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Alla primavera o delle favole antiche G. Leopardi, Parafrasi
alla primavera o delle favole antiche g.leopardi!!!! te ne sarò grata a vita...
Perché i celesti danni Ristori il sole, e perché l'aure inferme Zefiro avvivi, onde fugata e sparta Delle nubi la grave ombra s'avvalla; 5Credano il petto inerme Gli augelli al vento, e la diurna luce Novo d'amor desio, nova speranza Ne' penetrati boschi e fra le sciolte Pruine induca alle commosse belve; 10Forse alle stanche e nel dolor sepolte Umane menti riede La bella età, cui la sciagura e l'atra Face del ver consunse Innanzi tempo? Ottenebrati e spenti 15Di febo i raggi al misero non sono In sempiterno? ed anco, Primavera odorata, inspiri e tenti Questo gelido cor, questo ch'amara Nel fior degli anni suoi vecchiezza impara?
20Vivi tu, vivi, o santa Natura? vivi e il dissueto orecchio Della materna voce il suono accoglie? Già di candide ninfe i rivi albergo, Placido albergo e specchio 25Furo i liquidi fonti. Arcane danze D'immortal piede i ruinosi gioghi Scossero e l'ardue selve (oggi romito Nido de' venti): e il pastorel ch'all'ombre Meridiane incerte ed al fiorito 30Margo adducea de' fiumi Le sitibonde agnelle, arguto carme Sonar d'agresti Pani Udì lungo le ripe; e tremar l'onda Vide, e stupì, che non palese al guardo 35La faretrata Diva Scendea ne' caldi flutti, e dall'immonda Polve tergea della sanguigna caccia Il niveo lato e le verginee braccia.
Vissero i fiori e l'erbe, 40Vissero i boschi un dì. Conscie le molli Aure, le nubi e la titania lampa Fur dell'umana gente, allor che ignuda Te per le piagge e i colli, Ciprigna luce, alla deserta notte 45Con gli occhi intenti il viator seguendo, Te compagna alla via, te de' mortali Pensosa immaginò. Che se gl'impuri Cittadini consorzi e le fatali Ire fuggendo e l'onte, 50Gl'ispidi tronchi al petto altri nell'ime Selve remoto accolse, Viva fiamma agitar l'esangui vene, Spirar le foglie, e palpitar segreta Nel doloroso amplesso 55Dafne o la mesta Filli, o di Climene Pianger credè la sconsolata prole Quel che sommerse in Eridano il sole.
Né dell'umano affanno, Rigide balze, i luttuosi accenti 60Voi negletti ferìr mentre le vostre Paurose latebre Eco solinga, Non vano error de' venti, Ma di ninfa abitò misero spirto, Cui grave amor, cui duro fato escluse 65Delle tenere membra. Ella per grotte, Per nudi scogli e desolati alberghi, Le non ignote ambasce e l'alte e rotte Nostre querele al curvo Etra insegnava. E te d'umani eventi 70Disse la fama esperto, Musico augel che tra chiomato bosco Or vieni il rinascente anno cantando, E lamentar nell'alto Ozio de' campi, all'aer muto e fosco, 75Antichi danni e scellerato scorno, E d'ira e di pietà pallido il giorno.
Ma non cognato al nostro Il gener tuo; quelle tue varie note Dolor non forma, e te di colpa ignudo, 80Men caro assai la bruna valle asconde. Ahi ahi, poscia che vote Son le stanze d'Olimpo, e cieco il tuono Per l'atre nubi e le montagne errando, Gl'iniqui petti e gl'innocenti a paro 85In freddo orror dissolve; e poi ch'estrano Il suol nativo, e di sua prole ignaro Le meste anime educa; Tu le cure infelici e i fati indegni Tu de' mortali ascolta, 90Vaga natura, e la favilla antica Rendi allo spirto mio; se tu pur vivi, E se de' nostri affanni Cosa veruna in ciel, se nell'aprica Terra s'alberga o nell'equoreo seno, 95Pietosa no, ma spettatrice almeno.
Composta all'inizio del 1822, la canzone, che segue il modello petrarchesco, è composta di cinque strofe, ognuna di 19 versi. In essa, il poeta esprime la sua convinzione che, mentre si rinnova ogni anno la primavera nella natura, non è possibile per il genere umano ritrovare quell'epoca - l'antichità, primavera della storia - in cui esso godeva di un'immaginazione fervida e poteva così cogliere segni di vita e presenze misteriose e divine in ogni aspetto naturale. Lo sviluppo della civiltà ha portato la conoscenza del vero e la perdita di quella facoltà immaginativa.
La poesia si chiude con una supplica alla natura perché ascolti l'infelicità degli uomini, se non pietosa almeno spettatrice; ma qualche verso prima un inciso (v. 91 "se tu pur vivi") rivela come ormai Leopardi non nutra più alcuna illusione.
Parafrasi "A Silvia", di Giacomo Leopardi
Silvia, ricordi ancora quando eri in vita
Quando la tua bellezza splendeva, nei tuoi occhi ridenti e schivi,
e tu lieta e pensierosa ti apprestavi al passaggio dall’adolescenza alla maturità.
Suonavano le stanze tranquille e le strade al tuo continuo canto,
quando tu eri intenta ai lavori femminili, sedevi contenta per il tuo avvenire ancora da definire.
Era Maggio e tu eri abituata a lavorare.
Talvolta lasciavo gli studi piacevoli e quelli faticosi su cui trascorrevo la mia adolescenza e veniva spesa la migliore parte di me.
Dalle stanze e dai balconi della casa paterna io ascoltavo la tua voce. E ti immaginavo lavorare con fatica alla tela.
Guardavo il cielo sereno, le vie illuminate, e la campagna intorno,
Da questa parte il mare e dall’altra parte le colline.
Non ci sono parole giuste per esprimere i sentimenti che provavo nel mio cuore.
Che bei pensieri,
che speranze, che cuori, o Silvia mia!
Come ci sembrava allora la vita umana e il destino!
Quando mi ricordo di tanta speranza
Un sentimento molto forte mi opprime e torno a dolermi della mia sfortuna.
O natura, o natura, perché non mantieni le tue promesse? Perché ci inganni?
Prima che giungesse l’inverno, venivi uccisa da un dolore forte e morivi o tenerella, e non vedevi la tua adolescenza.
Non ti struggeva il cuore, le lodi dei ragazzi per i tuoi capelli neri ora dei tuoi sguardi innamorati e schivi.
E con te le tue amiche non parleranno d’amore durante i giorni di festa.
Anche la mia speranza morì poco tempo dopo: anche a me il destino ha negato la giovinezza. Ahi come sei passata cara compagna della mia infanzia, mia compianta speranza!
Questo è quel mondo? Sono questi i divertimenti, l’amore, le opere, gli eventi di cui abbiamo tanto discusso insieme?
E’ questa la sorte degli esseri umani? All’apparire della verità tu moristi: e con la mano indicavi da lontano la fredda morte ed una tomba spoglia.
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