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Il Cappello di Paglia di Firenze -musical

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    Il Cappello di Paglia di Firenze
    Teatro dell'Opera di Wexford


    Il-Cappello-di-Paglia-di--009
    Il Cappello di Paglia di Firenze
    Opera House, Wexford



    Il Cappello di paglia di Firenze, tratto dalla famosa commedia omonima di Labiche e Marc-Michel, su libretto dello stesso compositore e di sua madre Ernesta, fu composto tra il novembre 1945 e l'aprile 1946, ma rimase in un cassetto per quasi dieci anni. L'opera ebbe il suo battesimo sulle tavole del palcoscenico del Teatro Massimo di Palermo solo nel 1955, grazie al Maestro Simone Cuccia (al quale Rota aveva fatto conoscere l'opera al pianoforte durante la composizione), che la inserì nel cartellone, una volta divenuto sovrintendente dell'Ente Lirico siciliano. Seguì una produzione di pregio alla Piccola Scala con la regia di Strehler, ripresa per due anni consecutivi; poi il Cappello godette di altre repliche in diversi teatri fino all'esecuzione RAI del 1975, diretta dallo stesso Rota e pubblicata prima in LP e poi in CD dalla Ricordi, colonna sonora di un godibilissimo film TV diretto da Ugo Gregoretti, con Benelli, la Mazzucato, la Cortez, Basiola e Mariotti.
    Se la fortuna esecutiva fino a quel momento era stata discreta per un'opera contemporanea e la risposta del pubblico più che buona, non così positive erano state le posizioni della critica (con la luminosa eccezione di Fedele D'Amico), che da una parte guardava con un certo sospetto il fortunato e richiestissimo autore di "facili" musiche da film, dall'altra era spiazzata da quest'opera "fuori dal tempo" e soprattutto fuori posto nella comunità musicale contemporanea. Era spiazzata anche dalla candida evidenza di voler divertire, senza sottintesi o "messaggi" di sorta, da quel giocare sul nonsense e con la scrittura musicale "à la manière de" mantenendo una cifra personale, riconoscibilissima. La partitura è dunque ricca di riferimenti, tra gli altri, a Rossini e al Belcanto in generale, a Puccini e alla giovane scuola, a Verdi, Stravinsky, Ravel, all'operetta francese, a Gershwin e al musical. Siamo in pieno ambito tonale e le volte che questo viene abbandonato è in concomitanza di effetti particolari, quasi sempre di natura parodistica; si direbbe che Rota tenda a usare il linguaggio della musica contemporanea (evidentemente poco amato) solo quando sia necessario imitare un qualcosa che crei fratture, cesure e impedisca il normale fluire delle cose. È però con le rappresentazioni di Reggio Emilia del 1987 che Il Cappello prende il volo. Questo grazie ad una produzione particolarmente fortunata e rivelatrice: direttore Campanella, Pizzi responsabile della parte visiva, protagonisti Matteuzzi, Rigacci, Zilio, Romero, Riva. Da allora le recite di quest'opera si sono moltiplicate, anche all'estero (a Parigi l'edizione del Teatro Valli ebbe un'accoglienza che non esito a definire trionfale) e pure la critica ha iniziato a mostrare più di un segno di interesse, che ad onor del vero aveva iniziato a manifestarsi già dalla seconda metà degli anni settanta.
    Finalmente anche Firenze si decide a concedere la prima rappresentazione in loco (dopo cinquantasei anni dalla "prima") a questo gioiello del teatro musicale novecentesco. E dico subito che si è trattato di una felice proposta, che nasce dalla collaborazione tra il Teatro del Maggio Musicale Fiorentino e Maggio Fiorentino Formazione, i cui allievi, dopo aver partecipato ai corsi di scenografia per il teatro lirico, di costumista realizzatore e di tecnica di illuminazione degli spettacoli teatrali, hanno contribuito alla realizzazione dello spettacolo. Inoltre alcuni dei ruoli principali sono interpretati da giovani cantanti che hanno seguito i corsi per cantante lirico di Maggio Fiorentino Formazione e della Scuola dell'Opera