Claudio Baglioni Forum - Un mondo in musica

parafrasi e poesie di-G.CARDUCCI

« Older   Newer »
 
  Share  
.
  1. Lussy60
     
    .
    Avatar

    Millennium Member

    Group
    Administrator
    Posts
    112,793
    Location
    Milano

    Status
    Offline
    Davanti San Guido di Giosuè Carducci-parafrasi

    parafrasi


    Il poeta Giosuè Carducci sta viaggiando sulla linea Roma – Pisa in treno ed immagina che i cipressi che fiancheggiano la ferrovia dove lui giocava a Bolgheri, gli si facciano incontro e lo invitino a fermarsi. I cipressi alti e snelli dell’oratorio di san Guido a Bolgheri, formando un viale, sembrano al poeta, che li guarda dal treno in corsa, giovani giganti che corrono verso di lui e lo guardano. Lo riconoscono e gli chiedono, chinandosi con la cima piegata dal vento, di fermarsi perché la sera è fresca e lui conosce la strada. Lo invitano a fermarsi presso i loro alberi profumati, dove dal mare spira il vento impetuoso di nord-ovest e gli dicono che non conservano rancore per le sue “battaglie a colpi di sassi” perché in fondo non facevano male. Portano ancora nidi di usignoli e si lamentano che lui si allontani così in fretta. I passeri intersecano il cielo con voli. Il poeta risponde ai cipressi, sinceri amici dell’infanzia, che egli giudica migliore dell’età adulta, che volentieri si fermerebbe, ma chiede loro di lasciarlo andare perché ormai è un uomo maturo e ironicamente dice che, non per vantarsi, è diventato un uomo importante che capisce il greco ed il latino, scrive, ha tanti pregi e capacità e soprattutto non è più un ragazzo vivace ed impertinente e non tira più sassate alle piante (ma casomai invettive e battute polemiche agli uomini del suo tempo). Attraverso le cime che oscillano mosse dal vento, come chi scuote la testa per esprimere un dubbio o dire di no, passa, come un’onda, un brontolio ed il sole, che sta tramontando con un sorriso pietoso (cioè un riso un poco ironico e malizioso, ma senza cattiveria), splende rossastro in mezzo al verde cupo della vegetazione. Il poeta capisce che i cipressi ed il sole hanno un sentimento di pietà per lui ed improvvisamente il mormorare delle piante si trasforma in parole distinte. I cipressi hanno capito che non è altro che un uomo tormentato dagli affanni e dalle delusioni della vita. Il vento, sfiorando le case, porta via con sé l’eco dei sospiri degli uomini e conosce come dentro al petto del poeta brucino tormenti e passioni che egli non sa né può placare. Il poeta potrebbe raccontare alle querce ed ai cipressi la sua pena personale ed il dolore universale degli uomini in quel paesaggio sole sul mare, calmo ed azzurro, scende sorridente il sole. Il tramonto è pieno do voli e di stridi di uccelli, di notte si sentiranno i canti melodiosi degli usignoli. Lo invitano a rimanere ed a non seguire le idee e le passioni vane che sono colpevoli dell’infelicità dell’uomo perché lo staccano dalla semplicità della vita naturale. Le passioni (i pensieri agitati, torbidi, tristi ed angosciosi) nascono dalle profondità dei cuori umani sconvolti dai pensieri come i fuochi fatui dei cimiteri (mettono tanta para ma in realtà sono leggere fiamme vaganti prodotte dai gas che si sprigionano dove ci sono sostanze in putrefazione). Nell’ora del mezzogiorno (che per gli antichi era misteriosa e segreta), quando presso le querce i cavalli stanno nell’ombra muso a muso e introno tutto è pace nella pianura assolata, i cipressi gli canteranno quelle armonie che cielo e terra si scambiano tra loro eternamente e le divinità silvane, che abitano i tronchi delle piante, usciranno dagli olmi per ristorarlo dalla calura e sospingerlo a sognare ed il dio Pane (dio dei boschi e dei pastori) che, a quell’ora se ne va errando senza compagnia per i monti e le pianure, placherà l’insanabile