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Parafrasi Adelchi coro atto IV Morte di Ermengarda

aiutini

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    Parafrasi Adelchi coro atto IV Morte di Ermengarda

    La «provida sventura»

    La morte giunge serena per Ermengarda, nella convinzione che «fuor della vita» risiede la liberazione dalla sua dolorosa sorte terrena. E’ il premio, la consolazione ideale, l'esito ultimo di un disegno invisibile che agisce nella storia e si anima nella coscienza di creature generose. Di fronte al crollo inglorioso del regno longobardo, fondato sulla violenza, Ermengarda si salva senza colpa e senza rimorsi: lei, che pure appartiene a quella «rea progenie», è salvata dalla propria sofferenza.
    Alla base c'è la fede in una giustificazione divina della sventura, vista come «provida», cioè come strumento di purificazione offerto dalla Provvidenza. E’ un'idea centrale nella visione manzoniana e e sarà un elemento chiave anche del fondamento ideologico dei Promessi sposi.

    La struttura del coro

    Il coro ha una struttura architettonicamente studiata e calibrata. Le prime due semistrofe (vv. 1-12) rappresentano Ermengarda sul letto di morte, circondata dalle suore del convento. Esse hanno quindi una funzione di raccordo con la scena precedente e, insieme, costituiscono un preambolo al discorso successivo: Ermengarda muore con gli occhi che cercano «il ciel» (vv. 5-6), la pace della vita eterna. Nelle due semistrofe successive (vv. 13-24) interviene la voce del poeta, che si rivolge a Ermengarda invitandola a liberare l'animo angosciato dalle passioni terrene («i terrestri ardori», v. 14): fuori della vita troverà la liberazione dal «lungo martir» che altri le hanno inflitto, ma proprio la sofferenza che ha subito in vita la renderà «santa» e degna di salire al «Dio de' santi».
    Segue la parte centrale del coro (vv. 25-60), che si dilunga per sei semistrofe: è un momento introspettivo nel quale, con scorci repentini, si rievoca il percorso di un'intera esistenza. Muovendo da un presente di silenziosa sofferenza che di continuo rinnova nel ricordo l'ora dolorosa del disinganno e della solitudine, rivivono i momenti di più fiducioso e irrecuperabile abbandono affettivo.
    Le quattro semistrofe successive (vv. 61-84) descrivono la condizione psicologica di Ermengarda, attraverso la similitudine del cespo d'erba: il personaggio, tormentato dai ricordi e dal risorgere della passione, è paragonato al cespo d'erba inaridita che riprende momentaneamente vita grazie alla rugiada, ma è poi di nuovo seccato dalla vampa infuocata del sole. Dalla quindicesima semistrofa(vv. 85 seg.) si ritorna al motivo d'inizio, la liberazione dal tormento che è possibile solo nella morte: si noti il refrain (i primi quattro versi, «Sgombra, o gentil... e muori», vv. 85-88, riprendono esattamente i vv. 13-16). Si chiude così il cerchio: nelle ultime sei
    semistrofe il poeta si rivolge di nuovo al personaggio, ribadendo che la «sventura» è strumento di purificazione e la pace è raggiungibile soltanto fuori della vita.

    Metro

    Dieci strofe settenarie doppie, costituite da due parti di sei versi ciascuna. Il primo, il terzo e il quinto verso sono sdruccioli e sciolti; il secondo e il quarto sono piani e a rima alterna; il sesto è tronco e rima con l'ultimo della seconda parte della strofa, anch'esso tronco. Schema: abcbde fghgie. E’ il metro che Manzoni adotta nella quasi coeva ode Il cinque maggio.

    I piani temporali del discorso


    Alla struttura del coro corrisponde un complesso e simmetrico gioco di piani temporali. Si presentano in successione tre diversi livelli temporali, incastrati con la tecnica del flash-back: il presente della morte, il passato recente nel monastero, il passato lontano della vita matrimoniale.
    Presente. Il coro prende le mosse da una situazione presente, Ermengarda sul letto di morte. Il presente è il piano temporale delle prime quattro semistrofe.
    Passato recente. Attraverso un flash-back, la quinta semistrofa rievoca il passato recente di Ermengarda, quando, chiusa nel monastero, cercava di soffocare il suo amore e i ricordi dei giorni felici del matrimonio, gli «irrevocati dì» (v. 30).
    Passato lontano. Quei lontani e felici ricordi, benché Ermengarda non voglia rievocarli, prendono prepotentemente campo: con un ulteriore flash-back, le semistrofe successive, dalla sesta alla decima (vv. 31-60), sono occupate da quel gioioso lontano passato trascorso al fianco di Carlo, nelle vivide scene della caccia e del ritorno del re dalla guerra.
    Nelle semistrofe successive, dalla undicesima alla quattordicesima (vv. 61-84), si ritorna al passato recente, con Ermengarda che, chiusa nel monastero, vive il dissidio interiore sospesa tra la volontà di oblio e il risorgere della passione. Dalla quindicesima semistrofa alla fine (vv. 85-120), si ritorna invece al presente dell'agonia di Ermengarda.

