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’OPERA LIRICA «LE AVVENTURE DI PINOCCHIO»

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    LE AVVENTURE DI PINOCCHIO



    Pinocchio

    Favola lirica in due atti
    di Sandro Bernabei
    liberamente tratta da Le avventure di Pinocchio di Carlo Collodi

    Musica di Antonio Cericola


    VIAGGIO INIZIATICO ALLA SCOPERTA DELLA VITA

    4000 persone entusiaste al Teatro Erode Attico
    per la prima mondiale dell’opera “Le avventure di Pinocchio” di Antonio Cericola,
    in collaborazione con il Teatro di Ascoli Piceno

    pinocchioSorpresa, sorpresa! Vedere saltellare e cantare sul palcoscenico del mitico teatro all’aperto Erode Attico ai piedi dell’Acropoli, il burattino Pinocchio, biancovestito, davanti a un pubblico di 4000 persone entusiaste tra cui moltissimi bambini allegri e ben attenti alle vicende in scena, è davvero un avvenimento eccezionale… grazie ad una coproduzione del prestigioso Festival Internazionale di Atene (fondato nel 1955) con il Teatro di Ascoli Piceno il simpatico personaggio della fiaba di Collodi ha vissuto una serata di gloria in quel luogo di storia millenaria come protagonista della prima mondiale dell’opera Le avventure di Pinocchio su libretto di Sandro Bernabei e musicato da Antonio Cericola.

    Si tratta della prima opera lirica di Cericola, formatosi al Conservatorio di Santa Cecilia con diplomi di pianoforte e direzione d’orchestra e già compositore di musica da camera, corale, sinfonica e del balletto Dedalo con la coreografia di Robert North (2003).

    L’erode Attico risalente al secolo II d. C. è stato splendidamente restaurato come il Partenone in vista delle Olimpiadi dal 13 al 29 aogsto ed il programma del Festival di Atene, da sempre tra le massime manifestazioni europee, è quest’anno più ricco ed un susseguirsi di musica, danza e teatro antico degna cornice ai Giochi. Il Festival è stato inaugurato con un concerto dei Berliner Philarmoniker con Simon Rattler sul podio e la seconda rappresentazione era l’opera contemporanea che ripropone, in una nuova veste, una delle favole italiane più famose al mondo Le avventure di Pinocchio.

    Il librettista riduce la complessa storia di Collodi ad una serie di episodi di grande impatto teatrale, quasi un viaggio iniziatico a scoprire la vita e le sue insidie. Il grillo parlante acquista una dimensione più ampia che somma il senso dell’equilibrio e della saggezza con una funzione di cantastorie e tessa i fili del racconto. L’opera inizia con la scena di Geppetto che dà gli ultimi ritocchi al suo burattino che si appresta ad entrare nella vita a scoprire a mano a mano l’effimera consistenza della libertà. Il grossolano burattinaio Mangiafuoco gli regala delle monete d’oro. Viene derubato dal Gatto e dalla Volpe, ma viene consolato dalla Fata dai capelli turchini. La regia intelligente, spiritosa e vivace nella condotta scenica di Christoforos Christofis (scene e costumi Anna Macherianaki, coreografia Ersie Pitti) ha creato un’atmosfera magica. Tra i personaggi comici l’oste che invita Pinocchio alla tavola imbandita si configura come il tipico basso buffo e ricorda il Dulcamara donizettiano.

    Scritta per una grande orchestra, le strutture formali della partitura sono tradizionali, con slanci di lirismo e con delle riminiscenze a tratti pucciniane. Strumenti e voci sanno miagolare e garrire, starnutire, ridere e piangere. Lo spettacolo scorre senza forzature con recitazione accuratissima. Pinocchio si fa voler bene dal pubblico, con i suoi movimenti legnosi e goffi appare un essere tenero e patetico.

    Con bel timbro e voce fresca il giovane tenore Daniele Zanfardino, ottimo attore, rende il personaggio con bravura. Divertente la partenza di pinocchio in una vecchia auto per il paese dei balocchi, dove si ritrova con le orecchie di asino e ben riuscito musicalmente e scenicamente il lieto fine quando diventa un ragazzo in carne e ossa.

