Claudio Baglioni Forum - Un mondo in musica

parafrasi e poesie di-Giacomo Leopardi

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    Sogno in letteratura - Leopardi e Pascoli
    Tesina di Italiano sull'argomento Il sogno. Analisi e comparazione delle opere Il sogno di Giacomo Leopardi e Ultimo sogno di Giovanni Pascoli.


    Il sogno in letteratura - La sfera onirica in Leopardi e Pascoli

    In letteratura italiana il sogno é un tema che viene trattato più volte e sotto forma sia di poesia che di prosa. Tra le molteplici poesie dedicate a questo particolare tema ho scelto di analizzare due componimenti di due importanti autori del XIX secolo: Giacomo Leopardi e Giovanni Pascoli.

    “Il sogno”, Giacomo Leopardi

    Era il mattino, e tra le chiuse imposte
    Per lo balcone insinuava il sole
    Nella mia cieca stanza il primo albore;
    Quando in sul tempo che più leve il sonno
    E più soave le pupille adombra,
    Stettemi allato e riguardommi in viso
    Il simulacro di colei che amore
    Prima insegnommi, e poi lasciommi in pianto.
    Morta non mi parea, ma trista, e quale
    Degl'infelici è la sembianza. Al capo
    Appressommi la destra, e sospirando,
    Vivi, mi disse, e ricordanza alcuna
    Serbi di noi? Donde, risposi, e come
    Vieni, o cara beltà? Quanto, deh quanto
    Di te mi dolse e duol: né mi credea
    Che risaper tu lo dovessi; e questo
    Facea più sconsolato il dolor mio.
    Ma sei tu per lasciarmi un'altra volta?
    Io n'ho gran tema. Or dimmi, e che t'avvenne?
    Sei tu quella di prima? E che ti strugge
    Internamente? Obblivione ingombra
    I tuoi pensieri, e gli avviluppa il sonno;
    Disse colei. Son morta, e mi vedesti
    L'ultima volta, or son più lune. Immensa
    Doglia m'oppresse a queste voci il petto.
    Ella seguì: nel fior degli anni estinta,
    Quand'è il viver più dolce, e pria che il core
    Certo si renda com'è tutta indarno
    L'umana speme. A desiar colei
    Che d'ogni affanno il tragge, ha poco andare
    L'egro mortal; ma sconsolata arriva
    La morte ai giovanetti, e duro è il fato
    Di quella speme che sotterra è spenta.
    Vano è saper quel che natura asconde
    Agl'inesperti della vita, e molto
    All'immatura sapienza il cieco
    Dolor prevale. Oh sfortunata, oh cara,
    Taci, taci, diss'io, che tu mi schianti
    Con questi detti il cor. Dunque sei morta,
    O mia diletta, ed io son vivo, ed era
    Pur fisso in ciel che quei sudori estremi
    Cotesta cara e tenerella salma
    Provar dovesse, a me restasse intera
    Questa misera spoglia? Oh quante volte
    In ripensar che più non vivi, e mai
    Non avverrà ch'io ti ritrovi al mondo,
    Creder nol posso. Ahi ahi, che cosa è questa
    Che morte s'addimanda? Oggi per prova
    Intenderlo potessi, e il capo inerme
    Agli atroci del fato odii sottrarre.
    Giovane son, ma si consuma e perde
    La giovanezza mia come vecchiezza;
    La qual pavento, e pur m'è lunge assai.
    Ma poco da vecchiezza si discorda
    Il fior dell'età mia. Nascemmo al pianto,
    Disse, ambedue; felicità non rise
    Al viver nostro; e dilettossi il cielo
    De' nostri affanni. Or se di pianto il ciglio,
    Soggiunsi, e di pallor velato il viso
    Per la tua dipartita, e se d'angoscia
    Porto gravido il cor; dimmi: d'amore
    Favilla alcuna, o di pietà, giammai
    Verso il misero amante il cor t'assalse
    Mentre vivesti? Io disperando allora
    E sperando traea le notti e i giorni;
    Oggi nel vano dubitar si stanca
    La mente mia. Che se una volta sola
    Dolor ti strinse di mia negra vita,
    Non mel celar, ti prego, e mi soccorra
    La rimembranza or che il futuro è tolto
    Ai nostri giorni. E quella: ti conforta,
    O sventurato. Io di pietade avara
    Non ti fui mentre vissi, ed or non sono,
    Che fui misera anch'io. Non far querela
    Di questa infelicissima fanciulla.
    Per le sventure nostre, e per l'amore
    Che mi strugge, esclamai; per lo diletto
    Nome di giovanezza e la perduta
    Speme dei nostri dì, concedi, o cara,
    Che la tua destra io tocchi. Ed ella, in atto
    Soave e tristo, la porgeva. Or mentre
    Di baci la ricopro, e d'affannosa
    Dolcezza palpitando all'anelante
    Seno la stringo, di sudore il volto
    Ferveva e il petto, nelle fauci stava
    La voce, al guardo traballava il giorno.
    Quando colei teneramente affissi
    Gli occhi negli occhi miei, già scordi, o caro,
    Disse, che di beltà son fatta ignuda?
    E tu d'amore, o sfortunato, indarno
    Ti scaldi e fremi. Or finalmente addio.
    Nostre misere menti e nostre salme
    Son disgiunte in eterno. A me non vivi
    E mai più non vivrai: già ruppe il fato
    La fe che mi giurasti. Allor d'angoscia
    Gridar volendo, e spasimando, e pregne
    Di sconsolato pianto le pupille,
    Dal sonno mi disciolsi. Ella negli occhi
    Pur mi restava, e nell'incerto raggio
    Del Sol vederla io mi credeva ancora.


