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il bimbo e la nascita...

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  1. Lussy60
     
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    Gravidanza e parto
    Tipi di parto



    E' podalico: si può partorire naturalmente?

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    Hai saputo che il bimbo nel pancione è podalico ma ti piacerebbe partorire naturalmente. Come comportarti?

    Secondo le linee guida nazionali, quando il feto è in una posizione anomala (in questo caso opposta a quella fisiologica) si richiede un intervento chirurgico con cesareo.
    Il problema principale del parto podalico è che l’ultima parte a uscire dal corpo materno, dopo gli arti inferiori e il tronco, è la testa del bambino: il cordone ombelicale, che connette il feto con la placenta, potrebbe rimanere compresso tra il bacino materno e la testolina, provocando una sofferenza fetale, ragione per cui di solito si consiglia di procedere al cesareo.
    Questo però non succede se il parto avviene in epoca precoce, ad esempio al 7° mese, e la donna si presenta in ospedale a dilatazione dell’utero avanzata o completa: in tal caso viene semplicemente assistita, perché la ridotta dimensione della testa del bambino riduce il rischio di compressione del cordone ombelicale.
    Comunque, se una donna desidera fortemente evitare il cesareo, può parlarne con l’ostetrica o il ginecologo e, dopo essersi informata su tutti i rischi, i benefici e le possibili complicazioni, può prendere una decisione che vada nel senso di un parto naturale, provando a far girare il bambino con una manovra manuale eseguita da un medico esperto.


    Il parto distocico

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    Parto distocico: così si definisce la nascita che non si svolge in maniera naturale e che, per essere portata a termine, richiede l’intervento dell’ostetrico, che utilizza forcipe e ventosa oppure effettua il cesareo. Le cause possono essere diverse: difficoltà dell’utero a contrarsi (distocia dinamica) o disturbi dovuti alla dilatazione del canale cervicale (distocia meccanica), una conformazione del bacino che rende difficile la fuoriuscita del bambino oppure anomalie nella presentazione o nella posizione del bimbo o un suo peso eccessivo.

    Il vocabolario del parto
    Disimpegno, amnioressi, episiotomia, indice di Bishop: sono solo alcune delle espressioni impiegate in medicina per descrivere lo svolgimento del parto , ma possono risultare un po’ difficili ai “non addetti ai lavori”. E talvolta, per imbarazzo, si evita di chiedere spiegazioni. Per risolvere tutti i tuoi dubbi, ecco un piccolo glossario, che spiega in modo chiaro e semplice alcune delle parole-chiave legate alla nascita.

    Amnioressi: è la rottura delle membrane, provocata artificialmente con l’aiuto di una piccola sonda, chiamata amniotomo. Viene di solito praticata durante il travaglio (sarebbe meglio non effettuarla prima che la dilatazione del collo dell’utero abbia raggiunto almeno 4-5 cm) per facilitare l’inizio della fase espulsiva.

    Canale del parto: comprende canale cervicale (ultima parte dell’utero) e vagina; è il “tragitto” che il piccolo percorre per nascere.

    Disimpegno: indica l’insieme dei movimenti che il bimbo compie nel corso del parto per permettere alla testa e alle spalle di uscire dall’ultimo tratto del canale del parto .

    Episiotomia: piccola incisione della vagina e della cute del perineo (fascia muscolare compresa tra la vagina e l’ano), che può essere praticata nelle ultime fasi del parto , per facilitare l’uscita del bimbo, evitando possibili lacerazioni spontanee dei tessuti. Viene praticata soprattutto se il bimbo è troppo grosso per poter uscire dalla vagina o se lo spazio disponibile è un po’ esiguo per il bambino. Viene eseguita in anestesia locale.

    Episiorrafia: si tratta dell’intervento di sutura che viene effettuato dall’ostetrico per ricucire il taglio provocato dall’episiotomia.

    Impegno fetale: movimento con cui il bimbo entra nel canale del parto per prepararsi all’espulsione dall’utero. La parte del feto che normalmente viene “impegnata” è la testa. Quando il feto si presenta di podice (piedi o sedere) oppure di spalla, si esegue il taglio cesareo.