    Una lirica elegiaca

    Se si confronta questo coro con quello dell'atto III (Dagli atrii muscosi, dai fòri cadenti), si avverte uno scarto dall'epico all'elegiaco. Di nuovo il coro è dedicato a una vittima: Ermengarda è, come i latini nel coro dell'atto III, una vittima: una vittima d'alto rango, ma anch'essa senza storia e senza voce. Ed è appunto attraverso il coro che l'autore dà spazio e voce al suo dramma. Manzoni non persegue qui la poesia epica e martellante del coro dell'atto III, ma una lirica dai toni elegiaci e delicati, consona al dramma interiore del personaggio. Si notino le due delicate similitudini naturalistiche: quella col cespuglio di tenui steli, ravvivato dalla rugiada e poi arso dal sole (vv. 61-78), e quella finale, col sole che si libera dalle nuvole e tramonta (vv. 114-120).

    CONTENUTO: Questo brano del coro dell’atto quarto dell’Adelchi è dominato dal tema della provvida sventura Manzoniana in relazione alla morte di Ermengarda. La donna viene incitata a liberare la mente dai terrestri ardori, forse dall’Io lirico di Manzoni. Il pensiero poi si rivolge alle altre donne infelici, consumate e già morte a causa del dolore, accostandovi poi l’immagine di Ermengarda che, trovatasi dalla parte degli oppressi invece che degli oppressori, è incitata a morire in pace, col volto che si ricomponga come quando era fanciulla, ignara di un destino avverso, in visione di un buon augurio di salvezza divina. C’è quindi il paragone tra il volto sereno di Ermengarda e la serenità del contadino che, al tramonto vedendo il sole squarciare le nuvole, spera in un giorno più sereno. Ai versi 103 - 104 vediamo, sottolineato da un enjembement, provvida sventura spesso ricorrente nell’idea religiosa di Manzoni, che sta a significare la possibilità di riscattarsi di una colpa, nel caso di Ermengarda le colpe del suo popolo cui fu prodezza il numero, / cui fu ragion l’offesa, / e dritto il sangue, e gloria / il non aver pietà.

    STILE: Al verso 93 vediamo “brando”, una metonimia (figura retorica che consiste nel trasferire un termine dal concetto a cui propriamente si applica ad un altro in cui è in stretto rapporto di dipendenza) che sta per “spada”. Nel passaggio sono presenti termini eruditi di origine latina, come al verso 92 “orbate” e al verso 94 “indarno” oppure al verso 112 “fallace” (dal latino fallax). Al verso 97 e 103 è presente una anafora, cioè una ripetizione di una parola, in questo caso “te”, quasi a sottolineare il senso di colpa che viene addossato ad Ermengarda. Altra anafora è presente ai versi 99 – 100 con “…cui… cui…”. Nel passaggio sono presenti molti enjembements, il più notevole dei quali e quello ai versi 103 – 104 con “provvida / sventura” quasi ad evidenziare ciò che sarà un tema caratteristico nel Manzoni. Ai versi 114 – 115 si trova un ulteriore enjembement della strofa che termina con “Così…” per sottolineare la continuità del paragone tra il volto di Ermengarda e lo stato d’animo del contadino che sull’alba si rasserena per un giorno più sereno. [/color][/size]

    Edited by Lussy60 - 8/2/2019, 21:31
     
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    parafrasi Adelchi di Manzoni del coro atto terzo: "Dagli atrii muscosi"


    Dagli atrii muscosi, dai fòri cadenti,
    dai boschi, dall’arse fucine stridenti,
    dai solchi bagnati di servo sudor;
    un volgo disperso, repente si desta,
    intende l’orecchio, solleva la testa,
    percosso da novo crescente romor.

    Un volgo disperso all’udire un rumore insolito che aumenta continuamente di intensità, esce all’improvviso dagli atrii dei vecchi palazzi coperti di muschio, dalle piazze cadenti (perché lasciate andare in rovina), dai boschi, dalle officine e dai campi bagnati dal sudore dei contadini divenuti servi (dei Longobardi).
    Il volgo disperso sono gli italiani ridotti in schiavitù dai dominatori longobardi; una massa di persone anonime, stanca, umiliata dalla condizione in cui si trova e divisa fra i vari signori, cioè dispersa.
    La scena di grande effetto si svolge fra i “fori cadenti”, cioè luoghi in rovina, abbandonati all’incuria di chi non ha più voglia di mantenere bello e pulito il luogo in cui vive; negli androni delle case talmente trascurati da avere il muschio sulle pareti; nei boschi, nei campi bagnati dal sudore di persone ridotte in condizione servile.
    L’inizio del coro si presenta ricco di movimento con questa folla di gente di tutti ceti che si risveglia dopo un lungo periodo di schiavitù.
    Senti i suoni aspri e sibilanti della lettera s che ha la funzione di far risaltare l’idea del ferro rovente quando viene buttato nell’acqua

