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"DORA MARKUS": ANALISI E COMMENTO

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    "DORA MARKUS": ANALISI E COMMENTO

    Testo inserito nella prima sezione delle Occasioni, Dora Markus è poesia che conosce una particolare gestazione: se la prima elaborazione risale all’incirca al 1928 (quando il letterato Bobi Bazlen segnala all’amico Montale la bellezza di una ragazza moldava, Dora Markus, che ispira la prima parte del testo), il poeta completa la poesia aggiungendovi la seconda parte solo nel 1939. La parentesi non è solo cronologica, in quanto collega due stagioni ben distinte della poetica di Montale: dalla ricognizione del proprio “male di vivere” negli Ossi di seppia si passa all’allargamento di prospettiva de Le occasioni.
    Il ricordo della Markus e dell’incontro con lei a Ravenna (il “porto Corsini” del v. 2) è lo spunto narrativo per imbastire una profonda riflessione sul senso della memoria e delle azioni umane. All’evocazione di Dora dei vv. 1-10 segue infatti la proiezione del ricordo che il poeta ha di lei, e in particolare della “irrequietudine” (v. 16) che la fa somigliare ad un uccello migratore, in perenne lotta per quella sopravvivenza forse assicurata solo da un “amuleto” (v. 25) che Dora ha con sé e che ci ricorda pure la funzione del “correlativo oggettivo” negli Ossi di seppia, cui questa prima parte è assai vicina. Nella seconda parte, Montale allarga e complica il proprio sguardo: se l’“ormai” di apertura (v. 29) indica da subito la frattura temporale tra i due momenti del ricordo della Markus, a ciò s’aggiunge la dislocazione geografica. Da Ravenna si passa alla Carinzia, terra d’origine di Dora e probabile meta del suo vagare da esule. Montale ricostruisce l’ambiente di provenienza della donna, e ne sottolinea la vicenda (quella di un’ebrea su cui sta per abbattersi la “fede feroce” della persecuzione nazista) per alludere tra le righe ad un più generale fallimento esistenziale e storico. Dora, in cui per ammissione dello stesso Montale si sommano le figure di altre donne da lui amate (tra cui Clizia, e cioè quella Irma Brandeis costretta alla fuga negli Stati Uniti per sfuggire alle leggi razziali), diventa allora simbolo di una vera e propria condizione umana, sradicata e senza certezze, in cui il flusso perverso della Storia (la “voce, leggenda o destino...” del v. 60) pare trascinare senza sosta e senza ragione gli esseri umani. La figura femminile, recuperata dalla memoria, diventa così una ‘occasione’, una possibilità per estrarre una verità (pur di sapore negativo) dalla apparente insensatezza del mondo.
    Stilisticamente elaborata e caratterizzata dal frequente ricorso ad espressioni letterarie marcate e neologismi di spiccato valore metaforico ("lucida di fuliggine", "le tue parole iridavano come le scaglie | della triglia moribonda", "quel lago | d'indifferenza che è il tuo cuore", tra le altre), Dora Markus è composta da versi liberi, tra cui prevalgono endecasillabi e settenari per quanto riguarda la prima parte (vv. 1-28), novenari ed ottonari per la seconda (vv. 29-61).

    Dora Markus

    I

    Fu dove il ponte di legno
    mette a Porto Corsini sul mare alto
    e rari uomini, quasi immoti, affondano
    o salpano le reti. Con un segno
    della mano additavi all'altra sponda
    invisibile la tua patria vera.
    Poi seguimmo il canale fino alla darsena
    della città, lucida di fuliggine,
    nella bassura dove s'affondava
    una primavera inerte, senza memoria.

    E qui dove un'antica vita
    si screzia in una dolce
    ansietà d'Oriente,
    le tue parole iridavano come le scaglie
    della triglia moribonda.

    La tua irrequietudine mi fa pensare
    agli uccelli di passo che urtano ai fari
    nelle sere tempestose:
    è una tempesta anche la tua dolcezza,
    turbina e non appare.
    E i suoi riposi sono anche più rari.
    Non so come stremata tu resisti
    in quel lago
    d'indifferenza ch'è il tuo cuore; forse
    ti salva un amuleto che tu tieni
    vicino alla matita delle labbra,
    al piumino, alla lima: un topo bianco
    d'avorio; e così esisti!

    II

    Ormai nella tua Carinzia
    di mirti fioriti e di stagni,
    china sul bordo sorvegli
    la carpa che timida abbocca
    o segui sui tigli, tra gl'irti
    pinnacoli le accensioni
    del vespro e nell'acque un avvampo
    di tende da scali e pensioni.

    La sera che si protende
    sull'umida conca non porta
    col palpito dei motori
    che gemiti d'oche e un interno
    di nivee maioliche dice
    allo specchio annerito che ti vide
    diversa una storia di errori
    imperturbati e la incide
    dove la spugna non giunge.

    La tua leggenda, Dora!
    Ma è scritta già in quegli sguardi
    di uomini che hanno fedine
    altere e deboli in grandi
    ritratti d'oro e ritorna
    ad ogni accordo che esprime
    l'armonica guasta nell'ora
    che abbuia, sempre più tardi.

    È scritta là. Il sempreverde
    alloro per la cucina
    resiste, la voce non muta,
    Ravenna è lontana, distilla
    veleno una fede feroce.
    Che vuole da te? Non si cede
    voce, leggenda o destino.
    Ma è tardi, sempre più tardi.

    FONTE:http://www.oilproject.org

     
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