    Indice (o punteggio pelvico) di Bishop: calcolo che permette di valutare se ci sono i presupposti per procedere alla stimolazione del parto . In particolare, si controllano le condizioni del collo dell’utero e i rapporti tra la testa del bambino e il canale del parto che dovrà attraversare.

    Macrosomia: è una condizione che si verifica spesso nei figli di donne diabetiche. Non si tratta di una malattia e nemmeno di un’anomalia genetica, ma del semplice fatto che il neonato è un po’ più grosso della media. In genere, si parla di macrosomia se il bambino pesa più di 4,5 chili al momento della nascita.



    Il parto in acqua

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    Sembrava una moda passeggera, invece si è rivelata sempre più una realtà consolidata. Come si svolge? Quando il collo dell’utero ha raggiunto una dilatazione di 3-5 centimetri, la futura mamma si accomoda in un’apposita vasca (ne esistono alcune con un portellone per agevolare l’ingresso e l’uscita) colma di acqua calda. E lì dà alla luce il proprio bimbo.

    Viene considerata una tecnica di parto dolce, perché permette al piccolo di ‘scivolare’ dal liquido amniotico in cui era immerso nel ventre materno direttamente nell’acqua calda della vasca. Al bebé viene evitato, in questo modo, il brusco passaggio dal pancione all’ambiente esterno. In più, l’immersione in acqua permette alla mamma di ridurre ansia, paura e dolore. La permanenza in questo elemento, infatti, determina il rilassamento della muscolatura e la maggiore distensione favorisce la produzione spontanea di endorfine, gli ormoni del piacere, che si contrappongono all’adrenalina prodotta in situazioni di ansia e paura. L’andamento del travaglio viene monitorato, con apparecchi che funzionano sott’acqua, fino al momento della nascita. Grazie al diving reflex (riflesso d’immersione), il neonato inizia a respirare soltanto quando entra in contatto con l’aria.

    È una tecnica consigliata a tutte le mamme, soprattutto a quelle al primo parto, perché riduce di circa un’ora e mezza i tempi della fase dilatante. È invece controindicato in caso di sospetta sofferenza fetale: in presenza di liquido amniotico tinto e quando il tracciato cardiotocografico (che registra il battito cardiaco del bimbo) rileva una patologia. Niente nascita in acqua anche per chi aspetta gemelli, se il piccolo è podalico (si presenta al canale del parto con i piedi o il sederino) e nei parti prematuri. Non possono ricorrervi, inoltre, le mamme che hanno avuto una gravidanza a rischio.


    Il parto in casa

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    È il parto naturale per eccellenza: si svolge senza che sia necessario alcun tipo di intervento medico e il tutto avviene tra le mura domestiche, con l’assistenza di due ostetriche, pronte ad assecondare i ritmi e i desideri della futura mamma.
    Se la futura mamma sceglie questa modalità, è necessario che contatti un’ostetrica esperta nel parto extraospedaliero entro il settimo mese di gravidanza, in modo che possa valutare se ci sono le condizioni adatte per la nascita in casa e che si instauri un clima di fiducia reciproca. Occorre, poi, predisporre tutto quello che potrà servire quindici giorni prima del parto, data a partire dalla quale le ostetriche dovranno essere reperibili 24 ore su 24. Se si presentano difficoltà, si decide il trasferimento in ospedale, che non deve distare più di mezz’ora e con cui l’ostetrica è costantemente in contatto.

    Non tutte le future mamme, però, possono scegliere di mettere al mondo il loro bimbo a casa propria. Esistono condizioni indispensabili legate all’andamento della gestazione e alla salute di mamma e bebé, che indicano i parametri necessari perché questo tipo di nascita avvenga in tutta sicurezza.

    1) Innanzitutto la mamma deve vivere una gravidanza fisiologica.

    2) Il bambino deve presentarsi in posizione cefalica e avere un peso previsto tra 2,700 kg e 4 kg.

