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Parafrasi de “Il passero solitario” di Giacomo Leopardi
Dalla cima dell’antico campanile, O passero solitario, vai cinguettando verso i campi finché non si fa sera e il suono melodioso si diffonde in questa valle. Si sente tutto intorno la primavera e si diffonde in tutta la sua pienezza per i campi così che a guardare commuove il cuore degli uomini. Si sentono le pecore belare e le mucche muggire, gli altri uccelli volano lieti nel cielo gareggiando tra loro, inneggiando la gioventù e la primavera, tu O passero riflessivo, guardi tutto lontano dagli altri, non stai con gli altri passeri, non voli, non ti importa di divertirti, eviti i divertimenti; canti, e così trascorri la primavera e la giovinezza.
Povero me, come ti assomiglio! Non mi preoccupo del divertimento e delle risate che caratterizzano la gioventù, di innamorarmi, doloroso rimpianto dei giorni della vecchiaia. Non so perché mi comporto così, anzi scappo lontano da loro, quasi isolato ed estraneo, al mio paese natale, trascorro la giovinezza della vita. È consuetudine festeggiare questa giornata che sta ormai finendo al nostro paese. Si sentono nel cielo il suono delle campane e si sentono spesso i colpi dei fucili che rimbombano lontano. La gioventù del paese col bel vestito lascia le case e si riversa per le strade ed è ammirata dai compagni. Io, da solo andando in questo luogo isolato della campagna, rimando ogni divertimento in un altro momento e intanto il sole che tramonta luminoso, e sembra dire che la giovinezza finisce.
A un vincitore nel pallone
Di gloria il viso e la gioconda voce Garzon bennato, apprendi, E quanto al femminile ozio sovrasti La sudata virtude. Attendi attendi, Magnanimo campion (s'alla veloce Piena degli anni il tuo valor contrasti La spoglia di tuo nome), attendi e il core Movi ad alto desio. Te l'echeggiante Arena e il circo, e te fremendo appella Ai fatti illustri il popolar favore; Te rigoglioso dell'età novella Oggi la patria cara Gli antichi esempi a rinnovar prepara. Del barbarico sangue in Maratona Non colorò la destra Quei che gli atleti ignudi e il campo eleo, Che stupido mirò l'ardua palestra, Nè la palma beata e la corona D'emula brama il punse. E nell'Alfeo Forse le chiome polverose e i fianchi Delle cavalle vincitrici asterse Tal che le greche insegne e il greco acciaro Guidò de' Medi fuggitivi e stanchi Nelle pallide torme; onde sonaro Di sconsolato grido L'alto sen dell'Eufrate e il servo lido. Vano dirai quel che disserra e scote Della virtù nativa Le riposte faville? e che del fioco Spirto vital negli egri petti avviva II caduco fervor? Le meste rote Da poi che Febo instiga, altro che gioco Son l'opre de' mortali? ed è men vano Della menzogna il vero? A noi di lieti Inganni e di felici ombre soccorse Natura stessa: e là dove l'insano Costume ai forti errori esca non porse, Negli ozi oscuri e nudi Mutò la gente i gloriosi studi. Tempo forse verrà ch'alle ruine Delle italiche moli Insultino gli armenti, e che l'aratro Sentano i sette colli; e pochi Soli Forse fien volti, e le città latine Abiterà la cauta volpe, e l'atro Bosco mormorerà fra le alte mura; Se la funesta delle patrie cose Obblivion dalle perverse menti Non isgombrano i fati, e la matura Clade non torce dalle abbiette genti Il ciel fatto cortese Dal rimembrar delle passate imprese. Alla patria infelice, o buon garzone, Sopravviver ti doglia. Chiaro per lei stato saresti allora Che del serto fulgea, di ch'ella è spoglia, Nostra colpa e fatal. Passò stagione; Che nullo di tal madre oggi s'onora: Ma per te stesso al polo ergi la mente. Nostra vita a che val? solo a spregiarla: Beata allor che ne' perigli avvolta, Se stessa obblia, nè delle putri e lente Ore il danno misura e il flutto ascolta Beata allor che il piede Spinto al varco leteo, più grata riede.
PARAFRASI
Il poeta, dunque, incitava il giovane sportivo a conoscere il volto della gloria e la sua “gioconda voce”, auspicando che fosse duratura; quella stessa gloria che egli stesso aveva sempre cercato e amato; una gloria che, una volta conquistata, fosse mantenuta anche presso i posteri, così come gli antichi che non si accontentavano di “un effetto piccolo e passeggero l’immaginazione spinge sempre verso quello che non cade sotto i sensi. Quindi verso il futuro e la posterità, perocché il presente è limitato e non può contentarla; è misero ed arido, ed ella si pasce di speranza, e vive promettendo sempre a se stessa. Ma il futuro p una immaginazione gagliardissima non debbe aver limiti; altrimenti non la soddisfa. Dunque ella guarda e tira verso l’eternità”.