contrasto dei suoi affanni nella divina serenità della natura. Ma il poeta non si può fermare, a Bologna lo aspetta la figlioletta, la Titì, piccola ancora e bisognosa di assistenza. Non si veste di piume come la passeretta a cui provvede madre natura, né si nutre di bacche di cipresso. A questo punto il poeta lancia una sassata polemica contro gli imitatori del Manzoni (quelli che in arte ed in politica si attenevano alle idee del Manzoni e principalmente accettavano le sue idee in fatto di lingua) che badano solo al guadagno e si accaparrano il maggior numero possibile di uffici e stipendi. Non essendo nel numero di costoro urge che il poeta si affretti ai suoi doveri di insegnante per provvedere ai bisogni della sua famiglia e lo fa con un saluto affettuoso e doloroso. I cipressi che hanno cercato di fermare il poeta con le lusinghe del paesaggio, cercano di fermarlo con il ricordo della nonna paterna tanto amata, Lucia Santini, morta nel 1843 e sepolta a Bolgheri. Al ricordo della nonna i “giganti giovinetti” si trasformano in un corteo funebre che si allontana mormorando. Dal dolce pendio per il verde viale dei cipressi ecco apparire al poeta alta e maestosa, vestita di nero, la nonna. Dalla sua bocca in mezzo ai bianchi capelli sgorgava la pura e schietta parlata toscana che molti non toscani imitano goffamente, con la malinconica e dolce inflessione della natia Versilia che è tanto cara al cuore del poeta. La lingua toscana, quando è parlata genuinamente, è nitida e soave come un antico componimento poetico (il sirventese era un antico metro poetico di origine provenzale che celebrava avvenimenti storici e poetici). Il poeta si rivolge al fantasma della nonna e vuole farsi raccontare, lui che con tutto il suo sapere non è riuscito a raggiungere, se non la felicità, almeno la tranquillità dell’animo, l’antica fiaba di “Amore e Psiche” (una fanciulla che aveva sposato un mostro ripugnante per volontà dei parenti, siccome viola il giuramento di non vederlo durante la notte quando riacquista il primitivo e bellissimo aspetto, viene abbandonata dal marito. Per ritrovarlo deve errare per il mondo per sette lunghi anni, consumare sette verghe di ferro per sorreggere i suo corpo stanco, colmare sette fiasche di lacrime… e quando finalmente ritrova lo sposo, questi è immerso in un profondo sonno, né a lei è possibile destarlo). Il Carducci modifica il finale del racconto originario che dice che lo sposo fuggiasco ritorna alla fanciulla commosso dai suoi sacrifici. Nella sorte della fanciulla abbandonata il poeta vede rispecchiata la propria sorte individuale di un uomo incapace di raggiungere gli ideali che si è proposto. Infatti continuando il discorso con la nonna dice che la favola non è soltanto bella, ma anche pena di amara verità. La felicità, la pace che ha cercato invano nei tanti anni è forse nella tranquillità del cimitero e della morte, sotto quel viale dove non soltanto spera, ma non pensa neppure più di fermarsi, ora che la vita lo ha ghermito con le sue necessità ed i suoi doveri. A questo punto la realtà lo riafferra, il treno corre ansimando affannosamente, mentre il poeta si sente triste e desolato. Una schiera di puledri, che in Maremma vivono liberamente nelle campagne, nitriscono, mettendosi a correre in gara con il treno, mentre un asino grigio continua con serietà e lentezza a mangiare il cardo dai fiori rosso turchino. La chiusura della poesia è simbolica: se il treno rappresenta il progresso o comunque la vita che va avanti ed i puledri sono l’immagine della giovinezza che insegue gioiosamente, ma vanamente, i sogni, la figura dell’asino può essere il simbolo degli uomini chiusi ad ogni ideale o anche della persona saggia che si accontenta delle cose che ha, senza lasciarsi distrarre dal chiasso e dai desideri inutili.