    La compagnia era composta da giovani cantanti. Francesco Marcacci era un simpatico Gepetto, Eugenio Leggiadri-Gallani un tonante Mangiafuoco, il tenore Nunzio Fazzini un gattone prepotente ed il bravo mezzosoprano Silvia Ragazzo una spigliata, maliziosa volpe. Maria Grazia Mediana con bella declamazione era il grazioso grillo parlante e Suzana Savic la fata turchina. Ben caratterizzati, anche vocalmente, il Lucignolo di Enrico Maria Marabelli e l’Oste di Dimitris Kassioumis. NBravo anche il primo ballerino Kostantinos Mylonis e da non dimenticare l’espressivo Coro dei bambini “Manolis Kalomiris” diretto da Nikos Maliaras.

    L’orchestra Internazionale d’Italia ha affrontato la partitura con padronanza ed è stato diretto dal Maestro Donato Renzetti con grande sicurezza. Tra il pubblico entusiasta oltre ad autorità greche, anche l’ambasciatore italiano ad Atene, Giampaolo Cavarai ed il direttore artistico del Teatro Ventidio Basso di Ascoli Piceno, Claudio Pugliese.

    Christina Mai

    Postilla
    Abbiamo riportato integralmente l’articolo tratto dal mensile l’opera (vedi immagine di copertina) per l’importanza che il periodico riveste nel settore specifico. Questo non impedisce tuttavia di rilevare, nello stile dell’estensore, un uso frettoloso e talvolta impreciso della lingua, che culmina in distrazioni non degne del prestigio della testata.

    Fra l’altro è da rilevare una citazione non riportata tra virgolette, e per di più storpiata, dalla nota critico-esplicativa di Amato Maria Bernabei, riportata in questa scheda, dal titolo C’era una volta …un pezzo di legno, dove il verso della volpe ‘gannire’ diventa quello delle rondini ‘garrire’.

    Sentiamo il dovere, poi, di riferire alcuni rilievi mossi dall’autore del libretto ai criteri della messa in scena dell’opera.

    Egli contesta decisamente la scenografia presentata ad Atene, non solo perché non rispettosa dei canoni estetici che hanno ispirato l’opera, ma anche perché decisamente distante dall’immaginario universale legato alla favola di Collodi. D’altra parte l’uso sempre più frequente di regie “scellerate” sta da anni minando il melodramma sotto il profilo degli allestimenti, sottraendo ogni credibilità agli intenti degli autori. Non si può mettere in scena, ad esempio, un’opera dell’Ottocento facendo uso di abiti e ambienti ‘rivisitati’ allo scopo sempre ingiustificato di conseguire mistificanti e cervellotiche attualizzazioni. La fedeltà allo spirito di uno scrittore o di un musicista non può essere mai tradita a favore di velleitarie e narcisistiche aspirazioni di un “interprete” di turno. «Fedeltà al testo è dunque fedeltà all’autore, aderenza all’opera, rispetto della persona. Interpretare non vuol dire stravolgere i contenuti, adattare il testo a proprie esigenze alterando nella forma e nella sostanza la creazione artistica. Prendiamo a verifica quanto Heinrich Strobel disse a proposito del rapporto di Toscanini con le pagine di Beethoven: ‘Egli spazzava via con la sua immensa forza e con la fedeltà delle sue interpretazioni tutta quella falsa filosofia, tutte quelle false attribuzioni poetiche e letterarie. Come sempre anche di Beethoven eseguiva soltanto la musica’». (Sandro Bernabei, La lezione di Arturo Toscanini).

    Cosa di non inferiore gravità è la denuncia, sempre da parte dell’autore del libretto, di una serie di tagli apportati al testo in modo totalmente arbitrario. Il che, oltre a denotare una deprecabile, o forse solo latente, professionalità da parte di coloro che hanno compiuto tale abuso, è certamente lesivo del diritto d’autore.