Ed è forse “ men vano/della menzogna il vero?” Forse che le opere dell’uomo sono più “serie” di un gioco? Non è forse vero che esercizi e giochi che erano utili agli antichi per mantenere vigoroso il corpo, servivano soprattutto a “mantenere il vigor dell’animo, il coraggio, le illusioni, l’entusiasmo che non saranno mai in un corpo debole”?
Questa Canzone ci potrebbe offrire diversi spunti per un’attualizzazione efficace in questo nostro tempo che vede scomparsi, non solo ogni illusione, ma addirittura ogni valore dall’orizzonte dell’esistenza; un periodo storico, il nostro, che alcuni chiamano “di transizione” , altri “di decadenza” in cui, secondo la visione leopardiana, ci si lascia “esistere” senza pretendere di “vivere”…
Ancora potremmo affermare che la fatica del corpo può ammortizzare i mali dell’anima? Ci pare sia, in primis, doveroso fare una distinzione tra la fatica derivante dallo svolgere un qualche lavoro manuale e quella che segue un’attività sportiva. Una successiva diversificazione andrebbe fatta guardando alle motivazioni interiori che spingono un uomo a dedicarsi a quest’ultima. Infine dovremmo guardare alla modalità con la quale uno sport viene praticato.
Per Leopardi, autore di una “teoria del piacere”, “lo spettacolo della vita occupata, laboriosa e domestica, sembr lo spettacolo della felicità” e i “piccoli fini della giornata” che consistono nel provvedere ai propri bisogni quotidiani, fanno sì che l’uomo si senta riempito da quei piccoli progetti e non soffra di quel male oscuro che tormenta l’uomo di pensiero. Noi potremmo interpretare questa riflessione come un apprezzamento di quel lavoro manuale che, al tempo di Leopardi, era rappresentato da tutto quel piccolo e fattivo mondo rurale recanatese e che, oggi, viene, per così dire, “usato” come terapia per sanare deviazioni derivanti da uso di droghe e di alcool da parte di tanti giovani che, stanchi di “esistere”, ad essi si abbandonano. E certamente risulta ancora valido ciò che pensava Giacomo e cioè che “a voler vivere tranquillo, bisogna esser occupato esteriormente”. Il lavoro manuale che consente di non logorare il corpo con il pensiero è oggi diventato il miglior rimedio per tanti giovani malati nell’anima prima che nel corpo.
Il giovane Leopardi, che dava un immenso valore alla vitalità, riconosceva come nei moderni fosse assai minore quella “vita” che invece spronava gli antichi a grandi imprese. E Carlo Didimi, campione sportivo contemporaneo, anch’esso impegnato in grandi imprese, sia pure sportive, era veramente colui che faceva rivivere, ai suoi occhi, quella carica che animava giovani greci.(1)
E’ ancora il Leopardi che crede nelle antiche virtù, quando ancora la ragione non aveva corrotto lo stato naturale e l’educazione fisica avevano una loro dignità non ancora umiliata dalla rinuncia agli aspetti fisici della vita.
Accanto al motivo ludico e sportivo appare nella canzone quello patriottico. Non per niente essa fu composta subito dopo a “Nelle nozze della sorella Paolina”, con la quale ha in comune “una spinta più volitiva, nel raccordo anche con l’attualità, nel tema della patria decaduta e quindi nel contrasto tra l’esemplarità del passato greco-romano e la decadenza di un’epoca corrotta dall’eccesso della ragione”.
Leopardi indica al giovane atleta i suoi doveri nell’abbozzo intitolato “Ad un vincitore nel pallone”. Egli deve abituarsi a cose grandi, deve coltivare l’entusiasmo, apprezzare come la vita operosa e gloriosa sia ben altro che quella inerte ed oscura, com’è dolce il sapore della gloria, com’è amabile la gloria della patria. Così usavano i Greci nei loro giochi. La vita è miseria ed è bello gettarla via, spregiarla per il bene altrui e della patria.
“Aggiungo poi questo ancora. Nego che la mortalità negli stati antichi fosse maggiore altro che in apparenza. Lascio i tiranni, lascio i capricci, le passioni, le voglie de’ principi, e non cerco se queste costino alla umanità più sangue, che non i disordini e le turbolenze di un popolo libero. Dico che la vitalità negli stati antichi era tanto maggiore che nei presenti, non solo da compensare abbondantemente ogni cagione o principio di mortalità, ma da preponderare, e far pendere la bilancia dalla parte della vita: brevemente, dico che la somma della vita negli stati antichi era maggiore che nei presenti; e questo non già per cause accidentali, o in maniera che potesse non essere: ma per cause essenziali, e inerenti alla natura di quegli stati; anzi tali, che tolti quegli stati, o simili a quelli, la somma della vita non può essere se non molto minore; la vitalità fuori di quelli o simili stati, non può esser tanta.
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