Italiana del Teatro Comunale di Bologna. Punto di forza la realizzazione della parte visiva affidata alle cure di Andrea Cigni (regia), Lorenzo Cutùli (scene e costumi), Luciano Roticiani (luci). L'impianto scenico, molto semplice, consiste in una serie di cartelloni pubblicitari parigini che delimitano lo spazio in cui si muovono gli attori, da una grande pedana inclinata, che copre quasi tutto il palcoscenico, con sopra riprodotta una classica veduta di Parigi in bianco e nero; pochi oggetti suggeriscono di volta in volta i vari ambienti: un letto, un siparietto che pubblicizza i cappelli di paglia (per la scena dalla modista), delle grandi composizioni culinarie che suggeriscono il banchetto dalla Baronessa, un paravento e immagini con gran dispiego di corna per la camera di Beaupertuis, la garetta della guardia e la sagoma di un portone con l'indirizzo dell'abitazione di Fadinard per il quarto atto. L'ambientazione è spostata negli anni cinquanta del Novecento come suggeriscono i deliziosi costumi. Tutto scorre con la dovuta leggerezza, con notazioni spiritose e garbate. La recitazione dei giovani artisti è curatissima e si intuisce un lavoro capillare in questo senso.
    Nella compagnia di canto spiccava il protagonista Filippo Adami, il quale se in alcuni momenti faceva desiderare una maggiore consistenza nel registro centrale, tuttavia era assolutamente convincente per ammirevole tenuta complessiva, per la dizione, per l'invidiabile talento istrionico (a volte anche troppo esplicito, vedi la conclusione dell'aria del cappello nel secondo atto), la scioltezza scenica, la mobilità e l'acutezza del fraseggio. La sposina Elena (Lavinia Bini), nonostante una vibrato stretto evidente risultava fresca e precisa, in particolare nell'arietta del terzo atto e nell'arioso del quarto. Funzionava anche il Beaupertuis isterico e ansioso di Mauro Bonfanti nonostante una vocalità non sempre gradevolissima, peccato comunque veniale nella realizzazione di questo come di altri caratteri di quest'opera, in cui spesso conta di più la qualità della recitazione e il porgere della frase che la compitezza vocale. Impegnata e spiritosa Romina Tomasoni; però la Baronessa di Champigny richiederebbe ben altro carisma e anche la capacità di dominare uno strumento senz'altro meritevole di essere maggiormente affinato. Fin troppo pacato e garbato Salvatore Salvaggio (Nonancourt), corretto ma poco incisivo. Interessante mi è parsa la vocalità di Francesco Verna nella breve parte di Emilio, giustamente gradasso e spaccone, e apprezzabili anche l'Anaide disinvolta e decisa di Anna Maria Sarra e la puntuale modista di Irene Favro. Saverio Bambi convince di più come "folle vicomtesse" Achille di Rosalba che come Felice. Ben caratterizzati anche la spassosa guardia cagionevole di salute di Leonardo Melani e lo zio Vézinet di Roberto Jachini Virgili. Completavano convenientemente la locandina il caporale di Massimo Egidio Naccarato, Andrea Severi, impeccabile al pianoforte nell'atto di Passy, e il violinista Ladislao Horváth, perfetto nel ruolo di Minardi cui spetta, in chiusura del secondo atto, la storica frase "Io son Minardi, spero che non sia tardi", che trovo uno dei più folli e divertenti esempi di comicità surreale. Sul podio il giovane spagnolo Sergio Alapont dimostra già un sicuro mestiere, ottimo senso ritmico, capacità di tenere in pugno il palcoscenico e di cogliere i tanti trapassi di atmosfera. Un non foltissimo pubblico evidentemente divertito ha tributato un caloroso successo che ha premiato tutti gli artefici della serata compresi tutti gli allievi-realizzatori che alla fine hanno sfilato sulle note del tema di "Otto e mezzo" e il coro del Maggio assai coinvolto e impegnato con lodevoli risultati.

    Silvano Capecchi


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    Edited by Lussy60 - 14/11/2013, 11:15
     
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