    La poesia fu composta probabilmente tra il 1820 e il 1821 a Recanati. La poesia fa parte dei numerosi idilli che il poeta scrisse in quel periodo: più precisamente “Il sogno” viene anche chiamato “Idillio IV”. Nella poesia Leopardi racconta di avere sognato una giovane donna: si tratta di Teresa Fattorini, una delle poche donne da lui amate, scomparsa molto giovane. Nel sogno, la giovane donna si avvicina al poeta e gli chiede se lui si ricorda ancora di lei; egli le risponde che si ricorda certamente ma vorrebbe scoprire che cos’é che la tormenta (E che ti strugge/ Internamente?). Ella risponde che lui l’aveva vista morire nel fiore della sua giovinezza (nel fior degli anni estinta,/ Quand'è il viver più dolce), il cielo infatti aveva destinato a lei una vita breve mentre lui era ancora in vita. Il destino aveva riservato ad entrambi una vita dedicata al pianto (Nascemmo al pianto,/ Disse, ambedue). Il poeta, ancora colmo di pianto per la morte di lei, domanda se in vita lei abbia mai provato qualche sentimento d’amore nei suoi confronti (Favilla alcuna, o di pietà, giammai/ Verso il misero amante il cor t'assalse/ Mentre vivesti?). La risposta é positiva, al punto che Leopardi chiede gentilmente alla giovane donna di avvicinare la mano destra al suo petto (concedi, o cara,/ Che la tua destra io tocchi) e lei corrisponde alla richiesta. Il poeta, allora, ansimante e pieno di sudore, accosta la mano destra della ragazza al suo cuore e la bacia. A quel punto, la giovane donna, guardandolo dritto negli occhi, gli dice che ormai lei é priva di bellezza fisica mentre lui freme ancora inutilmente di amore. Il destino ha spezzato l’amore e la fedeltà che lui le aveva giurato in vita (già ruppe il fato/ La fe che mi giurasti) e così la donna avverte il poeta che lui non vive e non vivrà più per lei (A me non vivi/ E mai più non vivrai). Leopardi, a quel punto, ansimando e piangendo, si risveglia dal sonno, anche se gli sembra ancora di vedere la fanciulla negli occhi e nella luce tenue della stanza.
    Si crede però che la poesia non sia interamente dedicata a Teresa Fattorini ma che nello scriverla, Leopardi abbia armonizzato due vivide esigenze. Da un lato esprime il suo profondo dolore per la morte della Fattorini (donna che il poeta ascoltava cantare e guardava dal suo balcone prima che lei morisse), dall’altro lato si crede che l’ispirazione a scrivere la poesia sia stata data dal desiderio di baciare un’altra giovane donna di Recanati, Teresa Brini. Con la poesia quindi, trasferendo tutto in un sogno, il giovane Leopardi immagina di poter soddisfare il desiderio di dare un bacio reale alla Brini.
    Il messaggio che ci dà la poesia (messaggio che viene rivelato a Leopardi nel sogno) é la terribile verità che egli non avrà più un amore nella sua vita. Attraverso le parole della giovane donna, la quale dice che non lo rivedrà più perché il fato ha interrotto il loro amore, Leopardi é disperato, piange e si sveglia dall’incubo che gli ha annunciato questa triste verità in piena mattina. Leopardi capisce che é destinato a restare da solo e l’unica cosa che gli rimane dopo il risveglio é quella di attendere e sperare.
    La poesia sembra sia stata influenzata dalle letture di Petrarca; egli aveva infatti descritto in forma onirica ed elegiaca il suo incontro con Laura morta. Infatti, questo canto di Leopardi sintetizza in forma poetica ed elegiaca il mondo interiore e sentimentale del poeta.
    Il poema é composto da versi endecasillabi sciolti ed il linguaggio é aulico e raffinato. Il tema emotivo dominante della poesia é la disperazione, la tristezza e l’angoscia che prova il poeta per la perdita di questa giovane donna. Il sogno in Leopardi é quindi un sogno che é portatore di verità, verità che possono fare male; é un sogno che si trasforma in incubo per il finale che presenta.


    “Ultimo sogno”, Giovanni Pascoli

    Da un immoto fragor di carrïaggi
    ferrei, moventi verso l'infinito
    tra schiocchi acuti e fremiti selvaggi...
    un silenzio improvviso. Ero guarito.

    Era spirato il nembo del mio male
    in un alito. Un muovere di ciglia;
    e vidi la mia madre al capezzale:

    io la guardava senza meraviglia.

    Libero!... inerte sì, forse, quand'io
    le mani al petto sciogliere volessi:
    ma non volevo. Udivasi un fruscio
    sottile, assiduo, quasi di cipressi;

    quasi d'un fiume che cercasse il mare
    inesistente, in un immenso piano:
    io ne seguiva il vano sussurrare,
    sempre lo stesso, sempre più lontano.

    “Ultimo sogno” é il componimento che chiude la raccolta Myricae, la cui terza edizione uscì nel 1897. Il titolo della poesia é molto emblematico e poco chiaro. Qual é l’ultimo sogno a cui Pascoli si riferisce? Leggendo la poesia ci troviamo su un confine tra vita e morte, dove a tutto il rumore dell’esistenza che sembrava infinito si sostituisce il silenzio. Tutto lo scompiglio ed il rumore, gli schiocchi e i fremiti, si esauriscono all’improvviso ed il motivo di tutto ciò é la guarigione. Dunque Pascoli stava sognando. Nella seconda quartina, il poeta apre lentamente gli occhi (un muovere di ciglia) e vede al suo capezzale la madre, da tempo morta. Egli la guarda senza meraviglia, forse convinto che quella guarigione in realtà fosse la morte e quel silenzio fosse tipico dell’aldilà. La terza strofa si apre con un’esclamazione: “Libero!”. Il poeta si sente libero da qualsiasi affanno e da qualsiasi dolore e comincia ad udire e quindi ad immaginare un paesaggio formato da cipressi e da un fiume che confluisce in un mare. Tutto ciò é un chiaro simbolo di morte, che però Pascoli vede come una liberazione da tutto il dolore che ha provato. Pascoli é convinto di essere morto, vedendo la madre e udendo il fruscio dei cipressi.
    La poesia é formata da quattro quartine, caratterizzate da una rima alternata ABAB.

    Il sogno in Pascoli non é quindi un sogno di dolore come per Leopardi, ma più una liberazione dal dolore fisico avuto in vita che se ne va una volta che pure la vita se n’é andata. Un sogno che é capace di viaggiare in un mondo che può essere quello dell’aldilà.

    Leopardi e Pascoli oltre la somiglianza del tema trattato, si accomunano tra loro per lo sviluppo di esso. Sia in Leopardi che in Pascoli l’atmosfera é angosciosa e predominata dal dolore: le parole di Leopardi (pallor, strugge, angoscia, gridar, pianto), esprimono le stesse emozioni di quelle di Pascoli, date da parole come carrïaggi, schiocchi, fremiti, male, fruscio sottile (…) di cipressi, sussurare, lontano.

     
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    Teoria del vago e del piacere

    Leopardi - La teoria del vago e la teoria del piacere

    Leopardi stava individuando un bagaglio lessicale di parole poetiche per natura perché troppo varie e indefinite. La poetica del vago e dell’indefinito nacque da una profonda ricerca del poeta recanatese, densamente documentata nelle pagine dello Zibaldone. Siccome la ragione impoetica è precisa, definita e chiara, allora saranno molto poetiche tutte quelle parole vaghe, oscure, indefinite e sfumate. Nello Zibaldone Leopardi annotò alcune parole poetiche come per esempio “lontano”, “antico”, “simile”… La poetica del vago e dell’indefinito è un tentativo di fuga dalla ragione, che con la sua rigorosità vuole spiegare tutto e uccidere la poesia.

    In questo aspetto Leopardi è profondamente romantico, senza aver avuto contatti diretti con le fonti del genere. Anche il ricordo è poetico per Leopardi. Ciò che si colloca in un ricordo lontano infatti sfugge alla ragione che tutto divora, tutto spiega e tutto definisce.
    Importante fu la cosiddetta teoria del piacere che apparve nel 1820 sulle pagine dello Zibaldone. Secondo questa teoria l’uomo non potrà mai essere felice perché è sua caratteristica sognare un piacere infinito. Siccome i piaceri a un certo punto finiscono, allora l’uomo è destinato a essere sempre deluso e inappagato. L’infinito descrive un’alternanza di sensazioni concrete. Questo è un aspetto che Leopardi riprendeva dalla corrente settecentesca del sensismo.
    Non molti anni prima. Leopardi si era tuffato nello studio dei classici, traducendo i poeti greci Mosco e Teocrito. Da questi due poeti antichi Leopardi assimilò la struttura dell’idillio e lo elaborò. Egli amava il tono lirico dell’idillio, che è una forma di poesia pura in cui si esalta la dimensione personale. A Leopardi non sfuggì la centralità dell’elemento naturale, che è imprescindibile nella poesia classica antica.