    Dai guardi dubbiosi, dai pavidi volti,
    quel raggio di sole da nuvoli folti,
    traluce de’ padri la fiera virtù:
    ne’ guardi, ne’ volti confuso ed incerto
    si mesce e discorda lo spregio sofferto
    col misero orgoglio di un tempo che fù.

    Dagli sguardi interrogativi, dai volti impauriti, come un raggio di sole che esce da folte nuvole, balena l’antico orgoglio degli avi: negli sguardi e nei volti si mescolano e si alternano l’avvilimento subito e l’orgoglio del tempo passato.
    L’orgoglio del passato diventa speranza per il futuro.
    I versi sono spezzati a metà e gli accenti variati per esprimere l’avvicendamento della speranza e della paura.
    Misero orgoglio perché basato sul ricordo delle imprese gloriose dei padri (cioè i romani): severa condanna alla paura ed all’incapacità degli italiani di ribellarsi.


    S’aduna voglioso, si sperde tremante,
    per torti sentieri con passo vagante,
    fra tèma e desire, s’avanza e ristà;
    e adocchia e rimira scorata e confusa
    de’ crudi signori la turba diffusa,
    che fugge dai brandi, che sosta non ha.

    Si raduna desideroso ( di conoscere le sorti della battaglia), ma subito di disperde impaurito per vie tortuose col passo incerto di chi non ha una meta, fra paura e desiderio avanza e si ferma: guarda e riguarda la schiera dispersa e sbandata ( dei Longobardi) dei crudeli padroni che fugge dalle spade (dei Franchi) senza concedersi un attimo di sosta.
    Notate come il ritmo ripetuto e pressante dei versi rispecchi l’ansimare e la fatica della corsa.


    Ansanti li vede quai trepide fere,
    irsuti per tèma le fulve criniere,
    le note lètebre del covo cercar;
    e quivi, deposta l’usata minaccia,
    le donne superbe, con pallida faccia,
    i figli pensosi pensose guatar.

    Li vede ansimanti come animali feroci impauriti, con le folte criniere irte per la paura, cercare un nascondiglio nelle loro case e qui abbandonata l’abituale alterigia e superbia, le donne (longobarde) col volto pallido (per la paura) guardano i loro figli ammutoliti ( per l’incertezza di quanto avverrà)
    Da notare la parola “ansanti”. Ansanti per la fatica della corsa, ma anche per lo smarrimento e l’incertezza.

    E sopra i funggenti, con avido brando,
    quai cani disciolti, correndo, frugando,
    da ritta, da manca, guerrieri venir:
    li vede, e rapito d’ignoto contento,
    con l’agile speme precorre l’evento,
    e sogna la fine del duro servir.

    E dietro i fuggiaschi, con la spada avida di sangue, come cani lanciati all’inseguimento di una preda, arrivano altri guerrieri ( i francesi) da destra e da sinistra correndo e frugando ovunque; li vede e preso da uno sconosciuto sentimento di felicità, anticipa gli eventi e sogna la fine della dura schiavitù.


    Udite! Quei forti che tengono il campo,
    che ai vostri tiranni precludon lo scampo,
    son giunti da lunge per aspri sentier:
    sospeser le gioie dei prandi festosi,
    assursero in fretta dai blandi riposi,
    chiamati repente da squillo guerrier.

    Ascoltate! I guerrieri Franchi che appaiono vittoriosi e precludono la salvezza dei vostri aguzzini, sono arrivati da lontano per strade difficoltose: hanno sospeso le gioie dei banchetti, si sono alzati in fretta dai loro letti chiamati rapidamente da una tromba che annunciava la guerra .
    L’imperativo del poeta sembra una profezia che toglie l’illusione di un cambiamento repentino, ma anche un’esortazione all’azione.

    Lasciar nelle sale del tetto natio
    Le donne accorate, tornanti all’addio,
    a preghi e consigli che il pianto troncò:
    han carca la fronte de’ pesti cimieri,
    han poste le selle sui bruni corsieri,
    volaron sul ponte che cupo suonò.

