Claudio Baglioni Forum - Un mondo in musica

Il Pedriatra ..Risponde...

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    BEBÈ: ISTRUZIONI PER L'USO

    neonati-bimbi

    Spesso, quando si decide di avere il primo bambino, non si è del tutto preparati a quello che si dovrà affrontare in seguito alla sua nascita.
    Chi pensa che mettere al mondo un bambino sia la cosa più naturale del mondo, si sbaglia.
    Svolgendo parte del mio volontariato nell'ambulatorio neo-natologico dell'ospedale della mia città, mi sono resa conto che il periodo che segue alla nascita del proprio figlio è uno dei momenti più difficili della vita, tanto per i genitori che per il bambino.
    Purtroppo i neonati non nascono con il manuale per l'uso allegato ( anche se non sarebbe male, come idea, fare dei corsi post-parto e spiegare qualcosa di più ai neo-genitori su come accudire quell'esserino che gli viene messo tra le braccia ed affidato per il resto della sua vita

    istruzioni

    Spesso vengono mamme che non sanno nemmeno quale sia il modo migliori per allattarli e finiscono per tenere, il pargolo, attaccato al seno per diverse ore ( avendo completamente la vita stravolta dal compito di nutrili).
    Il brutto è che, talvolta, ci sono dei pediatri che non gli facilitano nemmeno il compito.
    Ci sono alcuni di loro che dicono che i neonati vadano allattati a richiesta ( cosa secondo me sbagliatissima, perché un neonato può piangere per diversi motivi e non può certo protestare e dire che ha fame...sarebbe una cosa un tantino contro natura e altrettanto sbagliato sarebbe attaccarlo al seno ogni volta che si mostra un po' irrequieto), ed altri che sono per l'allattamento ad ore, allattandolo nell'intervallo di 3 ore e non tenendolo al seno per più di 15 minuti ( in fondo se un neonato a fame non ci mette molto a succhiare il latte di cui ha bisogno ed è anche il metodo migliore per la madre che non vede completamente, stravolto, il suo tempo per allattare il bambino).
    Oltre all'allattamento, ci sono tanti altri dubbi che dovrebbero essere chiariti a chi si trova a crescere un neonato.
    Addirittura, ieri, c'era una mamma che voleva portare il suo bambino di, nemmeno 15 giorni, già in aereo ed un altra mamma che, invece, desiderava portarlo al mare, sotto il sole cocente, al che la pediatra gli ha rivolto un occhiata torva, facendo capire ad entrambe che bambini così piccoli devono ancora adattarsi all'ambiente che lì circonda e non possono subire stravizi.
    Chissà, se quando capiterà il mio turno di diventare mamma sarò altrettanto impreparata, oppure se questa esperienza che sto facendo, in qualche modo, potrà aiutarmi.
    Già..chissà quando questo avverrà....per ora mi godo la mia vita di single..poi si vedrà...

    orig7

    da un pediatra del web

     
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    Il pediatra: “Sì al telefonino nello zainetto della scuola materna”

    bimbi-e-cell1



    Tovaglietta, maglietta, mutandina, pantalone, ciabatte e telefonino.
    Secondo Italo Farnetani, pediatra e docente a contratto dell’Università di Milano-Bicocca, sono queste le cose che si dovrebbero mettere nello zainetto di ogni bimbo che si appresta a cominciare la sua avventura alla scuola materna.
    Avete letto bene: anche il telefonino!
    “Se già intorno a 5 anni non mancano i bambini dotati di telefonino, io dico di metterlo nello zainetto dei piccoli già a 3 anni. In questo modo porteranno con loro un pezzo di casa, e sapranno di poter parlare con la mamma per sentirsi più sicuri, magari con l’aiuto della maestra”.

    “Non dico che debbano usare continuamente il telefonino, ma sapere che in caso di bisogno possono parlare con i genitori. D’altra parte – dice il pediatria – un tempo si metteva il numero dell’ufficio di mamma o papà in tasca del bimbo, per tranquillizzarlo i primi giorni di scuola. Insomma, per una volta il dispositivo può essere davvero utile per far sentire una certa continuità con la casa e la famiglia”. Un parere che lascerà perplesso qualcuno, ma di cui Farnetani si dice ben convinto.

    “A volte le mamme sono più ansiose dei figli il primo giorno di scuola. E il fatto di mandare il bimbo alla materna – riflette – può essere vissuto con senso di colpa o come una mancanza da una genitrice che lavora. Ebbene, non è il caso: a 3 anni il bambino ha bisogno di socializzare con i coetanei, e dunque è un bene che inizi la scuola. Anzi, sono convinto che la frequenza dovrebbe diventare obbligatoria proprio da questa età. Il telefonino nello zainetto – aggiunge – tranquillizzerà anche le mamme più in ansia”.

    E ancora, secondo il pediatra, è sbagliato impedire ai bambini – come accade in molte scuole – di portare la merenda da casa. “In realtà avere nello zaino una merenda preparata da mamma o nonna, comperata insieme, o una merendina scelta dal bambino stesso, ha una valenza affettiva, e non solo nutrizionale, importante”.

    Ma quanto impiegano i piccoli ‘debuttanti’ ad abituarsi alla novità? “E’ difficile che un bambino accetti la cosa fin dal primo giorno, più facile che inizi a tranquillizzarsi dopo una o due settimane. Ma se i problemi si protraggono oltre un mese vuol dire che ha bisogno di un aiuto. Il fatto di avere dei genitori che vivono il passaggio alla materna con ansia, o che non sono d’accordo fra l’oro su questa scelta, contribuirà a rendere il passaggio più difficile per il bambino. Dunque è importante sapere che, in questo modo – conclude – si fa solo il suo bene e si risponde a una sua precisa esigenza”.

    Non so cosa ne pensate voi, ma questa volte le parole del pediatra Farnetani mi trovano in assoluto disaccordo, almeno nella parte in cui parla del telefonino.
    Io sono assolutamente per il no al cellulare a scuola. No alle elementari, no alle medie, figuriamoci alla materna!
    Il bambino ha bisogno di portare con sé un pezzo del suo mondo?
    Benissimo, nello zaino andrà il suo peluche o gioco preferito! Da tenere nei primi momenti di inserimento in classe e poi da riporre nell’armadietto.
    Tanti anni fa si metteva il numero di telefono dei genitori?
    Lo si fa anche adesso.
    Tutte le maestre hanno i numeri delle mamme e dei papà da utilizzare per eventuali emergenze.

    Quindi, se queste sono le ragioni fornite dal pediatra per dotare i bambini di cellular… Beh, io rimango fermamente convinta che è meglio di no!
     
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    Bye bye ciuccio.

    Così come nessuna sposa è arrivata all'altare con il suo bell'abitino bianco e col ciuccio in bocca, altrettanto non c'è bambino che non abbia storto il naso nel momento di eliminarlo..