    Pastore errante dall'Asia

    • L’uomo e la natura
    Il pastore, simbolo dell’uomo vecchio, infermo destinato a cadere nel baratro, oppresso dagli enormi e pesanti carichi datigli dalla vita, pone alcune domande alla luna sul significato dell’esistenza, sulla ripetitività del vivere, sul perché della vita e, così facendo, sottolinea il rapporto di somiglianza e di antitesi tra uomo e luna e l’opposizione tra caducità umana e eternità lunare. Alla vita errabonda del pastore corrisponde il ciclico movimento degli astri; all’infelicità dell’ingenuo pastore, la silenziosa indifferenza della luna.

    • Il dolore della vita
    Leopardi, nei versi 39-60, sottolinea come nascere sia una vera e propria fatica e come ogni uomo sia destinato a cadere nell’orrido abisso dopo una vita caratterizzata da dolore, tale da far sorgere il dubbio se la vita stessa abbia un senso.

    • L'esistenza e la noia
    Il pastore, dopo aver posto alla luna, muta custode del segreto delle cose, domande che non ottengono alcuna risposta, si accorge del gregge, unico suo compagno di vita, che però, vive nell’inconsapevolezza del male di vivere: al riposo piacevole e ristoratore del gregge si contrappone quello del pastore caratterizzato da angoscia, da noia. Il pastore prova l’infelicità nativa dell’uomo, il più sublime dei sentimenti che lo distingue dagli altri esseri viventi, il tedio, un senso di insoddisfazione che non nasce dall’avvertimento di una mancanza, ma che è condizione congenita di infelicità.
    La strofa di chiusura del canto è scandita dai forse: prima il pastore pensa che potrebbe essere felice sotto altre spoglie (se potesse volare sino a raggiungere le altre stelle), poi si smentisce arrivando a riconoscere che il male è comune ad ogni essere vivente e che la vita è sventura al punto che funesto a chi nasce il dì natale.

     
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    La sera del dì di festa

    Testo

    Dolce e chiara è la notte e senza vento,
    E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
    Posa la luna, e di lontan rivela
    Serena ogni montagna. O donna mia,
    Già tace ogni sentiero, e pei balconi
    Rara traluce la notturna lampa:
    Tu dormi, che t’accolse agevol sonno
    Nelle tue chete stanze; e non ti morde
    Cura nessuna; e già non sai né pensi
    Quanta piaga m’apristi in mezzo al petto.
    Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno
    Appare in vista, a salutar m’affaccio,
    E l’antica natura onnipossente,
    Che mi fece all’affanno. A te la speme
    Nego, mi disse, anche la speme; e d’altro
    Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.
    Questo dì fu solenne: or da’ trastulli
    Prendi riposo; e forse ti rimembra
    In sogno a quanti oggi piacesti, e quanti
    Piacquero a te: non io, non già ch’io speri,
    Al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo
    Quanto a viver mi resti, e qui per terra
    Mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi
    In così verde etate! Ahi, per la via
    Odo non lunge il solitario canto
    Dell’artigian, che riede a tarda notte,
    Dopo i sollazzi, al suo povero ostello;
    E fieramente mi si stringe il core,
    A pensar come tutto al mondo passa,
    E quasi orma non lascia. Ecco è fuggito
    Il dì festivo, ed al festivo il giorno
    Volgar succede, e se ne porta il tempo
    Ogni umano accidente. Or dov’è il suono
    Di que’ popoli antichi? or dov’è il grido
    De’ nostri avi famosi, e il grande impero
    Di quella Roma, e l’armi, e il fragorio
    Che n’andò per la terra e l’oceano?
    Tutto è pace e silenzio, e tutto posa
    Il mondo, e più di lor non si ragiona.
    Nella mia prima età, quando s’aspetta
    Bramosamente il dì festivo, or poscia
    Ch’egli era spento, io doloroso, in veglia,
    Premea le piume; ed alla tarda notte
    Un canto che s’udia per li sentieri
    Lontanando morire a poco a poco,
    Già similmente mi stringeva il core.

    Parafrasi

    La notte è dolce e chiara senza vento, e la luna sta immobile sopra i tetti e in mezzo agli orti, e in lontananza si evidenzia ogni montagna. Oh donna mia, già ogni sentiero è silenzioso e attraverso le finestre traspare qua e là una luce notturna: tu dormi poiché un facile sonno ti ha accolto nelle silenziose stanze e non c'è nulla che ti preoccupi e certo non sei consapevole del dolore che mi hai causato.
    Tu dormi e io mi affaccio a osservare un cielo così benevolo all'apparenza e l'assoluta potenza della natura che mi ha fatto nascere e soffrire. A te la speranza nego, disse anche quella, e i tuoi occhi possano essere colmi solo di pianto. Questa giornata è stata di festa, ora ti riposi dai divertimenti e forse rivedi in sogno quelli ai quali oggi sei piaciuta e quelli che sono piaciuti a te. Certo, non ci sono io, non che io lo speri, e intanto so quanto mi resta da vivere e mi getto qui in terra e grido, mi agito. Oh giorni orribili, in un'età così giovane ahimè sento non lontano lungo la via del canto solitario dell'artigiano che torna a tarda a notte dopo i divertimenti al suo povero ostello, e crudelmente mi si stringe il cuore, pensando a come tutto al mondo passa, senza quasi lasciare segno. Ecco, il giorno festivo è passato, e adesso arriva quello feriale e il tempo trasporta con sé ogni vicenda umana. Dov'è l'eco delle imprese di quei popolo antichi? Dov'è la fama dei nostri famosi antenati? E il grande impero romano e il frastuono delle armi si diffuse ovunque. Ove tutto è pace e silenzio, e il mondo riposa e di loro non si parla più. Da fanciullo, quando si attende con grande desiderio il giorno di festa e quando poi è finito, e io soffrendo stavo sveglio cercando di dormire, a inoltrata notte un canto che si sentiva in lontananza per i sentieri mi stringeva il cuore già allo stesso modo di adesso.