    Carducci Giosuè - Nevicata, analisi

    Nevicata

    Questa poesia, scritta nel 1889, rivela un Carducci un po' diverso da quello combattivo e vitale che la tradizione privilegiata: l'autore appare qui ripiegato su se stesso, in una meditazione sulla morte e sulla fugacità della vità, con una presenza quasi ossessiva della memoria dei cari defunti. A questo stato d'animo fa da sfondo la città coperta dalla neve.
    La lirica di Carducci costituisce un esempio di poesia ancora legata alla lingua e ai metri della tradizione, ma che tuttavia recepisce una sensibilità nuova e tenta una sperimentazione formale.

    Il testo

    Lenta fiocca la neve pe ‘l cielo cinereo: gridi,
    suoni di vita più non salgono da la città,

    non d’erbaiola il grido o corrente rumore di carro,
    non d’amor la canzon ilare e di gioventù.

    Da la torre di piazza roche per l’aere le ore
    gemon, come sospir d’un mondo lungi dal dì.

    Picchiano uccelli raminghi a’ vetri appannati: gli amici
    spiriti reduci son, guardano e chiamano a me.

    In breve, o cari, in breve – tu càlmati, indomito cuore –
    giù al silenzio verrò, ne l’ombra riposerò.

    Il significato

    Il poeta si trova nella propria casa a Bologna, forse nello studio. Fuori nevica, una nevicata continua e lenta che viene giù da un cielo color della cenere. La neve attutisce ogni rumore e dalla città non arrivano i suoni soliti della vita quotidiana: il grido della fruttivendola e il cigolìo dei carri che passano. Anche i rintocchi dell'orologio della torre sono smorzati dalla neve, così che sembrano sospiri provenienti da un altro mondo. L'attenzione viene quindi attirata da un rumore: gli uccelli che vanno errando alla ricerca di cibo e di un riparo picchiano al vetro e riscuotono il poeta dal torpore della meditazione; quel battere insistito è come un richiamo che le anime degli amici che non ci sono più fanno al poeta: il richiamo al destino di morte che lo attende e al quale il poeta, nonostante la vitalità del suo animo, si dice pronto.

    I temi

    Il tema centrale della lirica è quello del pensiero della morte, che caratterizza una parte dell'opera di Carducci; in molte sue liriche si trova la contrapposizione fra la vita e la morte, fra la luce e le tenebre, fra la vita e il sole da una parte e il freddo della morte e l'ombra dall'altra. In questo testo sembra predominare solo il pensiero della morte, che acquista la forma simbolica, per altro dichiarata dal poeta, degli uccelli che picchiano con il becco sul vetro. Si può rintracciare però ancora un eco della vita e della gioia che essa suscita in quel grido della fruttivendola, nel carro che corre e nell'accenno all'indomito cuore. Ma questi richiami sono come smorzati e attutiti dalla neve, dalla situazione di pesante tristezza che grava sulla città e sul poeta.
    E' significativo che la poesia si apra con l'immagine della neve che scende sullo sfondo di un cielo grigio e con l'idea del silenzio che si chiuda ancora con le parole silenzio e ombra, a definire il regno dei morti.

    Il metro, la lingua, lo stile

    La caratteristica principale di questo testo è rappresentata, dal punto di vista formale, dal tentativo sperimentale di riprodurre la metrica classica utilizzando i versi italiani. In ognuno dei versi più lunghi, quelli dispari, si rintraccia un settenario seguito da un novenario.
    In seguito, nel Novecento, non si cercherà più di rivitalizzare forme metriche della tradizione, ma ci si libererà da qualunque vincolo metrico; qui Carducci attua dunque a suo modo una sperimentazione che alla fine porterà alla dissoluzione delle forme metriche tradizionale, ma che con lui resta ancora all'interno delle norme.
    Rispetto alla poesia leopardiana si nota un uso del linguaggio poetico più legato alla tradizione: nell'uso delle anastrofe, nella scelta di alcuni termini. Tuttavia si fa strada la presenza del simbolo, costituito dal picchiare degli uccelli, che sarà una caratteristica della poesia dei simbolisti francesi e poi del Decadentismo.