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    In realtà, di fronte a certe reazioni, il termine "storcere il naso" può essere un eufemismo quanto definire uno tsunami un venticello un po' più forte. Del resto come non comprendere il disappunto (altra circonlocuzione) di chi viene privato, di punto in bianco, di un oggetto considerato a tutti gli effetti una propria appendice naturale? Di fatto, con quel ciuccio, ha passato ore e ore, finendo per convincersi che quella cosina morbida sarebbe stata al suo fianco (nella sua boccuccia, per meglio dire) per sempre. Cosa salta pertanto in mente a papà e mamma, che nella loro immensa saggezza e bontà gliel'avevano donato, di portarglielo via privandolo di un bene tanto grande e importante? Erano dunque cattivi? O piuttosto era stato in qualche modo (ma quale) cattivo lui?
    Della serie "i suoi pensieri non sono i nostri pensieri", ecco il paradigma del rischio che corriamo ogni volta che ci interfacciamo con il nostro bambino senza tenere presente che nella sua meravigliosa testolina in formazione vi è un modo ben diverso dal nostro di leggere la realtà, molto più primordiale e pertanto molto meno sofisticata. Per il nostro bambino non esiste nessun concetto elaborato quanto "la suzione del ciuccio prolungata oltre il compimento del secondo anno di età può portare ad un'alterazione dello sviluppo del palato", ma solo l'evidenza che qualcuno gli stia portando via qualcosa di estremamente piacevole, rasserenante e consolante.
    Usa pure, pertanto, la forma ritenuta più opportuna per disabituarlo al ciuccio, solo rassicurati che:
    il bimbo sia preparato a sufficienza ad abbandonare l'amico fidato;
    il metodo scelto sia proprio quello giusto per lui;
    si scelgano formule che lo distraggano dalla perdita ma non che diano l'idea della compravendita;
    nel caso fosse necessario, sappi sopperire alla perdita subita con una maggiore disponibilità alla richiesta di presenza, perché anche in quel momento sia inequivocabile il messaggio che gli vuoi dare: "io ci sono, io ti amo, io mi prendo cura di te".

     
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    i bambini usano troppo il computer

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    I bambini di oggi usano troppo il computer – Alle elementari sanno già navigare in internet, circa un 16%, mentre un 25% sa già usare un browser e il 19% dei bambini sa già come far funzionare uno smartphone o un tablet.I bambini di oggi sono sempre più tecnologici e da uno studio condotto da un’azienda specializzata in sicurezza informata, sappiamo che il loro rapporto con la tecnologia è davvero cambiato.Giocano, accedono ai contenuti multimediali, interagiscono e comunicano attraverso dei dispositivi digitali con la stessa naturalezza con cui le generazioni precedenti utilizzavano libri, scrittura e giochi tradizionali, ma con tutto questo non si rischia di invertire le tappe della crescita secondo voi?Le prime cose da fare è evitare che il computer e i tablet siano l’unica fonte di gioco per i bambini, vietare uso di computer e dispositivi elettronici, come fossero una baby sitter e allo stesso tempo anche internet, controllando e navigando assieme a loro e alternare questo genere di attività con un’attività fisica.Una passeggiata coi nonni o una partita a calcio, preferite fargli incontrare gli amici veri, quelli della scuola e dei giardinetti con cui giocare nel mondo reale.

     
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    Bebè al nido: due esperte rispondono a tutti i vostri dubbi!

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    Quando si decide di iscrivere il proprio bebè a un asilo nido, i dubbi e gli interrogativi sono sempre numerosi. A cominciare dalla scelta della struttura a cui affidare il proprio piccino.

    E una volta iniziato l'inserimento, come gestire il distacco? Quali accorgimenti possono aiutare il bambino in questa fase delicata? E ancora, come capire se si trova bene al nido? Per offrire una risposta a tutte queste domande, Io e il mio bambino inaugura un nuovo servizio di consulenza. Per ogni quesito relativo all'"universo nido", rispondono Valentina Abati e Patrizia Conti Nibali, educatrici di asilo nido, laureate in Scienze della Formazione. E ora, ve le presentiamo!

    Valentina e Patrizia, grazie alla vostra professione siete sempre a contatto con genitori e bimbi. Quali sono i dubbi più comuni di mamma e papà quando iscrivono i loro piccini al nido?

    Valentina e Patrizia: I dubbi sono davvero tanti ma possiamo evidenziare i due più ricorrenti. Il primo riguarda i bambini nella fascia d'età 24-36 mesi: i genitori si chiedono se inserirli al nido per un anno per poi affrontare un altro inserimento alla materna, non crei "spaesamento" nei confronti del nuovo ambiente. L'altro riguarda tutti i genitori che, per necessità lavorative, devono inserire al nido i figli nella fascia 0-12 mesi e temono che tale inserimento sia 'prematuro'.

    Quali sono, per la vostra esperienza e per la vostra conoscenza dello sviluppo psico-fisico del bambino in età prescolare, i limiti e le potenzialità degli asili nido?

    Valentina: Credo che la potenzialità di un buon nido risieda nell'avere una struttura idonea a questa fascia di età (ambienti sicuri e igienici a misura di bambino) e nella strutturazione degli spazi interni (come l'angolino della casa per lo sviluppo del gioco simbolico, l'angolino morbido per lo sviluppo della psicomotricità, l'angolo dei travestimenti per lo sviluppo "dell'identità", ecc.). Laddove mancano queste potenzialità troviamo un ambiente limitante per lo sviluppo psico-fisico del bambino.

    Patrizia: Come educatrice credo che i nidi abbiano soprattutto grandi potenzialità: mi riferisco ad asempio alla possibilità di "vivere un gruppo" socializzando con i pari e di acquisire le prime regole dello stare insieme. I limiti che si possono riscontrare riguardano l'aspetto strutturale di un asilo: la collaborazione e la cooperazione dell'equipe degli educatori deve essere un elemento centrale. Bisogna garantire una continuità educativa, escludendo quindi continui turn-over del personale, e un buon rapporto numerico tra educatore e bambini.

    Voi sostenete che ogni genitore ha in sé importanti risorse che gli permettono di crescere al meglio il proprio piccino. Cosa significa?

    Valentina: Nella prima infanzia (0-36 mesi), così come al nido, è necessario rispettare la soggettività del bambino, i suoi tempi e la sua sensibilità, questo sia nella quotidianità che nella fase iniziale dell'inserimento che avviene all'asilo. Cogliere questi aspetti nel proprio figlio significa investire positivamente sul suo futuro.

    Patrizia: "Genitori non si nasce, ma si diventa"... può sembrare un luogo comune ma è la realtà! La vera risorsa per un genitore proviene dall'ascolto empatico nei confronti del proprio figlio e tutte le risposte che un genitore cerca sono quasi sempre presenti nel rapporto col proprio bambino. 'Mettersi in ascolto' diventa indispensabile per crescere un individuo consapevole e capace di esprimere le proprie potenzialità.

    Se stai pensando di affidare il tuo bebè al nido e ti chiedi come valutare le possibili strutture, se sei alle prese con un inserimento difficile o desideri qualche dritta per affrontare al meglio questo primo distacco, o ancora, se il tuo bimbo non sembra felice di frequentare il nido e non sai come aiutarlo.

     
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    Cosa dicono i disegni dei piccoli

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    Presenta un foglio bianco e qualche matita colorata a un bambino e subito lo vedrai mettersi all’opera: disegnare, per i piccoli, è un’attività spontanea, un modo per esprimere i propri sentimenti e manifestare la propria personalità.
    Ecco perché è importante sapere interpretare le sue “opere”.