    Sandro Bernabei fa notare, infine, per onestà di informazione, che la rappresentazione ad Atene non è stata in realtà la prima esecuzione assoluta, essendo l’opera già stata rappresentata, in questa veste, al Teatro Marrucino di Chieti nel dicembre del 2003, come si evince dalla copertina del libretto di sala qui sotto riportata.



    CONTRIBUTI ALLA COMPRENSIONE


    Perché Pinocchio?

    Perché affascina i bambini e ripropone agli adulti sogni e segreti dell’infanzia; perché ha dentro di sé la forza irresistibile di una metamorfosi priva delle angoscianti visioni esistenziali di Kafka; perché è la favola della vita, o meglio della stagione iniziale, strutturante, rivelatrice del mistero; perché racconta un’avventura irripetibile, e perciò unica, dove ogni essere umano, nella sua unicità appunto, può riconoscersi.

    Gli assunti del fascino postulano il germe dell’identificazione. La proiezione di sé sul mondo esterno e viceversa, nella costante dialettica del confronto, mitiga i conflitti di una altrimenti irriconoscibile scoperta: la realtà che chiede altro dal sogno e dalla libertà. La possibilità di progresso lungo il percorso dell’acquisizione dei modelli educativi, passa attraverso le dinamiche dell’identificazione, che più facilmente si incarnano nel simile dell’adulto, ma che paradossalmente possono oggettivarsi con successo ancora maggiore nel simile-favoloso del coetaneo, per la capacità della fiaba di oggettivare contemporaneamente il fantastico e il reale.

    La sostanza poetica ed esistenziale del Pinocchio collodiano non va rinvenuta, a parer nostro, in artificiose estrapolazioni di prototipi sociali più o meno rintracciabili, più o meno definiti, come chi vuol vedere ad esempio in Mangiafuoco “la parodia degli atteggiamenti tipici dei superbi”, ma nel vissuto infantile, che popola di fantasmi interpretativi la realtà circostante, dando figura alle paure ed alle istanze di rassicurazione, alle emozioni, in definitiva, attraverso un approccio fiabesco, e dunque irrazionale, al mondo. Vissuto scaturente dal dualismo manicheo che accende il sorriso della Fata e l’agguato della perfidia, avvertiti ingenuamente come alternative corrette della scelta, e che si rivelano invece opposti non ugualmente praticabili in rapporto alle conseguenze che sottendono.

    La precisa definizione delle strutture portanti dell’età evolutiva non si apre a un ventaglio di possibilità interpretative se non nell’ambito di una lettura artificiosa, addirittura errata. Pinocchio non è un coacervo di azioni e di pensieri cattivi che d’improvviso si ordina in un coerente ed organico percorso grazie alla scoperta di un Paradiso perduto. È un bambino che scopre a mano a mano l’effimera consistenza della libertà, della condizione naturale, del segmento ideale della vita. E la tensione al recupero, al riequilibrio tra l’originario tracciato e il granitico urto con i codici di una civiltà apparente, genera un continuo adattamento che non può essere immune da inevitabili scontri di dimensioni esistenziali.

    Il sottile flusso di ironia nella reale presa di coscienza del pensare e dell’agire dell’adulto, sostanzia in effetti questo trapasso, e le convergenze o le divergenze che orientano le scelte, conseguono alla frattura dell’iniziale equilibrio naturale. Sicché il bene e il male sono semplicemente aspetti di una unità interrotta, che nel tentativo di ricostruirsi determina un insieme di processi psicologici che acuiscono il senso dell’individualità, della solitudine, dell’errato proporsi di fronte alla realtà.

    E in questi termini si pone la nostra rilettura che non è alla costante ricerca di sempre nuovi e più complessi stilemi, capaci solo di amplificare toni e personaggi che poco hanno a che fare con la freschezza intuitiva dell’autore. Ancor prima che esegeti o scopritori di ‘notizie’ inedite, ci premeva semplicemente considerare le strutture che sono alla base del consenso spontaneo e universale di una favola che non ha pregi di grande letteratura o di poesia, ma che sicuramente ha intuizioni geniali.