    Analisi e commento


    La poesia che andiamo a analizzare, “Nevicata” di Giosué Carducci, presenta subito una particolarità. Infatti il metro utilizzato in questa poesia è l’imitazione di un ipotetico distico elegiaco latino. La frattura con i classici metri della poesia italiana è costituita dal fatto che in questo non ha importanza che i versi abbiano lo stesso numero di sillabe prima dell’ultimo accento tonico, ma è la disposizione degli accenti stessi che devono seguire uno schema stabilito. L’effetto di imitazione è ottenuto con un settenario seguito da un novenario, mentre il pentametro è reso da un settenario tronco seguito da un ottonario tronco. Singolare è il terzo distico che presenta nella prima parte dell’esametro un ottonario e nella prima parte del pentametro un ottonario tronco. Questo forse perché, a partire da quel punto, la poesia cambia strada tematica: dopo una prima metà in cui il poeta descriveva oggettivamente un paesaggio invernale, seppur incrociando questa descrizione con quella del suo stato d’animo, nella seconda parte egli adotta un punto di vista soggettivo e autobiografico. Questo spostamento da un punto di vista esterno a quello interno, è sottolineato, oltre che dal cambio ritmico dei versi 7-8, anche dalla presenza della parola-chiave “me”, sottolineata anche dalla preposizione semplice “a”, che non sarebbe richiesta dalle regole grammatiche e metriche. Altre parole-chiave servono al poeta per far capire qual è il significato di questa poesia. Subito al verso 1, notiamo la parola “cinereo”, sottolineata stavolta mediante la dieresi. In questa parola si nota una polisemia: accanto al significato letterale di grigio come colore del cielo, l’orecchio coglie, grazie alla somiglianza fonetica e etimologica tra le due parole, la presenza della cenere, che subito introduce il tema funebre, il principale della poesia e della intera produzione poetica di Carducci. Altra parola-chiave è il “non”, messo in risalto per mezzo dell’anafora, visto che è ripetuto tre volte nei versi 2-3-4, e ulteriormente sottolineato dal “più” del secondo verso. La poesia è il racconto di una giornata d’inverno, in cui la neve piano piano imbianca il paesaggio, seppellendo con la sua caduta i suoni di vita della città, i rumori dei carri che prima correvano sull’erba e le canzoni felici d’amore dei giovani. È come se un senso di morte, che vien fuori dalla presenza della cenere, simbolo appunto di fine della vita, cadesse lentamente sulla felicità e sulla vita degli uomini. Una metafora caratterizza il terzo distico: “le ore gemono”. Questa espressione, sottolineata dall’allitterazione (“per l’aere le ore”) e dall’enjambement (“le ore/ gemon”) mette in risalto la fugacità del tempo, simboleggiata attraverso il battito delle ore stesse. Il gemito con cui Carducci simboleggia il battito delle ore, unito con la similitudine del verso seguente in cui esso viene paragonato a un sospiro proveniente da un mondo diverso e lontano da quello che stiamo vivendo, il mondo della morte, accresce ulteriormente il senso di una morte che si avvicina, incombente e inesorabile. Come detto, dopo questa descrizione, data come oggettiva, la narrazione si sposta e si interiorizza. Degli uccelli ancora incapaci di volare picchiano sui vetri appannati dal freddo, come spiriti amici tornati per invitare il poeta a seguirli. Da sottolineare la quasi totale assenza di felicità che vien fuori da questo mondo: gli spiriti antichi sono come uccelli morti ancor prima di imparare a volare, perché se n’erano andati dal nido, illusi di poter librarsi nel cielo ed essere così felici, ma che invece si trovano a picchiare alle finestre, cercando qualcuno da portar con sé nel buio e lontano mondo della morte. Per quanto riguarda il poeta, egli, dice nell’ultimo distico, è pronto a seguirli e supplica il suo cuore che non vuole arrendersi, di calmarsi, poiché lui adesso vorrebbe solo poter seguire quegli spiriti, venuti a chiamarlo. Da evidenziare, la ripetizione di “in breve”, due volte in un solo verso, a simboleggiare ancora la fugacità del tempo e, con esso, anche della vita stessa. Dopo una forte cesura, in cui il poeta si rivolge al suo cuore, a sottolineare ancora la soggettività di questa seconda parte della poesia, implorandolo di arrendersi a un’evidenza in cui l’idea di morte del corpo e insieme della felicità dell’uomo è più forte della volontà dell’uomo stesso, accettando cioè di seguire gli spiriti che sono venuti a prenderlo, il poeta esplicita questa sua speranza con l’uso della prima persona singolare all’ultimo verso, sottolineato anche dalla rima interna "verrò/riposerò”. Da notare anche l’evoluzione del significato del silenzio nella poesia: se all’inizio esso è accennato come fine posto dalla morte ai rumori del mondo quotidiano, alla fine esso è paragonato a un senso di quiete che l’uomo in questa vita non ha e che fa di tutto per ottenerlo nell’ombra della morte. Infine, da notare che il tema funebre, attorno a cui ruota questa poesia, è il principale tema delle poesie di Carducci e che il poeta ha composto questi distici tra il gennaio e il marzo 1881, periodo nel quale è morta la ragazza che lui amava, Carolina Piva, cantata da lui col nome di Lidia, e in cui si riscontra perciò un approfondimento e una maggiore presenza del tema funebre nelle sue poesie. Se, come ha notato il Benni, consideriamo quest’aspetto della poesia di Carducci, il tema di morte, notiamo la sua modernità e ne possiamo considerare questo componimento uno dei più alti esempi della poetica carducciana.