    Dai 16 mesi, il bambino riesce a impugnare una matita e a tracciare un segno in modo inconsapevole.
    Verso i 2 anni inizia a indirizzare la mano dove vuole e a tracciare i primi segni con uno o più colori. Tipico di quest’età è lo scarabocchio circolare, che esprime espansione.
    Se il tuo bambino disegna figure tonde, probabilmente ha una natura socievole e allegra; l’angolo, invece, è una forma che esprime tensione, irrequietezza, sensibilità

    Dopo i 2 anni lo scarabocchio inizia a diventare un disegno. E, in genere, la prima figura rappresentata è quella umana: significa che il bambino inizia a percepire se stesso nel mondo. All’inizio è solo un accenno, di solito un cerchio, proprio perché in questa fase la percezione che ha di sé è di essere prevalentemente una “testa”, alla quale vengono aggiunti gli occhi. È quindi del tutto normale che la persona raffigurata non abbia corpo, braccia e gambe.

    Verso i 3-4 anni cominciano a comparire gli arti, linee tutte uguali, direttamente attaccate alla testa (il tronco, invece, viene disegnato di norma dopo i 4 anni).
    Il modo in cui un bambino disegna un volto è molto importante: una faccia senza occhi né bocca può segnalare qualche difficoltà a comunicare con gli altri. Anche l’espressione è fondamentale, perché rispecchia lo stato d’animo di chi la disegna. Così come sono indicative le gambe: se molto lunghe e sottili, denotano il desiderio del bambino di esplorare il mondo che lo circonda.
    Se con i suoi scarabocchi riempie tutto il foglio, probabilmente è un bambino vitale, estroverso; al contrario, uno spazio scarsamente riempito, per esempio un disegno spostato verso l’angolo, può indicare un bambino insicuro, che si sente un po’ a disagio con gli altri. Occupare solo la parte bassa del foglio è naturale nei più piccoli. Se, invece, la tendenza è quella di riempire la parte alta, potremmo essere di fronte a un bimbo che cerca rifugio nella fantasia.
    Un tratto marcato comunica una forte carica vitale, dimostra energia, temperamento. Il gesto leggero esprime in genere una personalità molto sensibile e timida.

    Tutti i bambini tendono ad avere una preferenza per determinati colori: a partire dai 3-4 anni (prima la scelta è casuale) il prevalere di una tinta rispetto a un’altra è sempre un messaggio importante.
    Rosso. Il bambino ha una personalità energica, un carattere allegro e un bisogno di sentirsi al centro dell’attenzione.
    Giallo. È un tipico “cuor contento”, che d’istinto si avvicina agli altri ed è curioso.
    Verde. Il bambino che sceglie questo colore è, in genere, serio e introverso; se compare in modo quasi esclusivo, segnala un momento di tensione.
    Viola. Può indicare che il bambino è troppo sollecitato dagli adulti a dare il meglio di sé.
    Nero. Probabilmente tuo figlio non si sente assecondato nelle sue esigenze e sta vivendo un momento di rabbia, frustrazione o disagio.

     
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    LE PRIME REGOLE
    “Si fa come dico io”: la provocazione di un pediatra


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    Educare i bambini non è una scienza esatta. I piccoli crescendo devono imparare a relazionarsi con i loro simili, comprendere che esistono diritti e doveri. Spetta ai genitori, in primo luogo, trasmettere ai figli queste regole e porre dei paletti che aiutino i bimbi a sviluppare un carattere equilibrato.

    Ma non c'è uniformità di opinioni su quale sia l'approccio più efficace per trasmettere queste regole, per porre questi paletti. Gli esperti - educatori, psicologi, pediatri - offrono i loro consigli sulla base delle loro conoscenze ed esperienze, ma alla fine spetta a mamma e papà adottare il comportamento più consono alle proprie convinzioni e sensibilità.

    "Io ritengo che sia opportuno dare al bambino dei limiti a ciò che può ottenere da noi fin dai primi mesi di vita", dice Roberto Albani, pediatra di Roma, che organizza periodicamente corsi di 'parenting' e ha pubblicato diversi saggi sul rapporto tra genitori e figli (l'ultimo in libreria è 'Si fa come dico io', edito da Tropea). "Fin da piccolissimi i bimbi sono in grado di apprendere dal modo in cui mamma e papà rispondono alle loro richieste e adeguarsi di conseguenza. È possibile, dunque, avviare già dai due o tre mesi quello che io chiamo condizionamento positivo, un primo passo verso il processo educativo vero e proprio, che inizierà più tardi, approssimativamente dopo i primi due anni".

    Ma quali limiti si possono dare a un bambino così piccolo? "In primo luogo, gli si può insegnare ad aspettare e a gestire la frustrazione dell'attesa, una capacità fondamentale per acquisire un carattere più forte e paziente", risponde il pediatra. "Per esempio, se un bambino di due mesi, appoggiato sulla sua sdraietta, si annoia e piagnucola per attirare l'attenzione degli adulti, non è indispensabile che mamma e papà accorrano sempre e immediatamente da lui interrompendo le proprie attività. Altrimenti il piccolo si convincerà che può disporre illimitatamente del loro tempo e della loro attenzione. Al contrario i genitori in certe situazioni specifiche, per esempio se stanno mangiando, possono decidere di non interrompersi e di lasciare che il bimbo pianga arrabbiato fino a quando non hanno finito la loro attività, parlandogli di tanto in tanto con calma. In pochi giorni il piccolo imparerà ad aspettare, sapendo che mamma e papà in quella situazione non sono disponibili e che saranno da lui appena possibile".

    Un altro tema di grande interesse per i neogenitori è quello della nanna. "La regolarità degli orari del sonno notturno è un altro elemento fondamentale nel condizionamento positivo dei più piccoli", dice Albani. "Già a quattro o cinque mesi di vita, i bambini non hanno più bisogno di poppate notturne e possono imparare a dormire per tutta la notte nel loro lettino o nella loro culla. In base alla mia esperienza, l'unico metodo efficace è mettere il bimbo a nanna a una certa ora e non rispondere a suoi eventuali richiami fino al mattino dopo. C'è chi, come il pediatra spagnolo Estivill, consiglia un approccio progressivo: affacciarsi nella stanza del piccolo e tranquillizzarlo a intervalli di tempo crescenti. Personalmente ritengo che al bambino basti sentire la voce dei genitori e i rumori che vengono dalla stanza accanto per capire che non è solo, che i genitori sono vicini e raggiungibili. Nel giro di una o due notti, dopo un lungo pianto di frustrazione, comincerà a rilassarsi da solo e a dormire tutta la notte, prendendo un'abitudine che permetterà a tutta la famiglia di riposare bene e svegliarsi serena. A chi obietta che questo approccio può causare una sensazione di abbandono che poi provocherebbe danni permanenti alla personalità, rispondo che basta guardare le famiglie molto numerose, nelle quali gli ultimi arrivati vengono trattati molto spartanamente, per vedere che, invece, sono proprio loro a diventare i più gioviali e sicuri della prole...".

    E ora, la parola a voi mamme: quali sono le vostre opinioni ed esperienze sull'argomento?



    Articolo di Maria Cristina Valsecchi

     
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    Occhio alla vista!
    Come individuare, prevenire ed alleviare i disturbi visivi



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    Statistiche

    6 bambini su 10 trascurano la vista, per esempio non utilizzano gli occhiali pur avendone bisogno con notevoli ripercussioni sul proprio apprendimento. Nel nostro Paese un ragazzino su 4 non vede bene, il 20 per cento degli scolari ha difetti visivi e pochi di loro hanno eseguito una visita oculistica.