    Hanno lasciato nelle stanze della casa natale le donne preoccupate che tornavano e ritornavano a dir loro Addio e li pregavano ( di aver cura di sé) e consigliavano fra le lacrime che troncavano le parole. Hanno caricato la testa con gli elmi già ammaccati dai colpi dei nemici, hanno messo le selle ai cavalli neri e sono volati sul ponte che rimbombava del rumore degli zoccoli dei cavalli in corsa.
    Da notare il cambiamento del tempo verbale ( lasciar, troncò, han carca, han poste).
    Il passato remoto, sostituito dal passato prossimo rende la scena più attuale e presente, più vicina al lettore.
    Notate l’agilità di questi versi nei quali predominano i verbi uditivi e visivi.

    A torme, di terra passarono in terra,
    cantando giulive canzoni di guerra,
    ma i dolci castelli pensando nel cor:
    per valli petrose, per balzi dirotti,
    vegliaron nell’arme le gelide notti,
    membrando i fidati colloqui d’amor.

    A schiere passarono da una terra ad un’altra cantando allegre canzoni di guerra, ma portando nel cuore la propria, dolce casa. Stettero svegli ed armati nelle fredde notti in mezzo a valli pietrose e scoscesi dirupi ricordando i discorsi d’amore con le proprie donne.
    Qui il Manzoni sposa felicemente l’ardore guerriero e la malinconia dolce per le gioie domestiche (la propria donna, la propria casa). Né il coraggio, né la nostalgia prevalgono l’una sull’altra, ma si accompagnano in un perfetto equilibrio.

    Gli oscuri perigli di stanze incresciose,
    per greppi senz’orma le corse affannose,
    il rigido impero, le fami durar:
    si vider le lance calate sui petti,
    a canto agli scudi, rasente agli elmetti,
    udiron le frecce fischiando volar.

    I pericoli sconosciuti di luoghi pericolosi, le marce estenuanti su per dirupi mai toccati prima da orme umane, la dura disciplina, la fame, vedere continuamente le lance calare sui petti, sfiorare gli scudi, rasentare gli elmetti, udirono le frecce volare fischiando
    Sembra quasi di poter udire la freccia che scocca e sibila.
    Ben descritta è anche la paura costante dei soldati continuamente in pericolo ed a contatto con la morte.

    E il premio sperato, promesso a quei forti,
    sarebbe, o delusi, rivolger le sorti,
    d’un volgo straniero por fine al dolor?
    Tornate alle vostre superbe ruine,
    all’opere imbelli dell’arse officine,
    ai solchi bagnati di servo sudor!

    E il premio sperato, (o delusi) promesso a quei valorosi sarebbe di rivoltare la condizione di un popolo straniero per mettere fine al suo dolore? Tornate alle vostre superbe rovine ( gli atrii muscosi, i fori cadenti), alle opere inutili delle riarse officine, ai campi bagnati di sudore servile. Come possono essere gli italiani così ingenui da pensare che questo popolo abbia patito tante sofferenze per dare a loro a libertà?

    Il forte si mesce col vinto nemico
    Col nuovo signore rimane l’antico;
    l’un popolo e l’altro sul collo vi sta:
    Dividono i servi, dividon gli armenti;
    si posano insieme sui campi cruenti
    d’un volgo disperso che nome non ha.

    I Franchi vittoriosi si uniscono ai nemici vinti. Accanto al nuovo padrone rimane quello vecchio; gli uni e gli altri vi domineranno:
    Si dividono gli schiavi e gli armenti. Si adageranno insieme sui campi bagnati di sangue che appartengono ad un popolo disperso e senza nome.
    L’autore profetizza così la sorte che attende i pavidi ed inetti italici.
    E così puntualmente avvenne.
    Carlo Magno, dopo aver donato alcuni feudi ai duchi longobardi che avevano tradito Desiderio, assunse il titolo di Re dei Franchi e dei Longobardi.

    Il coro è la sintesi del dramma di tre popoli: quello dei Longobardi, costretti alla fuga; quello dei Franchi vittoriosi, ma a prezzo di grandi sacrifici, fatiche e pericoli; quello degli italici, volgo disperso che si illude di poter riacquistare la libertà.
    La guerra crudele con i suoi orrori e le sue scene di sangue e morte è contemplata dal poeta con la tristezza di un cristiano che accetta con rassegnazione lo scorrere lento della storia intrisa di sangue e lacrime.
    Il popolo italico, accorso al rumore della battaglia, osserva pieno di ansia e speranza.
    Ma è l’assurda speranza di un volgo disperso, non del popolo che discende dagli antichi romani.
    Come può illudersi che quei guerrieri abbiamo lasciato le loro case, la moglie, i figli, gli agi per venire a liberarlo?
    Si rassegni dunque a continuare ad essere un popolo dominato ed asservito allo straniero, che certo non butterà via la sua vita per ridare la patria perduta ad un volgo che non ha più dignità né virtù.

    Questo era il messaggio che Manzoni mandava agli italiani nel 1822: il suo forte contributo al risveglio risorgimentale.

    Metrica: strofe di sei versi dodecasillabi e senari doppi
     
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