    Tentativo che veste i panni, inusuali per una favola, di un’opera lirica, che recupera la semplicità, l’ingenuità, l’ironia e il senso della realtà in un gioco di musica e parole che libera la fantasia del bambino e parla con serenità all’adulto.

    Se il teatro, come era probabilmente nell’anima dei Greci, non è la rappresentazione della vita sulla scena, ma si muove lungo le scene della vita stessa, una ragione in più giustifica la trasposizione drammatica della favola, conferendole un risalto finalmente realistico e non più semplicemente annidato nella psiche infantile.

    Se poi si aggiunge, alla forza che impersona e che dice, l’apporto di una musica capace di non estraniarsi, ma di aderire con energia e con pregnanza all’essenza dell’oggetto, il risultato, lo crediamo, non diventa soltanto coinvolgente, ma pervasivo, nei confronti dell’infanzia per le ragioni anzidette, nei confronti dell’adulto per l’insopprimibile nostalgia di ritorno al mito di un’età perduta.

    La musica infatti pare, per le sue caratteristiche di indeterminatezza e di allusività, non solo esaltare contenuti dai contorni più evidenti e precisi, ma aggiungere sfumature di sentimento e di emozione diversamente non attingibili.

    L’aderenza al messaggio originario significa dunque salvaguardare l’idea geniale di Collodi ma attraverso un filtro strutturale e caratteriale più vicino a personali esigenze psicologiche ed esistenziali, attraverso le quali il senso della metafora acquista una più coerente e dinamica concordanza con la realtà attuale.

    L’introspezione di Geppetto, seppur ‘elementare’, l’umanità di Mangiafuoco, sotto la maschera dell’iconografia tradizionale, l’inganno di Lucignolo, di cui è vittima egli stesso in prima persona, sono solo alcune esemplificazioni di una reinterpretazione delle figure libera da ogni legame storico, da ogni richiamo sociale e culturale dell’epoca, da un fatalismo indotto che rende omogenea la condizione infantile e la conduce a stereotipo. Il tutto in una chiave esistenziale che in Collodi se mai è sottintesa e non esplicita.

    Il Grillo parlante acquista una dimensione più ampia che somma il senso dell’equilibrio e della saggezza con una funzione di cantastorie super partes, di trait d’union tra i vari segmenti della struttura necessariamente divisa in quadri per la trasposizione scenica.

    Oltre al tessuto narrativo e ed esplicativo dei contenuti, ci è sembrato di intravedere nell’idea collodiana il senso di un mistero, è cioè l’inanimato che si anima, il legno che muta in intelletto, che è sì mistero della vita, ma anche, e forse di più, mistero divino.

    Spontaneamente, dovendo trasporre sulla scena il racconto, il dialogo si è fatto più fitto, ironico e divertente, a volte comico, laddove nella favola tale ironia ci sembra meno evidente.

    Il concertato finale è quasi un concorso dei personaggi nel dichiarare e concludere l’assunto! Quello cioè che in Pinocchio si nasconde l’esperienza di ognuno di noi, nell’aspirazione segreta e non consapevole di conseguire, attraverso una costante identificazione legata ora a fallimenti ora a successi, la conquista della maturità.

    Sandro Bernabei




    C’era una volta …un pezzo di legno


    Ci hanno rubato i sogni.
    Dove reale e virtuale si contendono l’autenticità, fantastico e vero si sovrappongono e finiscono per non distinguersi, impedendo la trasfigurazione e l’evasione.

    Ci hanno rubato i sogni.
    Dove l’uomo ha eretto divinità immanenti e certe, non c’è spazio per la trascendenza possibile: il successo, il denaro e la carnalità, non hanno l’anima fertile degli interrogativi universali dell’anima a cui l’anima rispose con la spiritualità.

    Il sogno è dello spirito.
    E cominciò dalle favole, che prima l’umanità si raccontò e poi raccontò ai suoi figli, per riportare le sue paure e per esorcizzarle, per proiettare i suoi desideri e per avverarli, per rendere sostenibile la crudezza insostenibile.