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    Difetti visivi

    Una constatazione, questa, che è in sintonia con la situazione mondiale, dove solo il 14 per cento dei bambini viene sottoposto a un esame della vista, sebbene un piccolo su 20 in età prescolare e ben 12 milioni di ragazzini in età scolare presentino un disturbo agli occhi.

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    Cause del problema

    La vista dei nostri figli può essere pertanto compromessa già in giovanissima età. Se si volessero ricercare le cause, si potrebbe partire dalla familiarità.
    Un bambino che ha uno o entrambi i genitori miopi, astigmatici o ipermetropi, ha una probabilità maggiore di avere lo stesso disturbo visivo rispetto a un coetaneo che non ha questa scomoda ereditarietà.
    Questa osservazione non basta però a giustificare l’elevato numero di piccoli che non hanno una vista perfetta. Come si spiega il fenomeno?

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    Postura e abitudini

    “La postura scorretta che assume il 90 per cento dei bambini già dalla prima elementare mentre scrive o legge e la distanza inadeguata con cui tiene il foglio sia per la lettura e sia per la scrittura favoriscono la precoce insorgenza di diversi disturbi visivi”, spiega Luigi Seclì, professore a contratto di Ottica-Optometria all’Università degli Studi del Salento (LE).
    Come porre allora rimedio a queste tendenze sbagliate? Innanzitutto sapendo quali sono le abitudini corrette per i loro occhi e iniziando a proporle loro già dalla scuola materna. Bastano pochi ma determinanti accorgimenti per tutelare la loro vista, cominciando per esempio dall’illuminazione dell’ambiente dove il bambino legge.
    Bisogna evitare che la stanza sia buia e che un solo cono di luce sia indirizzato sul foglio da leggere, ma favorire invece una sua equa diffusione nello spazio. Meglio quindi eliminare le piccole lampade da tavolo e preferire un’illuminazione fatta con la luce naturale.

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    Per la lettura


    Un altro accorgimento è osservare quanto il proprio figlio tiene lontano dagli occhi il testo da leggere: la distanza giusta è quella dal gomito alla prima nocca del dito medio. I genitori devono anche valutare l’inclinazione del piano di lettura.
    Fornire il piccolo di un leggio può, per esempio, essere opportuno, perché consente al suo corpo e in particolare alla sua colonna vertebrale di stare più diritta e di conservare la distanza raccomandata dal foglio.

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    Per la scrittura

    Va inoltre suggerito al bambino il modo corretto per leggere un libro: mai stare stesi sul letto o sul divano e staccare lo sguardo a intervalli regolari dal foglio. Girare la pagina e guardare lontano per poi riprendere a leggere è per esempio una strategia da insegnare.
    Bisogna poi controllare che il piccolo scriva sempre su fogli bianchi, che prenda penna e matita con pollice, indice e medio, e che le posizioni a due centimetri dalla punta della matita o della penna in modo che possa vedere ciò che scrive.

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    Dall'oculista

    Tutti questi accorgimenti devono essere messi in atto dai genitori anche se il piccolo non ha problemi agli occhi. Saranno di certo utili per prevenire i disturbi della vista o per rallentare un peggioramento nel caso sia già in corso un difetto visivo.
    “Se, nonostante queste accortezze, il ragazzino si stropiccia gli occhi, sostiene di non vedere bene le parole che deve leggere, si stanca presto della lettura e fa fatica ad adattarsi alla luminosità della stanza anche se è corretta, è il caso di portarlo dall’oculista”, consiglia Luigi Seclì.

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    Occhialini

    Se gli viene diagnosticato un disturbo visivo anche lieve e deve mettere gli occhiali, bisogna prendere sul serio e rispettare la decisione dello specialista.
    Con una ricetta aggiornata - sulla quale è di recente obbligo riportare non soltanto la correzione da attuare, ma anche il tipo di lenti, gli eventuali trattamenti antiriflettenti e la scadenza della ricetta stessa che dura un anno - prescriverà una correzione personalizzata.
    Un bambino già grandicello potrà sostituire anche gli occhiali con le lenti a contatto, a patto che a suggerirglielo sia l’oculista e che sia disposto ad attenersi in modo scrupoloso alle norme igieniche.

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    Lenti a contatto

    Le regole per l’uso delle lenti a contatto

    - I genitori devono innanzitutto insegnare al proprio ragazzino che le lenti a contatto hanno una tempistica ben precisa. Non vanno portate di notte e se, per esempio, sono a ricambio settimanale, non bisogna protrarne l’uso per quindici giorni. Il polimero di cui sono composte può infatti modificarsi, disidratarsi, formare depositi di proteine che riducono la loro tollerabilità.

    - Devono inoltre essere pulite utilizzando soluzioni idonee e seguendo una adeguata procedura: detergerle al momento della loro rimozione, immergerle prima nel liquido detergente e poi in quello di conservazione.

    - Le custodie delle lenti a contatto vanno cambiate ogni mese. Solo in questo modo si possono tenere lontane pericolose infezioni, dovute per esempio allo pseudomonas e all’acantameba, che possono compromettere anche seriamente la salute della cornea, vale a dire di quella membrana trasparente che ricopre l’occhio. In altre parole, questi presidi visivi vanno usati con buon senso, altrimenti si possono trasformare in nemici insidiosi.

    - Affinché ciò non accada, è bene per esempio non applicare le lenti durante i bagni in piscina o al mare, o dopo aver spalmato sul viso creme, saponi, lozioni od oli cosmetici. I vapori presenti in determinati ambienti o emanati da alcuni prodotti possono infatti essere nocivi per il materiale che costituisce la lente e quindi per l’occhio.

    Fonte: speciale 0-14 anni di Io e il mio Bambino

     
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    Perchè si ammala sempre?


    ammalaCi sono bambini che In inverno patiscono più di altri i malanni di stagione.
    I genitori dicono che si ammalano in continuazione... ma in realtà se questo capita meno di tre volte l’anno, non hanno ragione di preoccuparsi: i loro figli non fanno parte della categoria di “quelli che si ammalano sempre”.


    Di fatto, si parla di infezioni respiratorie ricorrenti quando il bambino ne soffre per almeno sei volte l’anno, soprattutto tra ottobre e aprile, manifestando infiammazioni alle basse vie respiratorie, ossia tonsilliti, otiti, faringiti, bronchiti e broncopolmoniti.
    Ma qual è il motivo di questi disturbi? E come si può fare per prevenirli? A queste e ad altre domande ha risposto un esperto, il dottor Alberto Vierucci.


    Perché alcuni bambini si ammalano più frequentemente di altri?
    La causa delle ripetute infezioni è spesso da ricercare in fattori genetici. È normale che in alcuni bambini le difese immunitarie si rafforzino prima che in altri, proprio come accade, ad esempio, per lo sviluppo delle facoltà linguistiche.

    Da uno studio condotto su bimbi con affezioni respiratorie ricorrenti, abbiamo scoperto che, nella metà dei casi, anche uno dei genitori - da piccolo - ne soffriva. Questo dimostra che esiste una componente ereditaria.