    3) Inoltre, sono escluse le gravidanze gemellari.

    4) La futura mamma, inoltre, non deve soffrire di patologie quali ipertensione, anemie gravi e problemi di coagulazione, diabete, gestosi.

    5) Se ha già altri figli, il parto precedente non deve essere avvenuto con un cesareo.

    6) Il travaglio deve iniziare tra la 37ª e la 42ª settimana di gravidanza. Sono escluse, quindi, tutte le nascite premature e i casi in cui venga superata di quindici giorni la data presunta del parto.

    7) L’ospedale di riferimento, necessariamente un centro di 2° livello, deve essere raggiungibile in un tempo non superiore a 30, massimo 40 minuti.

    8) Infine, per l’assistenza è necessaria la presenza di due ostetriche.

    Dopo il parto, la mamma può contare su un’assistenza domiciliare anche nei primi giorni di vita del bebé. L’ostetrica è, infatti, la figura di riferimento che aiuta ad avviare l’allattamento, a prendersi cura del bimbo e a risolvere dubbi e paure comuni a tutte le neomamme alle prime armi. Il rapporto, in genere, non si interrompe neanche in seguito: le mamme che hanno partorito a casa possono affidarsi alle ostetriche anche in seguito e prendere parte a incontri a loro riservati, su temi relativi alla cura e alla crescita del bambino, come il sonno, lo svezzamento o il gioco.

    La tariffa del parto a domicilio varia a seconda delle zone e delle professioniste, ma in media si aggira intorno ai 2.000 euro. Alcune regioni, però, prevedono un rimborso della spesa, parziale o addirittura totale. Il consiglio, quindi, è informarsi prima del tempo per valutare la possibilità di ottenere esenzioni.

    Il parto attivo

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    Non esiste un parto ‘standard’. Oggi più che mai il ventaglio di possibilità è ampio e la futura mamma può scegliere di dare alla luce il proprio bambino in modo ‘attivo’ o con parto cesareo, a seguito di un’induzione, in acqua o addirittura a casa propria. Senza dimenticare che la nascita può essere operativa o medicalizzata. Conoscere le diverse possibilità è il modo migliore per poter operare una scelta con grande serenità.

    Parto attivo

    Fino a non molto tempo fa, partorire significava sottoporsi a pratiche di routine estremamente fastidiose e spesso inutili: dalla rasatura del pube (per evitare che i peli infettassero la ferita dell’episiotomia, che veniva eseguita a tutte) al clistere per svuotare l’intestino ed evitare che si svuotasse durante le spinte espulsive, alla rottura delle membrane per accelerare il travaglio. Risultato: travaglio spesso più doloroso del dovuto, parto scomodo e più che mai innaturale. Da diversi anni la tendenza è andata invertendosi e diverse strutture offrono alla donna la possibilità di un parto cosiddetto attivo. Si tratta senza dubbio della modalità più vicina a un parto naturale.

    Le sue caratteristiche sono state definite a Londra negli anni Ottanta da Janet Balaskas, fondatrice dell’International Active Birth Movement. Oggi si tratta di una realtà abbastanza diffusa e sostenuta anche dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. In pratica, viene concessa totale libertà di movimento e di iniziativa alla futura mamma, che mantiene, in tutte le fasi del travaglio e del parto, un ruolo da protagonista. Proprio per questa sua peculiarità, il parto attivo non si può ricondurre a una tecnica precisa. Le ostetriche lasciano che sia la donna a ‘condurre le danze’, scegliendo i movimenti che le sembrano migliori in quel momento: può partorire in piedi, sdraiata su un fianco, accovacciata o appoggiata al compagno. Oppure utilizzare strumenti che le siano d’aiuto, come la spalliera, lo sgabello olandese, speciali lettini ribassati, materassini…