    Analisi

    Il poeta compone l'opera utilizzando endecasillabi sciolti e traccia nel testo un'alternanza fra proposizioni brevi e lunghe; i toni presenti sono due: emotivo e riflessivo. Inizialmente predomina quest'ultimo, al quale si sostituisce il primo che mette in primo piano i sentimenti che il poeta prova per la donna. Il passaggio del giorno festivo a quello lavorativo viene messo in rilievo attraverso l'utilizzo di vari enjambements; per l'esempio nei vv. 25-26 il solitario canto dell'artigian e ai vv 31-32 Ecco, è fuggito il giorno di festa. Nella prima parte si ha una descrizione del paesaggio lunare, il quale appare in un momento di grande tranquillità, espressa anche attraverso i termini chiara e dolce. Oltre alla descrizione del paesaggio nei vv 4-10, s'introduce la figura della donna, la quale è oggetto di desiderio del poeta, il cui amore non viene ricambiato. In questa parte l'autore paragona se stesso alla donna, creando un'antitesi, dove egli la descrive come una figura serena ed essa viene colta nel brano durante un dolce riposo, mentre il poeta diversamente è afflitto dall'angoscia, destinato a piangere e soffrire, con la consapevolezza di non avere neanche una speranza sulla quale poter contare. Altra presenza nel testo è quella della teoria della visione nei vv 5-6 pei balconi rara traluce la notturna lampa, in quanto la presenza della luce determina un impedimento della stessa ad un'irradiazione completa e nel vv 6 la parola lampa rivela un linguaggio aulico che prevale su quello comune. I vv 11-16 esprimono il dolore che egli prova a causa della natura; infatti nei vv 14-17 A te.......pianto, la natura maledice il poeta, affermando l'inesistenza di un rimedio nei vv 14-15 col termine speme. Procedendo, nei vv 21-24, si descrive la sofferenza del poeta che raggiunge il limite, sottolineato soprattutto nei vv 22-23 e qui per terra mi getto e grido e fremo. Nei vv 24-33, si evidenzia il cambiamento di tema rispetto alla prima parte, in quanto si parla non più del rapporto poeta-donna, ma di quello tra poeta e tempo, dinnanzi al quale il poeta si mostra insofferente, in quanto, a seguito dell'amore del quale è stato privato, ne teme il suo procedere. Nei vv 33-39 il poeta tocca l'ambito storico domandandosi che fine ha fatto il popolo romano e ciò viene espresso nei vv 33-37 Or dov'è....l'oceano?. I vv 40-46 infine terminano l'opera descrivendo il tempo dell'infanzia, espresso del v. 40 Nella mia prima età.....!. Le ultime parole descrivono un ricordo del passato che rispecchia il presente del poeta, in quanto in entrambi i periodi il canto da l'idea dell'infinità del tempo e della natura. All'interno della poesia l'autore ricorre alla poetica del vago e dell'indefinito: infatti l'idillio comincia descrivendo un paesaggio notturno, il quale è illuminato dalla luce lunare, la quale è un'immagine espressiva del vago e dell'indefinito, in quanto dà all'uomo l'illusione di poter raggiungere l'infinito. Sin dalla prima parte del testo si ha un'idea della vastità dello spazio, e ciò lo possiamo intuire osservando i termini la notte, tetti e gli orti, attraverso i quali esprime un senso di lontananza, dalla quale scaturisce una suggestione vaga; per esempio nei vv. 45-46 compaiono le parole similmente, stringeva, e lontanando. Oltre ai temi del vago e dell'indefinito, Leopardi ne inserisce altri, presenti nel brano poetico Infinito e, anche in questo caso, possiamo cogliere subito queste tematiche attraverso elementi visivi, ad esempio nei vv 1-4 Il paesaggio iniziale, e elementi uditivi, ad esempio nel v. 25 il canto dell'artigiano. Questi elementi pertanto, così come accade nell'opera Infinito, arrivano ad elaborare un concetto finale, il quale è presente nei vv. 40-46 che sottolineano come tutte le infelicità del poeta abbiano poca importanza, poiché esse sono destinate a scomparire con l'andare del tempo.



    La quiete dopo la tempesta,

    Spiegazione della poesia

    Nella poesia intitolata: “la quiete dopo la tempesta “ scritta da
    giacomo leopardi , è una canzone libera costituita da 3 strofe di endecasillabi e settenari liberamente alternati e rimati. Parla del paese di Recanati dopo la tempesta ovvero quando il sole ritorna a illuminare le case di campagna e come e famiglie si affrettano ad aprire i balconi e le terrazze che avevano chiuso per la pioggia, e di tutti gli animali e le carrozze ferme che riprendono la loro strada e tutte le persone continuano a fare il proprio lavoro bloccato dalla tempesta. Facendo rallegrare, così il cuore di tutte le persone facendo tornare la gioia di vivere. Facendo cosi capire che prima la vita era più calma silenziosa e piena di sapori antichi che facevano sognare.

    La poesia, come già detto, è divisa in 3 strofe dove la 1 fa da introduzione ed è descrittiva raccontando del paesaggio dopo la tempesta, la 2 riflessiva, la quale è strutturata su 2 osservazioni la 1 il piacere dell’uomo dopo l’affanno della tempesta e la 2 dove la tempesta diventa metafora dei pericoli ben più vasti e straordinari che minacciano gli uomini. Questa strofa è costituita su una successione di interrogativi che il poeta pone verso la natura. La 3 strofa fa peso su due momenti ironici dove il 1 e la natura che per amore del genere umano sparge dolori la 2 dove la specie umana è cara agli dei e che solo la morte li può liberare dai dolori.
    Oggi, piuttosto, la vita è più frenetica piena di rumore e non si riesce a respirare aria buona poiché è tutto inquinato in città e in paese e il temporale è visto come un fattore molto naturale della natura, rispetto A prima dove il temporale era visto come fattore d’infelicità dato dalla natura.



    Parafrasi
    La tempesta è passata, sento gli uccelli far festa, e la gallina, tornata sulla strada che ripete il suo verso. Ecco che il sereno rompe le nuvole là da occidente, verso la montagna; la campagna si libera dalle nubi e lungo la valle appare chiaro e ben distinto il fiume. Ogni animo si rallegra, da ogni parte riprendono i soliti rumori e riprende il consueto lavoro. L’artigiano, con il lavoro in mano, si avvicina cantando verso l’uscio a guardare il cielo umido; esce fuori la giovane ragazza (la popolana) per vedere se sia possibile raccogliere l’acqua della pioggia da poco caduta; e l’ortolano ripete di sentiero in sentiero il consueto richiamo giornaliero.
    Ecco che ritorna nel cielo il sole, eccolo che sorride per i poggi e per i casolari. La servitù apre le finestre, apre le porte dei terrazzi e delle logge: e dalla strada principale si sente un tintinnio di sonagli; il carro del viandante che riprende il suo viaggio stride.
    Ogni animo si rallegra. Quando la vita è così dolce e così gradita come ora? Quando l’uomo si dedica con così tanto amore alle proprie occupazioni come in questo momento? O torna al lavoro? O intraprende una nuova attività? Quando si ricorda un po’ di meno dei suoi mali? Il piacere è figlio del dolore, è solo una gioia vana (un illusione), frutto del timore ormai passato, è frutto di quella paura che scosse chi odiava la vita ed ebbe terrore della morte; a causa della quale le persone fredde, silenziose, pallide sudarono ed ebbero il batticuore nel vedere fulmini, nuvole e vento diretti a colpirci.
    O natura benevola, sono questi i tuoi doni, sono questi i piaceri che tu porgi ai mortali. Fra noi il piacere è uscire dalla paura, cessare di soffrire. Tu spargi in abbondanza dolore; il dolore nasce spontaneamente: e quel nostro piacere che ogni tanto per prodigio e per miracolo nasce dal dolore, è un gran guadagno. O genere umano caro agli dei! ti puoi ritenere molto felice se ti è concesso di tirare il respiro da qualche dolore: ti puoi ritenere beato se la morte ti guarisce da ogni dolore.