    Ci sono fattori scatenanti?
    Sì, l’esposizione agli agenti infettivi. Il bambino gode di tre tipi di immunità: quella “innata”, cioè una capacità di difesa già presente quando viene al mondo; quella “passiva”, trasmessa al bimbo dalla mamma sia durante la gravidanza sia attraverso l’allattamento al seno. Infine
    c’è l’immunità acquisita, che il bimbo sviluppa nel corso degli anni, man mano che entra in contatto con nuovi germi. I primi due tipi di immunità consentono al piccolo di difendersi dalle malattie, purché non venga esposto a cariche troppo elevate di agenti patogeni (virus e batteri).
    È il caso, ad esempio, dei bambini che iniziano a frequentare il nido in tenera età e che, quindi, si trovano, ad affrontare numerose infezioni, quando il loro sistema immunitario non è ancora pronto.



    Vaccinarsi contro l’influenza può essere utile?
    Sì. Innanzitutto perché così il bimbo evita di prendere un’altra malattia, l’influenza. Ma si è anche riscontrato che i piccoli ai quali è stato somministrato il vaccino antinfluenzale hanno avuto meno infezioni.
    La ragione non è ancora ben chiara, ma pare che il preparato stimoli la produzione di certe sostanze, che aumentano le difese nei confronti degli altri germi patogeni.



    È consigliabile assumere gli immunostimolanti per potenziare le difese?
    2%20ammala
    Gli immunostimolanti sono preparati a base di composti chimici che contengono un mix di batteri responsabili delle infezioni da assumere in cicli di tre mesi o per tutto l’inverno. È una sorta di vaccino che però agisce in modo
    generico e non su specifici germi, come accade, invece, per i vaccini veri e propri. I pareri degli esperti sull’efficacia di questi preparati sono quindi contrastanti, certo è che rafforzano leggermente le difese, ma la risposta immunitaria è individuale e non sempre tale da riuscire vincente.



    La profilassi antibiotica può servire?
    Questo tipo di prevenzione consiste nel somministrare un basso dosaggio di antibiotico per un periodo prolungato.
    Oggi, però, la sua efficacia è stata ridimensionata: innanzitutto, perché gli antibiotici agiscono soltanto sulle infezioni batteriche, mentre quelle respiratorie ricorrenti nel 70 per cento dei casi sono di origine virale. Si è visto, inoltre, che è meglio curare l’infezione quando la si contrae: ci sono antibiotici che si assumono in un’unica dose, sicuramente più alta, ma che interviene immediatamente sui batteri.



    In linea di massima come comportarsi quando il bambino si ammala?
    Il primo consiglio è senz’altro di contattare il pediatra, che dopo una visita - ai bronchi, alla gola e alle orecchie - potrà individuare la cause dell’infezione, prescrivere la cura adatta e stabilire la durata della convalescenza. Se il bimbo ha il naso chiuso, può essere utile effettuare lavaggi nasali con soluzione fisiologica o acqua di mare, ma prima di somministrare qualsiasi medicinale - sia aerosol sia antibiotico - è indispensabile la prescrizione medica.

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    Il bimbo piange e va in apnea

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    In medicina si chiamano spasmi affettivi (o apnee affettive). Un capriccio non soddisfatto o anche una caduta, il bimbo inizia a piangere e poi sembra perdere il respiro fino a diventare quasi cianotico. Passano alcuni secondi, poi tutto torna alla normalità, salvo lasciare un grande spavento nei genitori. Che cosa è successo? E come prevenire episodi futuri?

    CHE COSA SONO GLI SPASMI AFFETTIVI Gli spasmi affettivi sono manifestazioni caratterizzate dalla perdita temporanea di respiro conseguente ad una situazione di disagio o di rabbia. Interessano circa il 5% dei bambini (ma la percentuale è controversa) e possono comparire tra i 6-9 mesi e i 4-5 anni di vita.

    COME SI MANIFESTANO “Dopo una fase più o meno lunga di pianto intenso, in cui il bambino appare molto agitato, ad un tratto il piccolo sospende il respiro in fase espiratoria, diventa rosso oppure pallido in viso, compare cianosi nella zona della bocca (le labbra diventano bluastre), si ha irrigidimento di tutti i muscoli o mioclonie, cioè piccoli spasmi o contrazioni muscolari involontarie” evidenzia Giovanna Tripodi, neuropsichiatria infantile presso l’Unità Operativa Complessa di Pediatria dell’Azienda Ospedaliera Bianchi-Melacrino-Morelli di Reggio Calabria. “In alcuni casi si può avere una breve perdita di coscienza o vere e proprie crisi convulsive. Dopo alcuni secondi, tutto passa, il bambino fa una profonda inspirazione e riprende a respirare normalmente, come se nulla fosse successo; al massimo appare un po’ più debole”.

    PERCHE' SUCCEDONO “Le apnee affettive non capitano mai all’improvviso, ma sempre in conseguenza ad un evento che provoca tensione o disappunto nel bambino” sottolinea Leo Venturelli, pediatra di famiglia a Bergamo e membro del direttivo della Società Italiana di Pediatria Preventiva e Sociale.

    “Nei bambini più piccoli possono costituire una reazione automatica e non consapevole ad un disagio o ad un dolore, verso il quale mostrano una maggiore sensibilità (in pratica, ci sono bambini che di fronte ad un disagio reagiscono in modo più pacato, limitandosi a piangere, altri che trattengono il fiato fino ad arrivare all’apnea); nei più grandicelli, invece, è più facile che si tratti di una reazione ‘a comando’, della serie: se faccio così la mamma mi ascolta e mi accontenta.”

    “L’interpretazione che in ambito medico viene data di questi episodi è infatti che si tratta di atti dimostrativi da parte del bambino, che in questo modo cerca di attirare l’attenzione della mamma (alla base pare ci sia proprio un conflitto con la figura materna), non per niente i bambini più colpiti da certe manifestazioni sono quelli che si definiscono con un carattere deciso e ‘ribelle’, riluttanti a rispettare le regole o a riconoscere l’autorevolezza del genitore” aggiunge la neuropsichiatra. “Anche se non si può parlare di familiarità, inoltre, sembra che siano leggermente predisposti i bambini con un fratello o un genitore che da piccolo ha avuto episodi simili”.

    COME DISTINGUERE GLI SPASMI DA ALTRO Di fronte a certe manifestazioni, il timore principale dei genitori è che possano essere causate da patologie, come l’epilessia o disturbi cardiaci. “Gli spasmi affettivi sono sempre scatenati da eventi ben precisi, come un capriccio, uno spavento, un eccesso di rabbia, un dolore, ed è questo l’elemento principale che permette di distinguerli da patologie, come le crisi epilettiche, che possono verificarsi anche quando il bambino è tranquillo o quando dorme” precisa Giovanna Tripodi. “In ogni caso, dopo il primo episodio è buona regola far vedere il bambino dal pediatra, che in base alla visita e al racconto dei genitori valuterà se approfondire le indagini, con l’aiuto dello specialista”.

    COME COMPORTARSI E’ normale che le apnee affettive spaventino molto la mamma, tuttavia per quanto possibile deve cercare di far finta di nulla, non dare l’impressione di essere preoccupata o agitata: il bambino infatti deve capire che non è con queste reazioni eccessive che ottiene l’attenzione dei genitori, altrimenti ci proverà ancora. “Se però si tratta di un bambino piccolo e la sua è una reazione automatica, si può provare, per interrompere la crisi, a soffiare improvvisamente sul viso, oppure battere le mani vicino alle orecchie o spruzzare con le dita un po’ d’acqua sugli occhi: sono tutti stimoli che possono far cessare l’apnea e far tornare il respiro normale al bambino” suggerisce il dott. Venturelli.