    Il parto attivo è accessibile all’85 per cento delle donne e vi si può ricorrere anche se si sono già rotte le acque (una volta si pensava che fosse una controindicazione). Devono rinunciarvi soltanto le future mamme che, per qualsiasi ragione, non possono avere un travaglio normale e che sono quindi candidate a un cesareo programmato. Gli effetti del parto attivo sono molto positivi: le mamme che hanno mantenuto il controllo dell’evento si sentono psicologicamente più forti. Uno stato d’animo davvero prezioso nei primi giorni in compagnia del piccolo. Anche le condizioni fisiche sono buone: con questa modalità, infatti, si riduce drasticamente l’impiego di manovre invasive (caratteristiche, invece, del parto operativo) e di episiotomie, cioè dell’incisione del perineo (il tessuto compreso tra la vagina e l’ano). Se la mamma può muoversi come preferisce, la testolina del bambino scende più facilmente.


    Il parto cesareo

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    Può essere d’elezione, cioè programmato per malattie materne o fetali, oppure d’urgenza, ossia praticato durante il travaglio per l’improvviso insorgere di complicazioni (una posizione anomala del bambino, per esempio).
    La tecnica è la medesima, che il cesareo sia d’urgenza o d’elezione. Un telo sterile viene teso, in modo che la donna possa ‘partecipare’ all’intervento, senza tuttavia vedere la parte inferiore del proprio corpo, alla quale ‘lavorano’ il medico, le infermiere e le ostetriche. Alla futura mamma viene somministrata l’anestesia, che il più delle volte è spinale: rispetto all’epidurale, l’ago va più in profondità e l’iniezione determina la completa perdita di sensibilità e motilità degli arti inferiori. Quindi il chirurgo estrae il bimbo direttamente dall’addome della mamma. Può effettuare un’incisione trasversale di una decina di centimetri appena sopra il pube in modo che la cicatrice resti al di sotto della ‘linea bikini’. Dopo di che, taglia il sottocute e la fascia muscolare, divarica i muscoli addominali e apre il peritoneo fino ad arrivare a incidere la parte bassa dell’utero creando una breccia uterina. Bastano pochi minuti e poi viene estratto il bambino. A quel punto la ferita viene suturata nei suoi diversi strati, per una durata complessiva dell’intervento da mezz’ora a un’ora: la cute è ricucita con una serie di graffette metalliche da togliere dopo una settimana. In alternativa esiste la tecnica Stark: dopo aver tagliato la cute ed eseguito un piccolo ‘occhiello’, il chirurgo abbandona il bisturi e si fa strada usando soltanto le dita per separare e scollare i vari piani senza più incidere. In questo modo si rispetta di più l’anatomia, ma poi l’utero viene inciso come nella tecnica tradizionale. È più breve (circa 15 minuti) perché la fase della sutura è molto rapida: a parte la ricucitura dell’utero e delle fasce muscolari, i vari piani sono soltanto riavvicinati e per la cute bastano pochi punti in seta.

    In seguito, la mamma deve restare a letto per un breve periodo con un catetere vescicale, prova dolore alla ferita e le vengono somministrati antibiotici e antidolorifici con la fleboclisi.

    La causa più frequente dell’intervento è un cesareo praticato nella gravidanza precedente (un quarto del totale). Ma questo tipo di parto è indicato soprattutto in presenza di patologie legate all’attesa, come l’ipertensione o nel caso in cui il bambino sia podalico. Ma vi si ricorre anche anche quando insorgono problemi durante il travaglio oppure si registra una sofferenza fetale. Altre volte, è richiesto dalla futura mamma in assenza di indicazioni cliniche: è importante, però, prendere una decisione dopo aver valutato attentamente tutte le possibilità, perché i rischi non mancano e sono 3-4 volte maggiori rispetto a un parto naturale.


    Il parto indotto

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    È un parto medicalizzato: si verifica in seguito a un travaglio stimolato artificialmente con sostanze chimiche o manovre ostetriche, che inducono il collo dell’utero ad accorciarsi e poi a contrarsi. Una volta iniziato, il travaglio tende a procedere più velocemente del normale e con contrazioni più forti. Per l’intera durata, viene quindi tenuto sotto stretto controllo medico.