     
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    L'Infinito


    Testo, parafrasi e breve spiegazione di commento dell'idillio "L'Infinito", composto di Giacomo Leopardi

    L'Infinito
    di G. Leopardi

    Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
    e questa siepe, che da tanta parte
    de l'ultimo orizzonte il guardo esclude.
    Ma sedendo e mirando, interminati
    spazi di là da quella, e sovrumani
    silenzi, e profondissima quiete
    io nel pensier mi fingo; ove per poco
    il cor non si spaura. E come il vento
    odo stormir tra queste piante io quello
    infinito silenzio a questa voce
    vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
    e le morte stagioni, e la presente
    e viva, e il suon di lei. Così tra questa
    immensità s'annega il pensier mio;
    e il naufragar m'è dolce in questo mare.

    Parafrasi
    Sempre caro mi fu questo solitario colle e questa siepe, che mi impedisce per la gran parte lo sguardo.
    Ma rimanendo seduto e osservando questi spazi senza fine al di là, sovrumani silenzi, in profondissima calma io nel mio pensiero mi fingo; dove per poco il cuore non si spaventa. E come il vento agita queste piante io quell'infinito silenzio a questa voce vado comparando: e arriva l'eterno,
    e le stagioni morte, e la presente e attuale, e il suo suono. Così tra queste immensità si perdono il mio pensiero; e il naufragare mi è dolce questo mare.

    Spiegazione
    “L’infinito” è un idillio scritto da Giacomo Leopardi.
    L’idillio è una rappresentazione poetica di un’avventura dell’animo che nasce da un’esperienza concreta.
    Leopardi scrive questo idillio sul monte Tabor a Recanati. Una siepe gli impedisce la vista del paesaggio, e così si immagina uno spazio immenso.
    Questo idillio è composto da quindici versi non in rima. “L’infinito” può essere suddiviso in due parti: la prima comunica un senso di inquietudine (interminati spazi, sovrumani silenzi, il cor non si spaura), mentre la seconda comunica un senso di appagante dolcezza (sempre caro, profondissima quiete, il naufragar m’è dolce in questo mar).
    Nella poesia sono presenti tre temi: lo spazio infinito, il tempo e il silenzio.
    Il testo è anche caratterizzato da immagini visive come la siepe, e percezioni uditive come i sovrumani silenzi e la profondissima quiete.
    METRO: idillio di versi endecasillabi sciolti.


    L’infinito

    «Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
    e questa siepe, che da tanta parte
    dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
    Ma sedendo e mirando, interminati
    spazi di là da quella, e sovrumani
    silenzi, e profondissima quïete
    io nel pensier mi fingo, ove per poco
    il cor non si spaura. E come il vento
    odo stormir tra queste piante, io quello
    infinito silenzio a questa voce
    vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
    e le morte stagioni, e la presente
    e viva, e il suon di lei. Così tra questa
    immensità s'annega il pensier mio:
    e il naufragar m'è dolce in questo mare»

    breve commento della lirica leopardiana "L'Infinito", che unisce l'idea dell'immensità spaziale con l'eternità temporale

    Al poeta fu sempre caro il colle che sorge verso Recanati (monte Tabor, collina solitaria) su cui era solito rifugiarsi per contemplare e riflettere.
    Sul colle cresceva una siepe che impediva la vista del paesaggio più lontano. Come per tutti i grandi uomini, per Leopardi ogni limite è una sfida
    quindi egli immagina un mondo vastissimo oltre la siepe.
    Anzi supera i confini del mondo e pensa all’infinito spazio
    dell’ universo, che l’uomo può intuire ma non comprendere
    pienamente. Il rumore del vento fra i rami della siepe ricorda al poeta il momento in cui sta’ vivendo momento che possa per un attimo per definizione scivolare nel passato.Il poeta ripensa allora all’età trascorsa fino alle prime ere geologiche della terra ed arriva all’intuizione dell’eternità. L’infinito e l’eterno lo sconvolgono e danno alla sua mente la sensazione dolorosa e dolce al tempo stesso di affondare, di perdersi.

     
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    Il sabato del villaggio

    parafrasi della lirica leopardiana scritta a Recanati nel 1829 e tratta dai Grandi Idilli

    Il sabato del villaggio

    La donzelletta vien dalla campagna
    in sul calar del sole
    col suo fascio dell'erba e reca in mano
    un mazzolin di rose e di viole
    onde siccome suole
    ornare ella si appresta
    dimani al dì di festa, il petto e il crine
    siede con le vicine
    su la scala a filar la vecchiarella
    incontro la dove si perde il giorno
    e novellando vien del suo buon tempo
    quando ai di della festa ella si ornava
    ed ancor sana e snella
    solea danzar la sera intra di quei
    ch'ebbe compagni dell'eta più bella
    gia tutta l'aria imbruna

    Parafrasi:
    Al calar del sole e al suon delle campane viene uno fanciulla che porta un po di cibo ai suoi animali,tutto il sabato sono felici perchè pensano al giorno dopo, ma quando arriva il giorno tutti sono tristi perchè pensano al giorno successivo perchè devono tornare a lavorare.Secondo al Leopardi questa e la giornata più bella alla fine viene e tutti spengono la candela e vanno a letto e tutti il silenzio pero si sente solo il rumore del falegname.Leopardi vede un fanciullo felice e gli dice questo è il tuo giorno più bello e la festa più bella della tua vita spero la tua vecchiaia arrivi più tardi possibile.

     
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    Infinito - Figure retoriche

    Sempre caro mi fu quest'ermo colle - anastrofe

    Interminati spazi - Enjambement: vengono spezzati con la pausa di fine verso gruppi di parole. In questo modo si collegano due versi insistendo sul significato delle due parole.

    Sovrumani silenzi - Enjambement

    Interminati - Iperbole: consiste nell'intensificare un'espressione esagerando o riducendo oltre misura la qualità di una cosa.

    Sovrumani - Iperbole

    Profondissima - Iperbole

    Questa siepe... quella - Antitesi: accostamento di elementi contrastanti nella stessa frase.

    Quello infinito silenzio a questa voce - Antitesi

    Morte stagioni... viva - Antitesi

    Stormir - Onomatopea: è una parola che con il suo suono riproduce o imita un rumore della realtà.
    S'annega... il naufragar m'è dolce in questo mare - Metafora: sostituzione di una parola con un'altra che sta con la prima in un rapporto di somiglianza (confronto sottinteso).



    A Silvia:


    parafrasi, struttura e commento


    I Canti - A SILVIA
    Parafrasi


    Silvia, ricordi ancora il tempo della tua vita mortale, quando la bellezza splendeva nei tuoi occhi ridenti e sfuggenti, e tu, lieta a e pensosa stavi raggiungendo il confine della giovinezza?

    Al tuo canto continuo, risuonavano le mie stanze silenziose e le vie dintorno, allorchè sedevi occupata nelle attività femminili, sufficientemente contenta di quell’avvenire vago che avevi in mente. Quando ciò succedeva era un maggio profumato: e tu eri solita a trascorrere il giorno così.