    LE COSE DA NON FARE

    Non mostrarti agitata, anzi, cerca di evitare il suo sguardo.
    Non scuoterlo e non massaggiarlo: meglio metterlo supino o tenerlo in braccio per evitare che si faccia male.
    Non mettergli niente in bocca e non dargli da bere.
    DOPO LA CRISI ABBRACCIALO Terminata la crisi, abbraccialo, tranquillizzalo, ma subito dopo riprendi le tue normali attività, come se niente fosse successo. Allo stesso modo non enfatizzare l’episodio con amici e parenti in presenza del bambino, che proprio per questo si potrebbe sentire ‘importante’ per quel che ha fatto. Ricorda che gli spasmi affettivi non sono pericolosi, non provocano danni al cervello e tendono a passare da sé con la crescita del bambino.

    SI POSSONO PREVENIRE GLI SPASMI AFFETTIVI Se la mamma sa già che il bambino può avere questo tipo di reazione, dovrebbe evitare di arrivare a certi limiti. “Questo non significa dargliele per vinte tutte, ma semplicemente cercare di non esasperare le situazioni, evitare lo scontro e provare, in caso di contrasto, a consolarlo diversamente” consiglia Leo Venturelli. “Al tempo stesso, se il bambino ha avuto lo spasmo perché gli è stato negato un giocattolo, non bisogna darglielo neanche dopo la crisi, altrimenti si convincerà che lo spasmo era l’unico modo per ottenere ciò che voleva e potrebbe adottarlo, più o meno consapevolmente, come forma di ‘ricatto’ per mamma e papà. Con questi piccoli accorgimenti, a poco a poco le crisi diminuiranno”.


    Angela Bisceglia

     
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    Nido, quanto mi costi!

    nido_bimbo

    Quanto costa mandare un bambino al nido comunale?
    Cittadinanza attiva ha fatto i conti in tasca alle famiglie italiane e dall’analisi è emerso che in media si spendono 302 euro al mese.

    Le città più care? Ovviamente al Nord.
    Ma il dato che balza all’occhio riguarda gli aumenti: ben 39 città hanno ritoccato le rette all’insù e in sei città i ritocchi si sono trasformati in stangate: Bologna (+29,7%), Vibo Valentia (+29%), Perugia (+21,8%), Genova (+15,2%), Livorno (+13,9%), Sassari (+10%).

    Nonostante mandare un bambino al nido costi una fortuna (o sfortuna, a seconda dei punti di vista!), in media il 23,5% dei richiedenti rimane in lista d’attesa.

    Il poco edificante record va alla Calabria con il 39% di bimbi in lista di attesa, seguita da Campania (37%) e Sicilia (+36%).

    La Calabria è la regione più economica (114 euro) mentre Lombardia e Valle d’Aosta sono le più costose con oltre 400 euro di spesa media.
    Nella top ten delle 10 città più care, tra quelle che offrono il servizio a tempo pieno, si confermano, Lecco, Belluno, Sondrio, Bergamo, Mantova, Cuneo, Lucca, Pisa e Udine.
    Nella graduatoria delle 10 città meno care, prevalgono le realtà del Centro-Sud. In assoluto, la città più economica risulta Catanzaro, seguita da Vibo Valentia, Cagliari e Roma.

    Facendo un confronto tra i posti disponibili e la potenziale utenza (numero di bambini in età 0-3 anni) in media in Italia la copertura del servizio è del 6,5% (percentuale che sale all’13,3% se consideriamo solo i capoluoghi di provincia) con un massimo del 15,2% in Emilia Romagna ed un minimo dell’1% scarso in Calabria e Campania.

    Questo dato conferma quanto l‘Italia sia lontana dall’obiettivo comunitario che fissa al 33% la copertura del servizio.

    Quanto agli altri paesi europei, Danimarca, Svezia e Islanda si contraddistinguono per il più alto tasso di diffusione dei servizi per la prima infanzia (con una copertura del 50% dei bambini di età inferiore ai tre anni), seguiti da Finlandia, Paesi Bassi, Francia, Slovenia, Belgio, Regno Unito e Portogallo (con valori tra il 50% e il 25%).

    Che dire?

    Cittadinanza attiva ha considerato solo i costi dei nidi comunali. Se avesse incluso anche i nidi privati, beh, credo che le cifre sarebbero state ben più alte.

    Personalmente pago poco più di 500 euro al mese. Luca frequenta il nido aziendale, che è una struttura privata.
    Ma anche la struttura pubblica del paese dove viviamo ha gli stessi prezzi. Se si lavora in due, come nel mio caso, la retta mensile supera i 500 euro.
    E a noi va ancora bene!
    Delle mie amiche pagano 800 euro al mese per un nido privato a Milano (più della retta del mutuo) e i bambini non sono stati iscritti in quelle strutture perché le mamme sono schizzinose, capricciose e desiderano solo il meglio, bla bla bla, ma solo perché nelle strutture comunali non c’erano posti liberi.
    Si sa, la priorità va ai ceti meno abbienti.

    E qui… lascio perdere. Mollo il colpo, sulle priorità…potrei essere polemica e a dir poco velenosa…

    Sono contenta di essere arrivata all’ultimo anno di nido. 500 euro al mese pesano parecchio. Moltiplicati per 11 mesi, per cinque anni, beh fatti i conti, avrei comprato … non so, di sicuro tante cose!

     
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    Tonsille e adenoidi nei bambini: intervento o cura?

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    L'intervento delle tonsille o delle adenoidi (vedi la differenza nelle foto) nei bambini piccoli è un fenomeno molto dibattuto. Impariamo a riconoscere i sintomi, a decifrare la gravità e sapere come curare questa patologia.
    Le adenoidi nei bambini: come riconoscere i sintomi
    Se le adenoidi sono molto voluminose il bambino tende a stare sempre con la bocca aperta (respirazione buccale).
    Di notte respira rumorosamente o addirittura russa, presenta una voce di tipo nasale e, specie nei mesi invernali, soffre spesso di frequenti raffreddori nel corso dei quali può presentare, talvolta, mal d’orecchio. Il mal d’orecchio ha in questi casi un andamento altalenante, con momenti di dolore e momenti di pausa.
    Il bambino afferma di sentire meno bene e qualche volta dice di avvertire come delle bolle d’aria che si aprono nell’interno della testa. E' presente anche una abbondante secrezione nasale, non compare secrezione dall’orecchio
    Cosa fare in caso di disturbi delle adenoidi?
    Abbondanti e frequenti lavaggi nasali con soluzione fisiologica. In caso di ripetuti ed intensi mal d’orecchio, una terapia (che deve essere assolutamente prescritta dal medico) con antibiotici e cortisone e… pazienza.
    Se questi inconvenienti sono molto frequenti (4/5 volte nel periodo invernale) e, ancora, se le opportune terapie con antibiotico e altri farmaci non hanno ottenuto un miglioramento della situazione, è necessario asportarle chirurgicamente (adenoidectomia).
    Le tonsille nei bambini: intervento e cura
    Le tonsilliti sono piuttosto frequenti. Le più frequenti e meno pericolose sono le tonsilliti di origine virale contraddistinte da febbre che dura 1/3 giorni (non più di 72 ore) e da un modesto arrossamento della gola senza presenza di placche e senza evidenti ingrossamenti delle ghiandole del collo. Da curare con antipiretici antiinfiammatori.