    La prassi: il giorno stabilito la mamma viene ricoverata in ospedale e le viene applicato in vagina, ogni sei-otto ore, un gel formulato con prostaglandine, sostanze responsabili dell’avvio e del mantenimento del travaglio. Il farmaco è quindi in grado di modificare il collo dell’utero e di indurre l’inizio del travaglio, favorendo la comparsa delle contrazioni. Va premesso che, perché questo accada, possono essere necessarie più applicazioni di gel e sono molti i casi in cui il periodo di degenza prima del parto dura anche uno o due giorni.

    Se il gel non è sufficiente per indurre il travaglio, l’ostetrica di turno pratica l’amnioressi, ossia la rottura del sacco amniotico e comincia la somministrazione di ossitocina tramite flebo, al fine di stimolare e mantenere le contrazioni. Non è raro che alla fine di questo lungo e spesso doloroso percorso si riesca a evitare il parto operativo oppure il cesareo: si calcola che nella metà dei casi, l’utero non risponda alla stimolazione farmacologica.

    Nella maggior parte dei casi si pratica l’induzione del travaglio quando la futura mamma ha superato il termine dell’attesa, cioè 41 settimane e mezza (stabilite ecograficamente). Ma vi si ricorre di solito anche in tutte le situazioni che sconsigliano o impediscono il proseguimento della gravidanza, come gestosi (si manifesta con ipertensione, gonfiori e perdita di proteine nelle urine), diabete o parto gemellare. È invece controindicata se la nascita si rende necessaria prima della 36ª settimana (in questo caso, si pratica il cesareo).


    Il parto indolore con epidurale

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    In termini tecnici si chiama partoanalgesia e ha lo scopo di ridurre il dolore della fase dilatante del travaglio. Prevede il posizionamento di un sondino a livello della colonna vertebrale, all’altezza del tratto lombare, attraverso il quale l’anestesista somministra gradualmente una combinazione di anestetici locali. L’effetto è analgesico e non anestetico: viene perciò ridotto il dolore ma non la possibilità di movimento. Nel giro di 15-20 minuti, la futura mamma percepisce una netta diminuzione del dolore, pur mantenendo la capacità di muoversi. Se l’anestesia è stata ben dosata, il suo effetto si modula prima che inizi la fase espulsiva, in modo da permettere alla donna di assecondare le spinte.

    Il sondino viene posizionato una volta raggiunti i 3-4 centimetri di dilatazione del collo dell’utero. Dapprima la mamma viene visitata e il suo battuto e la sua pressione vengono monitorati. Quindi, l’anestesista la invita a rannicchiarsi sul fianco (oppure a mettersi seduta, piegata in avanti), per inserire il catetere tra gli spazi vertebrali lombari. Dopo l’inoculazione dell’analgesico, il travaglio prosegue ‘sotto controllo medico’: possono, infatti, essere necessarie, per favorire la dinamica del parto, nuove dosi o alcune ‘correzioni’ farmacologiche, come la somministrazione per via venosa di ossitocina, l’ormone che stimola le contrazioni dell’utero, rendendo più veloce il parto.

    Se si decide di ricorrere all’epidurale, alcune settimane prima della data presunta è necessario sottoporsi a una visita anestesiologica e a esami del sangue mirati. Le controindicazioni sono limitate ad alcune complicanze della gravidanza. L’iniezione non può essere praticata, per esempio, nei casi in cui il parto si deve effettuare in condizioni di emergenza; epidurale off limit anche in caso di assunzione di particolari farmaci (come gli anticoagulanti) e in presenza di patologie precedenti, come problemi di coagulazione oppure infezioni.

    L’analgesia epidurale può contribuire al benessere materno-fetale, perché diminuisce lo stress dell’evento. Ma può anche comportare alcune complicazioni: la più diffusa (ma la percentuale non supera il 3 per cento dei casi) è la cefalea. Complicanze più gravi (come paralisi o danni neurologici permanenti) sono molto rare.



     
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