    Io, lasciando talora gli studi piacevoli, e le carte faticose, in cui si consumava la mia giovinezza e la parte migliore di me, porgevo, dai balconi della casa paterna, gli orecchie al suono della tua voce e della tua mano veloce che attraversava la tela faticosa.
    Guardavo il cielo sereno, le vie dorate dal sole, e gli arti, e da una parte il mare in lontananza, e dall’altra le montagne. Parole umane non possono descrivere quello che io provavo dentro di me.

    Che pensieri dolci provavamo! Che speranze, che sentimento avevamo, o mia Silvia! Come ci apparivano allora la vita umana e il destino! Quando mi ricordo di una così grande speranza, mi angoscia un sentimento doloroso e disperato, e riprendo a dispiacermi della mia sventura. O natura, o natura, perché poi non dai quel che prima prometti? Perché inganni così tanto i figli tuoi?

    Tu, prima che l’inverno inaridisce l’erba, combattuta e vinta da una malattia occulta, morivi, o Silvia! E non conoscevi il fiore dei tuoi anni, la dolce lode ora dei tuoi capelli neri, ora dello sguardo che innamora e schivo, non ti allietava il mare; né le compagne discorrevano con te d’amore nei giorni di festa.
    Poco dopo morirono anche le mie illusioni giovanili: anche alla mia vita il destino ha negato di vivere la giovinezza! Ahimè come sei passata veloce, mia speranza, ora impianta, cara compagna della mia età giovanile! Questo che ora ho conosciuto è quel mondo che mi aspettavo? Questi sarebbero i piaceri, l’amore, le attività, i fatti intorno ai quali così tanto abbiamo ragionato insieme? Questa è la sorte del genere umano? Tu mia povera speranza sei crollata all’apparire della verità: e con la mano indicavi da lontano la morte fredda e una tomba spoglia.

    Struttura della poesia
    I strofa = domanda a Silvia
    II strofa = illusioni di Silvia
    III strofa = illusioni del poeta
    IV strofa = annuncia il destino dei due protagonisti (Silvia e il poeta)
    V strofa = disillusioni di Silvia
    VI strofa = disillusioni del poeta

    Commento
    “A Silvia” è una canzone libera scritta da Leopardi è compresa ne I Canti. Silvia è il simbolo della giovinezza. Silvia si identifica con Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di casa Leopardi, che abitava vicino al poeta.
    La poesia contiene indicazioni sensoriali visive e uditive. Difatti, il poeta fa una descrizione dettagliata del posto in cui abitava Teresa.
    La poesia è stata scritta dopo la conversione poetica di Leopardi: da scrivere ciò che procurava piacere, il poeta scrive ciò che è vero, e infatti la poesia contiene frasi che rafforzano il contrasto tra illusioni e consapevolezza.
    Nella poesia viene fatta anche una vocazione alla natura definita un essere maligno poiché ha promesso all’uomo una felicità che non è possibile ottenere: l’uomo, per Leopardi, è “imbevuto” da superstizioni che lo portano ad una infelicità assoluta.

     
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    CANTO NOTTURNO DI UN PASTORE ERRANTE DELL’ASIA: PARAFRASI E COMMENTO

    CANTO NOTTURNO DI UN PASTORE ERRANTE DELL’ASIA LEOPARDI: TESTO

    Prima di passare alla parafrasi e la spiegazione della poesia ecco il testo con i versi numerati, per facilitare la comprensione.

    1. Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
    2. silenziosa luna?
    3. Sorgi la sera, e vai,
    4. contemplando i deserti; indi ti posi.
    5. Ancor non sei tu paga
    6. di riandare i sempiterni calli?
    7. Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
    8. di mirar queste valli?
    9. Somiglia alla tua vita
    10. la vita del pastore.
    11. Sorge in sul primo albore
    12. move la greggia oltre pel campo, e vede
    13. greggi, fontane ed erbe;
    14. poi stanco si riposa in su la sera:
    15. altro mai non ispera.
    16. Dimmi, o luna: a che vale
    17. al pastor la sua vita,
    18. la vostra vita a voi? dimmi: ove tende
    19. questo vagar mio breve,
    20. il tuo corso immortale?
    21. Vecchierel bianco, infermo,
    22. mezzo vestito e scalzo,
    23. con gravissimo fascio in su le spalle,
    24. per montagna e per valle,
    25. per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
    26. al vento, alla tempesta, e quando avvampa
    27. l’ora, e quando poi gela,
    28. corre via, corre, anela,
    29. varca torrenti e stagni,
    30. cade, risorge, e piú e piú s’affretta,
    31. senza posa o ristoro,
    32. lacero, sanguinoso; infin ch’arriva
    33. colá dove la via
    34. e dove il tanto affaticar fu vòlto:
    35. abisso orrido, immenso,
    36. ov’ei precipitando, il tutto obblia.
    37. Vergine luna, tale
    38. è la vita mortale.
    39. Nasce l’uomo a fatica,
    40. ed è rischio di morte il nascimento.
    41. Prova pena e tormento
    42. per prima cosa; e in sul principio stesso
    43. la madre e il genitore
    44. il prende a consolar dell’esser nato.
    45. Poi che crescendo viene,
    46. l’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre
    47. con atti e con parole
    48. studiasi fargli core,
    49. e consolarlo dell’umano stato:
    50. altro ufficio piú grato
    51. non si fa da parenti alla lor prole.
    52. Ma perché dare al sole,
    53. perché reggere in vita
    54. chi poi di quella consolar convenga?
    55. Se la vita è sventura,
    56. perché da noi si dura?
    57. Intatta luna, tale
    58. è lo stato mortale.
    59. Ma tu mortal non sei,
    60. e forse del mio dir poco ti cale.
    61. Pur tu, solinga, eterna peregrina,
    62. che sí pensosa sei, tu forse intendi
    63. questo viver terreno,
    64. il patir nostro, il sospirar, che sia;
    65. che sia questo morir, questo supremo
    66. scolorar del sembiante,
    67. e perir della terra, e venir meno
    68. ad ogni usata, amante compagnia.
    69. E tu certo comprendi
    70. il perché delle cose, e vedi il frutto
    71. del mattin, della sera,
    72. del tacito, infinito andar del tempo.
    73. Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
    74. rida la primavera,
    75. a chi giovi l’ardore, e che procacci
    76. il verno co’ suoi ghiacci.
    77. Mille cose sai tu, mille discopri,
    78. che son celate al semplice pastore.
    79. Spesso quand’io ti miro
    80. star cosí muta in sul deserto piano,
    81. che, in suo giro lontano, al ciel confina;
    82. ovver con la mia greggia
    83. seguirmi viaggiando a mano a mano;
    84. e quando miro in cielo arder le stelle;
    85. dico fra me pensando:
    86. — A che tante facelle?
    87. che fa l’aria infinita, e quel profondo
    88. infinito seren? che vuol dir questa
    89. solitudine immensa? ed io che sono? —
    90. Cosí meco ragiono: e della stanza
    91. smisurata e superba,
    92. e dell’innumerabile famiglia;
    93. poi di tanto adoprar, di tanti moti
    94. d’ogni celeste, ogni terrena cosa,
    95. girando senza posa,
    96. per tornar sempre lá donde son mosse;
    97. uso alcuno, alcun frutto
    98. indovinar non so. Ma tu per certo,
    99. giovinetta immortal, conosci il tutto.
    100. Questo io conosco e sento,
    101. che degli eterni giri,
    102. che dell’esser mio frale,
    103. qualche bene o contento
    104. avrá fors’altri; a me la vita è male.
    105. greggia mia che posi, oh te beata,
    106. che la miseria tua, credo, non sai!
    107. Quanta invidia ti porto!
    108. Non sol perché d’affanno
    109. quasi libera vai;
    110. ch’ogni stento, ogni danno,
    111. ogni estremo timor subito scordi;
    112. ma piú perché giammai tedio non provi.
    113. Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe,
    114. tu se’ queta e contenta;
    115. e gran parte dell’anno
    116. senza noia consumi in quello stato.
    117. Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra,
    118. e un fastidio m’ingombra
    119. la mente; ed uno spron quasi mi punge
    120. sí che, sedendo, piú che mai son lunge
    121. da trovar pace o loco.
    122. E pur nulla non bramo,
    123. e non ho fino a qui cagion di pianto.
    124. Quel che tu goda o quanto,
    125. non so giá dir; ma fortunata sei.
    126. Ed io godo ancor poco,
    127. o greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
    128. Se tu parlar sapessi, io chiederei:
    129. — Dimmi: perché giacendo
    130. a bell’agio, ozioso,
    131. s’appaga ogni animale;
    132. me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale? —
    133. Forse s’avess’io l’ale
    134. da volar su le nubi,
    135. e noverar le stelle ad una ad una,
    136. o come il tuono errar di giogo in giogo,
    137. piú felice sarei, dolce mia greggia,
    138. piú felice sarei, candida luna.
    139. O forse erra dal vero,
    140. mirando all’altrui sorte, il mio pensiero:
    141. forse in qual forma, in quale
    142. stato che sia, dentro covile o cuna,
    143. è funesto a chi nasce il dí natale.