    Più serie ma meno frequenti sono le tonsilliti batteriche, caratterizzate da febbre alta che dura 4 o 5giorni, dalla presenza di placche e da un ingrossamento e dolenzia delle ghiandole del collo, in particolar modo quelle situate sotto l’angolo della mandibola. Da curare con antibiotici.
    Il raffreddore nei bambini: terapia giusta
    Una volta, intervistato sul raffreddore, (a volte definito anche influenza) con grande sorpresa dell'intervistatore ho definito il raffreddore una malattia incurabile ed un’altra volta ho detto che l’unica terapia efficace è "soffiare il naso al bambino".
    Al di là del paradosso, non esistono cure specifiche per il raffreddore. Esso è una malattia virale e deve perciò fare il suo corso. Si possono soltanto attenuare i sintomi.
    Come curare i sintomi del raffreddore dei bambini?
    A qualunque età, ma soprattutto per il lattante che deve avere il naso libero per respirare mentre succhia, la soluzione sono abbondanti lavaggi con gocce di soluzione fisiologica.
    Per i più grandicelli, ciò che si deve fare è soffiare bene il naso. Purtroppo, i bambini incominciano a soffiare bene il naso dopo i 5/6 anni.

    fonte:http://www.donnaclick.it/

     
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    Fimosi nei bambini: l'intervento pediatrico come e quando

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    Descrizione, diagnosi, immagini e intervento curativo della fimosi dei bambini. A questo primo paragrafo della trattazione pediatrica, seguirà una seconda puntata!

    La Fimosi è un anomalo restringimento dell'anello prepuziale, tale da interferire con lo scorrimento del prepuzio stesso sul glande che di conseguenza crea la impossibilità di scoprire completamente la parte anteriore del pene.
    Sono descritti 3 gradi di fimosi:

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    Impossibilità all'esposizione del meato (rara)
    Esposizione parziale del glande (la più frequente)
    Esposizione totale del glande con stenosi del corpo del pene (molto rara)
    La maggior parte dei bambini nasce quindi con il "il pisello chiuso".
    Questa situazione che rientra nella normalità alla nascita, richiede successivamente di essere modificata. Il glande deve poter essere scoperto per due motivazioni, l'una igienica, legata all'impossibilità di lavare la parte, l'altra per la futura funzione sessuale, legata alla difficoltà di scorrimento del prepuzio.
    Alcune religioni, o anche abitudini, prevalentemente anglosassoni, prevedono la circoncisione in epoca neonatale, un'operazione che consiste nel tagliare e asportare il prepuzio (o parte di esso), consentendo al glande di essere sempre scoperto.
    Per quanto riguarda la realtà italiana, in cui non si pratica di routine la circoncisione ai neonati, si può raggiungere nella maggior parte dei casi, lo stesso obiettivo, cioè la scopertura del glande, con semplici e delicate manovre.
    Queste manovre devono essere compito del medico!!!
    Come procedere?
    Io vi espongo come procedo personalmente e come me fanno anche molti colleghi:
    Intorno al 3° mese di vita del bambino (in occasione cioè della 2a visita di controllo) inizio a scollare delicatamente il prepuzio, usando una pomata anestetica e avendo avuto cura di far preparare la parte dalla mamma con l'applicazione preventiva per circa un mese di una pomata ed un unguento al cortisone.
    La manovra deve essere delicata e non violenta e limitata e non totale. In altre parole: non bisogna cioè scoprire al primo colpo tutto il glande oltretutto con violenza. A meno che la parte attaccata sia veramente minima.
    Fatto il primo scollamento, ho bisogno della collaborazione della mamma che deve ripetere tutti i giorni la stessa operazione. Deve cioè tirare giù la pellicina fino al punto in cui sono arrivato e lavare la parte scoperta con acqua e sapone (in genere in occasione dell’abituale quotidiano bagnetto). Non deve forzare ulteriormente! Se non si forza, il bambino non prova nessun dolore.
    In realtà questo rito di apertura deve essere iniziato non il giorno dopo lo scollamento, ma due giorni dopo. Esso deve essere praticato poi tutti i giorni, per motivi igienici ed anche perché si corre il rischio che il prepuzio ritorni ad aderire. (Sarebbe stato un lavoro inutile e un inutile trauma per il bambino).
    Qualche volta nelle ore immediatamente successive alla prima “operazione”, improvvisamente, il bambino si mette a piangere, ciò è dovuto al fatto che quando fa la pipì, sente bruciore. Il pianto è però di breve durata. Rarissimamente si può avere un arrossamento ed un gonfiore della parte che passa con piccoli impacchi freddi e la applicazione di una pomata cortisone-antibiotica. In questo caso è però necessario consultare il medico.

    A una successiva visita di controllo se il glande non si scopre completamente, procedo ad un ulteriore scollamento. La mamma dovrà poi continuare le sue manovre giornaliere di apertura e lavaggio. In genere in tre volte riesco a scoprire completamente il glande. Quando è completamente aperto sarà facile eseguire un corretto lavaggio.
    Fimosi: macchie biancastre
    Qualche volta sotto la pelle del prepuzio non ancora aperto, è possibile vedere in trasparenza delle macchie biancastre. Si tratta di accumulo di secrezioni bianche che fuoriescono alla successiva apertura. La presenza di questa secrezioni biancastre impressiona molto le mamme, ma in realtà è un fatto normale che oltretutto facilita la risoluzione della fimosi.
    E’ importante iniziare questa operazione piuttosto precocemente (come ho detto intorno al 3° mese) in modo da concludere il tutto intorno ai 7/8 mesi prima cioè che il bambino cominci a rendersi conto di cosa gli stia succedendo e quindi ne rimanga traumatizzato e non voglia più farsi toccare (e quindi lavare).

     
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    PSICOLOGIA
    Come spiegare la morte ai bambini


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    “Mamma, ma la nonna non torna più?” Oppure “dove si va quando si muore?” Può arrivare un momento, nell'infanzia di molti bambini, in cui purtroppo si è chiamati a rispondere. Come farlo? I consigli di Fulvio Scaparro, psicotrapeuta infantile

    di Antonella Laudonia



    “Mamma, ma dov'è adesso il nonno, come mai non lo vedo più? Ma poi torna?” “Dov'è finita la zia, perché non viene più a giocare con me?” “Dove si va quando si muore?” Può arrivare un momento, nell'infanzia di molti bambini, in cui una domanda simile viene posta ai genitori, in occasione di un lutto di una persona cara, ma talvolta anche senza pretesto, così in linea del tutto teorica. E rispondere in modo appropriato diventa un'impresa assai ardua. Che coinvolge i propri credo più profondi, siano essi religiosi o laici.

    Per capire come affrontare la ‘domanda delle domande’, nostrofiglio.it ha intervistato Fulvio Scaparro, psicoterapeuta infantile, nonché psicologo dell'età evolutiva.

    I genitori evitano di parlare della morte con i bambini. Secondo lei è giusto?
    Nella nostra cultura, mediterranea e italiana in particolare, la morte è troppo spesso esorcizzata, se ne parla poco o niente, e siamo noi adulti per primi a bandirla dai discorsi, soprattutto in presenza dei bambini, perché si pensa che il tema strida con la spensieratezza tipica dell'infanzia. E anche tra adulti stessi, non si tende molto a parlarne se non per lo più facendo scongiuri.

