostante l’ostilità dei reciproci genitori e i colpi bassi della vita. Finché quel sentimento, forte e insieme delicato, non diventa amore. Un amore che, anche se impossibile, li preserva dalla decadenza che li circonda.

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    Storia di una Famiglia perbene è una storia d’amore, quella tra Maria e Michele, due tredicenni che, pur appartenendo a due mondi opposti, pur essendo stati educati a dei modelli valoriali lontanissimi, si innamorano perdutamente, ma anche una storia di violenza e di odio, quello tra due famiglie con un conto in sospeso, pronte ad ostacolare ogni tipo di legame tra i due ragazzi. Nella Serie si raccontano gli anni caldi del decennio 80-90, segnati da fatti importanti come la morte di Falcone, la caduta del muro di Berlino e lo sbarco della Vlora, nave carica di albanesi, avvenuto proprio a Bari. Tutto sullo sfondo di una delle più belle città del sud Italia, una Bari che si rinnova, cresce e si evolve, cercando di liberarsi dalla morsa stretta della malavita, del malaffare, della criminalità, proprio come Maria e Michele che, uniti, lottano per affrancarsi da quel destino miserabile che le famiglie hanno scritto per loro.
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    Gf VIP 2021, incredibile prolungamento: ecco quando finisce (DATA FINALE)

    Giuseppe Candela su Dagospia ha sganciato la bomba sulla data finale del Gf VIP 2021, il reality pare subirà come lo scorso anno un incredibile prolungamento: scopriamo insieme quando finisce e per quanto altro tempi i concorrenti dovranno restare nella casa più spiata d’Italia.

    Grande Fratello VIP 2021: previsto il prolungamento
    La quinta edizione del Gf VIP durerà ben oltre le aspettative di concorrenti e telespettatori. Il conduttore Alfonso Signorini, non aveva mai negato questa possibilità. Secondo le prime dichiarazioni il Gf VIP avrebbe dovuto tirare avanti fino a dicembre.Ma pare sia previsto un importante prolungamento del programma!

    Gf VIP 2021: quando finisce?
    Secondo Giuseppe Candela su Dagospia, infatti, la nuova data della finale del Gf VIP sarà ben oltre il periodo di Natale: ma quando finisce con esattezza? Pare che come lo scorso anno il reality terrà compagnia ai telespettatori fino a fine febbraio:

    Le dinamiche non saranno esplosive ma Mediaset giudica gli ascolti del Grande Fratello Vip importanti, lunedì scorso ha superato il 20% di share, il venerdì precedente era risalito al 18%. Per questo motivo i vertici del Biscione hanno deciso di allungare l’edizione in corso fino alla fine di febbraio.

    Chi sono i nuovi concorrenti?
    Come lo scorso anno, quindi, c’è da aspettarsi l’ingresso di nuovi concorrenti che potrebbero varcare la porta rossa nel mese di dicembre. Ecco cosa riporta Giuseppe Candela:

    Una decisione che, proprio come avvenuto lo scorso anno, porterà nella casa nuovi concorrenti. Ingresso in massa previsto per dicembre, sorprese in arrivo…

    Come prenderanno la notizia i concorrenti? Non ci resta che attendere le prossime ore per scoprire se la nuova data verrà confermata da Alfonso Signorini durante la diretta e se i vipponi prenderanno bene la modifica della data finale. Restate aggiornati con DonnaPOP per scoprire in anteprima le news sui protagonisti del Grande Fratello VIP e non solo!
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