    PARAFRASI CANTO NOTTURNO DI UN PASTORE ERRANTE DELL’ASIA LEOPARDI



    Ecco la parafrasi della poesia con la spiegazione del significato

    1-4: O luna, che fai nel cielo? Dimmi, che fai, o silenziosa luna? Sorgi la sera, e inizi la tua peregrinazione,osservando a lungo i deserti; e poi cali e ti posi.
    5-10: Non sei ancora stanca di percorrere sempre lo stesso itinerario?Non ti è ancora venuta a noia, sei ancora desiderosa di ammirar questi luoghi di esilio?La vita del pastore somiglia alla tua.
    11-15 Si alza appena il cielo si fa chiaro conduce il suo gregge per il pascoli, e vede altre greggi, fonti e prati; poi stanco si riposa verso sera: non s’attende mai altro dalla vita.
    16- 20: O luna, confessami: per che finalità ha valore la vita per il pastore, e che ragion d’esser ha la nostra esistenza per te? Dimmi: dove punta questa mia esistenza nomade, e dove invece va il tuo itinerario eterno e sempre uguale?
    21- 38: Un vecchierello dai capelli ormai bianchi, infermo vestito di stracci e senza scarpe, che porta sulle spalle un fardello assai pesante,attraversando valli e montagne, sassi aguzzi, dune profonde e luoghi impervi in mezzo al vento, alla tempesta, al sole che batte e alla stagione invernale corre affannosamente e ansiosamente spera supera torrenti e stagni cade, si rialza, e continuamente si affretta senza sosta o riposo, sanguinante e con le vesti lacere; quando infine arriva là dove la strada e la gran fatica erano da subito destinate: un abisso immenso ed agghiacciante, dove egli, precipitando, dimentica tutto. O purissima luna, questa è la vita dei mortali.
    39- 44: L’uomo nasce per soffrire, e la stessa nascita è un rischio di morte. Prova sofferenza e dolore come prima cosa; e all’inizio stesso della vita la madre e il padre prendono a consolare il figlio per essere venuto al mondo.
    45- 51: Quando questo poi cresce, l’uno e l’altro lo sostengono, e continuamente con gesti affettuosi e parole dolci s’impegnano a fargli coraggio e a consolarlo della condizione umana: i genitori nei confronti della loro prole non compiono altri gesti più graditi.
    52-60: Ma perché dare al mondo e mantenere in vita chi poi è necessario consolare dell’esistenza stessa? Se la vita è una sventura continua perché dev’essere subita e tollerata da noi? O luna non toccata da tali problematiche, questo è lo stato dei mortali. Ma tu non sei come noi, e quindi forse poco ti interessa di ciò che dico.
    61- 68:Tuttavia tu, solitaria, eterna pellegrina che sei così pensosa, tu forse puoi capire cosa sia l’esistenza terrena, il nostro soffrire e il nostro sospirare; puoi intendere cosa significhi la morte, lo scolorarsi del nostro volto, e lo scomparir dalla terra, e abbandonare ogni consueta ed amata compagnia umana.
    69-78: E tu certo hai nozione della causa delle cose, e vedi l’esito proficuo del mattino, della sera, e del silenzioso e inarrestabile alternarsi delle giornate. Tu sicuramente sai per quale causa lieta rida la primavera, a chi sai favorevole l’estate, e che vantaggi abbiano i ghiacci dell’inverno. Tu mille cose sai, e mille ne scopri, che sono tenute segrete all’umile pastore.
    79- 84: Spesso, quando ti osservo e ti contemplo mentre stai così silenziosa sopra il deserto che, al suo orizzonte, confina col cielo; oppure mentre mi segui viaggiando a mano a mano con il mio gregge; e quando scruto le stelle splendere nel cielo;
    85- 89: dico pensando fra me: “A che scopo così tante luci? Qual è il senso dell’universo infinito, e della grandiosità della volta celeste? Che vuol dire la solitudine totale dell’uomo? Io che sono?
    90- 100: Così rifletto tra me e me: e non so trovare uno scopo o un beneficio qualsiasi dell’universo immenso e smisurato,e di tutte le cose viventi; né poi mi spiego il senso di tanta fatica, di tanti andirivieni di ogni cosa terrena o celeste che girando ininterrottamente, finisce là da dove era partita. Ma tu sicuramente giovane luna immortale, sai la motivazione di tutto. Questo io so e provo, che forse ad altri verrà un bene o un premio dell’eterno ruotare degli astri, della mia fragilità; per me, la vita è dolore.
    100- 113: O gregge mio che ti accucci, beato te, che – suppongo – non conosci la tua miseria! Come ti invidio! Non solo perché vai libero dalle preoccupazioni umane; tanto che dimentichi immediatamente ogni sofferenza, dolore o timore di morte ma soprattutto perché non provi mai la sensazione del nulla.
    113-121: Quando siedi all’ombra, sull’erba, sei pacifica e felice; e vivi in questo stato senza noia per buona parte dell’anno. E pure io siedo in un prato ombroso, ma un’insoddisfazione latente mi ingombra il pensiero, e uno sprone quasi mi pungola così che, benché seduto, io sono ben distante dal trovar un luogo di pace.
    122- 132: E tuttavia non desidero alcunché e non ho per ora motivo di dolermi. Non so dire con precisione quanto o per qual motivo tu sia felice; ma sei fortunata. Ed io provo ancor poco piacere, o gregge mio, né mi lamento solo di questo. Se tu sapessi parlare, io ti chiederei: “Dimmi, perché ogni animale è contento giacendo nell’agio e nell’ozio mentre, se io mi riposo, la noia mi assale?”
    133- 138: Forse se io avessi le ali per volare sopra le nuvole, e contare a una a una le stelle o se potessi errare di cresta in cresta sarei più felice. o dolce mio gregge, sarei più sereno, o candida luna.
    139- 143: O probabilmente il mio ragionamento si allontana dalla verità, prestando attenzione alla sorte altrui. Forse – in quale che sia lo stato in cui si nasce, dalla stalla alla culla – per chi viene al mondo è funesto il giorno della nascita.