    Così facendo non si prepara un bambino a questo evento di passaggio inevitabile. E il paradosso è che proprio noi che affondiamo le nostre radici in una cultura cattolica viviamo il passaggio in modo tragico e drammatico, affatto confortati da quell'idea di fondo che dovrebbe rasserenare almeno i credenti.

    Da noi sarebbero impensabili i party post funerale tipici della cultura d'Oltreoceano. Il funerale viene vissuto in maniera cupa e talvolta addirittura teatrale. Ma ciò non è d'aiuto ai bambini, che hanno bisogno di capire fin da subito che la vita continua (nelle culture in cui si mangia e si beve dopo i funerali si assolve meglio a questo compito, in un certo senso).

    Veniamo al dunque: se purtroppo una persona cara non c’è più, come possiamo spiegarlo a un bambino?
    Nei primi tre anni di vita i bambini negano ogni forma di interruzione di vita, ovvero negano la scomparsa definitiva. Ma quando ci si trova a dover rispondere alle prime domande scottanti sul tema, come fare? Qui le strade si dividono.

    I genitori che possono contare sul proprio credo religioso, sulla fede, sono in grado di raccontare storie più edificanti e messaggi di speranza (“Un giorno ci ritroveremo tutti insieme in Paradiso”).

    Per chi è non credente, la questione si fa più ardua e dare risposte confortanti è più complicato. Non è corretto prendere a prestito spiegazioni religiose se non si crede, ma al tempo stesso non si deve commettere l'errore di trasmettere così nudo e crudo il proprio pensiero ateo. Sarebbe irrispettoso del bambino rispondergli brutalmente che non ci sarà più niente dopo la morte, solo per essere coerenti con le proprie convinzioni. E' irriguardoso nei suoi confronti perché lui ha tutto il diritto di formarsi le proprie convinzioni personali col passare del tempo.

    Magari può essere d'aiuto, nel rispondere, utilizzare frasi non troppo dirette del tipo: “Il nonno, la mamma, o chicchessia non lo rivedremo in questa vita, ma i suoi insegnamenti, il suo ricordo vivranno con noi, continueranno a esserci accanto anche se in modo diverso, un segno che andrà al di là della pura esistenza”.

    Oppure “La nonna continuerà a vivere con noi finché noi ne manterremo vivo il ricordo”. Oppure “Alcune persone credono che ci rivedremo tutti nell'aldilà, chissà, io non lo so, ma nel frattempo l'importante è mantener vivo il ricordo del nostro caro”.

    Che cosa non bisogna proprio fare?
    Qualunque strategia si decida di attuare nello spiegare la morte ai bambini, l'importante è non essere evasivi di fronte alle loro domande. Saranno domande secche, dirette, spietate. Ma i genitori non devono mai rispondere con frasi del tipo: “Lo capirai quando sarai grande”, o “Questa è una domanda complicata adesso, vedrai che un giorno ne parleremo”. Occorre trovare il modo più affine al proprio modo di pensare e con estrema delicatezza dare risposte esaurienti ai propri figli.

    E’ giusto o sbagliato raccontare storielle fantasiosi per parlare della morte?
    Raccontare storie consolatorie può non essere sbagliato quando si ha a che fare coi bambini. Perché no? In fondo ogni anno a Dicembre non raccontiamo loro la storiella di Babbo Natale? E allora ben vengano, finché si parla con i piccini, le storielle che addolciscono la pillola.

    La storia della stellina a modo mio la usai anche io con mio figlio quando mancò suo nonno al quale era molto legato. Raccontai che ogni sera il nonno passava a mangiare il panino al salame messo per lui sul davanzale della finestra. Il mattino, non vedendolo più, mio figlio era più sereno.

    Provvisoriamente può andare bene seguire questa tattica, è rassicurante. Per far passare meglio il messaggio si può anche far riferimento ai cicli della natura: “Le foglie dell'albero muoiono e cadono, ma l'albero continua a vivere, va avanti”.



    La morte è un evento doloroso in una famiglia. Come gestire la propria sofferenza di fronte ai bambini?
    Ricordiamoci che quando i bambini sono piccoli le nostre emozioni di adulti li condizionano più delle parole che proviamo a esprimere. Detto questo, va fatta una riflessione su come darci un contegno, per quanto possibile, in caso di lutto in famiglia, per aiutare i piccini di casa a vivere e a superare quei momenti nel modo meno traumatico possibile.

    In sostanza, quando viene a mancare un proprio caro i bambini fanno domande e chiedono spiegazioni. Oltre a calibrare bene quello che è meglio dire e rispondere è bene tenere presente che loro saranno molto condizionati da come ci vedranno reagire e comportarci in quei frangenti. Se respireranno un'atmosfera tragica che non ispira continuità di vita, anche se le spiegazioni saranno illuminate il messaggio di disperazione prevarrà sulle parole edificanti.

    Quindi attenzione a come vi ponete e vi fate vedere in quei delicati momenti, il che non significa che bisogna nascondere la sofferenza, inevitabile, ma che va esternata con tatto, magari evitando di far vedere che non si mangia e non si dorme più, indici ricollegabili alla mancanza di speranza. E nella comunicazione coi figli la speranza è tutto.

    Secondo lei, i bambini dovrebbero partecipare al funerale?
    E' difficile dettare regole ferree in questo campo. Bisogna distinguere. Se si tratta di funerali in cui sono prevedibili scene di disperazione incontenibile, vuoi perché per esempio si tratta di una morte improvvisa a cui nessuno si è potuto preparare (magari in seguito a un incidente stradale), o vuoi perché conoscendo la fragilità dei più coinvolti si può già immaginare che si assisterebbe a situazioni di disperazione estrema, allora è meglio lasciare i bambini a casa.

    Se invece si mette in conto di assistere a scene di tristezza infinita ma con contegno, può essere indicato portare anche i piccoli di casa ai funerali, magari usando l'accortezza di farli sedere vicino a uno zio o a un'amica non coinvolti in prima linea dall'evento luttuoso.

    Un ultimo suggerimento: appena terminata la funzione, sarebbe bene portare i bimbi a fare qualcosa di vitale, che sia un giro alle giostre o ai giardinetti, è sano che passi subito il messaggio di speranza che la vita continua.



    E’ giusto o sbagliato, secondo lei, portare i bambini al cimitero?
    Oggigiorno i nostri cimiteri sono per lo più abbandonati, si sta perdendo l'usanza di frequentarli ed è un errore. Perché proprio lì ci sono le tombe di chi ci ha preceduto, e questo da una parte realizza un contatto concreto con la morte e dall'altro ci dà la possibilità di onorare i nostri cari con dei fiori, con il ricordo, e per chi crede anche con una preghiera.

    Ma andare al cimitero è anche un gesto laico, si va per mantenere in vita il ricordo della persona venuta a mancare. Per questo è consigliabile portarci anche i bambini, già a partire dai tre anni, anche se molti preferiscono lasciarli a casa, ma non lo trovo giusto.

    Portandoli con la famiglia al cimitero si ha la possibilità di spiegare loro dove riposa adesso il proprio caro, anche solo dicendo: “In questo momento dorme qui, ma continua a vivere con noi e attraverso di noi, che ne manteniamo vivo il pensiero anche andando a trovarlo”. Onorare i defunti è un modo per farli continuare a vivere con noi.

     
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