    C’era una volta… e si accendeva la magia!
    C’era una volta: la magia si è spenta?

    Riprendiamoci i sogni.
    C’era una volta… un pezzo di legno!
    Un pezzo di legno, la metafora della rigidezza, magari dell’uomo moderno non più elastico, tutto d’un pezzo. Al quale attraverso la “Storia di un burattino” Cericola e Bernabei vogliono restituire elasticità, riaccendendo la fantasia nei bambini, risvegliando nell’adulto il bisogno della distrazione sana e del sogno.

    L’adattamento del librettista nasce con l’esigenza del musicista. La versificazione non è solo l’involucro esteriore: è di per sé già musica, se la poesia, come genere, è scaturita dal canto. Il verso è quanto meno successione di sonorità e di accenti, che se non danno la combinazione dei suoni e la struttura della composizione, le suggeriscono, le dischiudono. L’esito melodrammatico nasce dall’affinità ed acquista valore nel talento del binomio che crea.

    L’arte di un libretto operistico sta appunto nel sapersi disporre alla scena ed alla musica, e in questo il libretto di Sandro Bernabei assolve pienamente il suo compito. Va anche oltre, dando alla favola “vera” di Carlo Lorenzini la verità che essa nasconde e per la quale tanto successo e tanta fama ha dato all’autore, pur non essendo, sotto il profilo della scrittura, grande opera di letteratura. Bernabei ha saputo leggere e restituire con freschezza e con arrendevole varietà di ritmi – arresa alle esigenze, naturalmente versatile -, attraenti per l’adulto ed ammalianti per il bambino, la sostanza psicologica che fa della fiaba di Collodi “un piccolo capolavoro”: la spinta delle “forze segrete del sentimento”, l’umorismo pittoresco e malizioso che rende bene accetta “una moralità serena ed umanissima”, la metamorfosi che matura dai fili che reggono i gesti di un soggetto-marionetta, mosso ed orientato, verso il taglio di quegli accessori esterni, estranei, nel momento in cui vengono incorporati, assimilati, e sbocciano in un soggetto autonomo e finalmente consapevole. Consapevole della ricchezza e della varietà delle circostanze e dei protagonisti della commedia, dove ogni cosa ed ognuno rivestono un ruolo differenziato e necessario, per quanto in contrapposizione, in una dialettica di confronto e di crescita che è nel carattere stesso dell’esperienza della vita: “A noi va bene ognuno / così come voi siete”, recita il coro dei bambini nell’epilogo.

    Incantevolmente, con la meraviglia di cui è capace la maturità che conserva l’infanzia, e in modo ancora versatile, la musica ripete la favola e la esalta. Musica flessibile, immaginifica, che allarga gli scenari e caratterizza gli elementi della scena, che suggerisce i momenti psicologici, li sottolinea, da loro sgorga. Che dal verso scaturisce e al verso aggiunge, che sa miagolare e gannire, sedurre e indispettire, incapricciarsi e rasserenarsi, starnutire e parlare, e mentire, ammonire, trasgredire, rispettare, pregare, ridere, piangere, ironizzare e sentenziare, espressione di qualunque stato d’animo e di qualunque linguaggio, di qualsiasi atmosfera e di ogni sfondo, di melodia in melodia, di contrappunto in contrappunto, di sonorità in sonorità, avvolgendo, trasportando, movendo e commovendo.

    Sicché non è difficile sentire che “alla fine poi / Pinocchio siamo noi”, non solo nel processo di sviluppo psicologico, ma anche in tutte le implicazioni che il melodramma dichiara e nasconde apertamente o velatamente, in un tessuto trascinante, capace di proporre in modo mai scontato, mai banale, una dimensione onirica che recupera il favoloso, ma non si allontana dal concreto, da cui nasce; nel rispetto dell’esigenza, come si è detto, di riconquistare la fantasia e il sogno, in un mondo che li ha smarriti.

    Amato Maria Bernabei

    Le avventure di Pinocchio, libretto integrale.


     
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