    CANTO NOTTURNO DI UN PASTORE ERRANTE DELL’ASIA ANALISI DEL TESTO: FIGURE RETORICHE

    Di seguito l’analisi più dettagliata delle figure retoriche presenti nella canzone.

    Enjambements vv. 12-13; vv. 16-17; vv. 18-19; vv. 26-27; vv. 69-70; vv. 70-71; vv. 75-76; vv. 87-88; vv. 88-89; vv. 90-91; vv. 93-94; vv. 108-109; vv. 108-109; vv. 141-142
    Allitterazioni della “v”: vv. 16-19: Dimmi, o luna: a che vale/ al pastor la sua vita,/ la vostra vita a voi? dimmi: ove tende/ questo vagar mio breve,/ il tuo corso immortale?”; della “l”: vv. 1-2: “Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,/ silenziosa luna?”; della “s”: “v. 14: “poi stanco si riposa in su la sera”; vv. 3-4: “sorgi la sera, e vai,/ contemplando i deserti; indi ti posi.”; vv. 65-66: “che sia questo morir, questo supremo/ scolorar del sembiante”
    Anafore vv. 5,7: “ancor”; vv. 16, 18: “dimmi”; vv. 52-53, 56: “perché”; vv. 101-102: “che”; vv. 137-138: “più felice sarei”; vv. 133, 139, 141: “forse”
    Apostrofe v. 1: “luna”; v. 2: “silenziosa luna”; v. 16: “o luna”; v. 37: “vergine luna”; v. 57: “intatta luna”; v. 61: “solinga, eterna peregrina”; v. 99: “giovinetta immortal”; v. 105, 127: “o greggia mia”; v. 137: “dolce mia greggia”; v. 138: “candida luna”
    Domande retoriche vv. 1-2: “che fai tu, luna…?”; vv. 5-6: “Ancor non sei tu paga…calli?”; vv. 7-8: “Ancor non prendi a schivo… valli?”; vv. 16-18: “Dimmi, o luna… a voi?”; vv. 18-20: “dimmi: ove tende… immortale?”; vv. 52-54: “Ma perché dare al sole …. Consolar convenga?”; vv. 55-56: “Se la vita …si dura?”; v. 86: “A che tante facelle?”; vv. 87-88: “Che fa l’aria infinita …infinito seren?”; vv. 88-89: “che vuol dir… immensa? Ed io che sono?”; vv. 129-132: “dimmi: perché giacendo / … il tedio assale?”
    Esclamazioni v. 105-106: “o greggia mia che posi, oh te beata / che la miseria tua, credo, non sai!”; v. 107: “Quanta invidia ti porto!”
    Epanadiplosi v. 1: “che fai… che fai”
    Anadiplosi vv. 9-10: “alla tua vita/ la vita”; vv. 17-18: “la sua vita/ la vostra vita”; vv. 64-65: “che sia;/ che sia”
    Anastrofi vv. 94-98: “d’ogni celeste, ogni terrena cosa/… uso alcuno, alcun frutto/ indovinar non so”; vv. 101-104: “degli eterni giri / dell’esser mio frale,/ qualche bene o contento/ avrà fors’altri”; vv. 108-109: “d’affanno/ quasi libera vai”; v. 132: “me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale?”
    Chiasmi vv. 16-18: “a che vale /al pastor la sua vita, / la vostra vita a voi?“; v. 97: “uso alcuno, alcun frutto“
    Sineddochi v. 21: “bianco”; v. 88: “seren”; v. 94: “celeste”
    Metonimia v. 142: “dentro covile o cuna”
    Metafore v. 19: “questo vagar mio breve”; v. 52: “dare al sole”; vv. 65-66: “supremo/ scolorar del sembiante”; v. 70: “frutto”; v. 75: “l’ardore”; v. 86: “facelle”; vv. 90-91: “stanza/ smisurata e superba”; v. 92: “innumerabile famiglia”; v. 119: “uno spron quasi mi punge”
    Ossimoro v. 143: “è funesto a chi nasce il dì natale”
    Iperbole vv. 35-36: “abisso orrido, immenso/ ov’ei precipitando il tutto obblia”
    Adynaton v. 128: “Se tu parlar sapessi, io chiederei”; vv. 133-138: “Forse s’avess’io l’ale… più felice sarei”
    Allegoria v. 21 (ma occupa l’intera strofa): “Vecchierel bianco infermo”
    Personificazioni vv. 61-62: “solinga, eterna peregrina,/ che sì pensosa sei”; v. 80: “muta”; v. 99: “giovinetta immortal”
    Antitesi vv. 17-18: “al pastor la sua vita/ la vostra vita a voi”; vv. 19-20: “questo vagar mio breve/ il tuo corso immortale”; vv. 57-59: “tale/ è lo stato mortale./ Ma tu mortal non sei”; vv. 98-100: “Ma tu per certo,/ giovinetta immortal, conosci il tutto./ Questo io conosco e sento”; vv. 103-104: “qualche bene o contento/ avrà fors’altri; a me la vita è male”; vv. 113-117: “Quando tu siedi all’ombra …/ ed io pur seggo sovra l’erbe all’ombra”; vv. 124-126: “Quel che tu goda o quanto/ non so già dir…/ ed io godo ancor poco”; vv. 129-132: “giacendo/ a bell’agio, ozioso,/ s’appaga ogni animale;/ me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale”.
    CANTO NOTTURNO DI UN PASTORE ERRANTE DELL’ASIA LEOPARDI: COMMENTO
    Il Canto notturno è un componimento libero, diviso in sei stanze. Nella prima stanza il pastore si rivolge alla luna silenziosa, mettendo a confronto sé stesso proprio con la luna: da un lato c’è lui che si definisce “vecchierel bianco”, e dall’altro la grandezza dell’astro lunare. Il pastore si interroga poi sulla sua esistenza, mettendo a confronto la propria vita con quella del suo gregge: la noia della vita non pesa alle sue pecore, mentre per lui esistere è negativo, porta dolore e tedio. Perché Leopardi decide di esprimere queste tematiche a lui care tramite un dialogo di un pastore con la luna? Per il componimento il poeta trae ispirazione dalla lettura di un viaggio presso i Kirghisi, una popolazione dell’Asia centrale, dove i pastori declamavano storie e canti alla luna. È da questo che Leopardi trae ispirazione per la sua poesia, ricca di elementi esotici, malinconia, elementi propri della poesia romantica, a cui il poeta sembra essersi definitivamente aperto.
     
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