    Analisi e commento di testo letterario in poesia

    Carducci compose questa poesia tra il gennaio e il marzo del 1881, mesi che coincidono con la morte di Lidia.
    La poesia, composta da cinque strofe di due versi ciascuna, può essere suddivisa in due parti. La prima (vv.1-6) è di carattere oggettivo e descrive il paesaggio che circonda il poeta e che lo accompagnerà nella riflessione di carattere soggettivo e autobiografico nella seconda parte della poesia (vv.7-10). Le parole utilizzate da Carducci fanno trasparire il suo stato d’animo e anticipano il tema principale delle ultime due strofe. La neve cade lenta sulla città priva di ogni suono e il cielo è cinereo; quest’ultima parola richiama fortemente la morte di cui la cenere è il simbolo. Il silenzio viene rappresentato in diversi modi ma pronunciato una sola volta al termine della poesia; inizialmente viene presentato come una negazione di suoni, le grida non si sentono più, manca il rumore del carro e non si sentono più canzoni d’amore, poi improvvisamente diviene un profondo sospiro che rende l’atmosfera ancor più pesante ed infine viene paragonato al mondo delle tenebre L’anafora del “non” sembra voler negare la vita per dar spazio alla morte, tema sempre presente in Carducci. La città descritta è dunque caratterizzata da un intensa atmosfera funebre in diretto contrasto con il v.4 che declama la felice gioventù. L’immagine delle ore che gemono sembra nascondere il rimpianto per il tempo che scorre e che porta velocemente il poeta alla morte. Il picchiettio degli uccelli alle finestre dai vetri appannati, immerso in questo triste scenario, ricorda il richiamo degli spiriti degli amici defunti. Questa immagine e l’utilizzo del pronome “me” enfatizzato dalla preposizione “a” segna il passaggio al momento autobiografico della poesia. Il poeta ora parla della propria persona e annuncia che presto raggiungerà gli spiriti che lo hanno chiamato. Tali parole sono condotte dalla consapevolezza di essere ormai giunto alla fine della propria vita e dalla recente morte di Carolina Piva, una delle sue amanti.
    Il poeta per comunicare meglio le immagini e le sensazioni che esse suscitano utilizza diverse figure retoriche. Ad esempio per sottolineare la mancanza di suoni pone un enjambement tra i vv.1-2 e un chiasmo nel v.3; cerca di far emergere la parola cinereo attraverso un allitterazione e rende ancor più angosciosa l’attesa della morte attraverso la ripetizione al v.9.
     
    Top
    .
8 replies since 13/3/2011, 11:35   44170 views
  Share  
.