Claudio Baglioni Forum - Un mondo in musica

i mille perchè!!!!

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    Perchè si dice occhio di lince?

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    Linceo si scontrò contro i Dioscuri che avevano rapito la sua promessa sposa ma, grazie alla sua vista riuscì a scoprirli nonostante fossero nascosti nel tronco di una quercia.


    Perchè gli squali hanno tante file di denti?

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    Probabilmente questo tipo di dentizione è dovuto a un’insieme di cause ambientali ed evoluzionistiche che a metà del Paleozolico, l’era geologica in cui iniziarono a svilupparsi gli squali, influirono sulla loro morfologia.

    E’ noto invece come i denti si siano evoluti: derivano dalle placche dermiche, ispessimenti della pelle che coprivano il corpo degli quali primitivi, Quelle più vicine alla bocca divennero denti disposti in più file.

    Soltanto la fila anteriore è funzionale, cioè viene usata per afferrare la preda, che poi viene inghiottita intera. I denti posteriori invece (in media le file sono circa 5-6) sono in formazione e slittano in avanti nel momento in cui quelli funzionali della prima fila cadono perchè usurati o persi. Questa sostituzione avviene, a seconda della specie e dell’età, ogni 8-15 giorni circa.

    Uno squalo nel corso della propria vita può perdere dai 10mila ai 50 mila denti!


    Le sabbie delle spiagge italiane sono diverse?

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    Le spiagge sono fasce di terra contese dal mare, dove fenomeni erosivi prodotti da onde, maree e correnti (unitamente al trasporto di materiale da parte dei fiumi) depositano elementi molto diversi, dalla ghiaia all’ argilla. La sabbia, però, è il maggiore costituente. Le sue caratteristiche dipendono dal materiale che è stato eroso e deposto e quindi, lungo gli oltre 7.300 km di coste italiane, le differenze tra una spiaggia e l’ altra sono notevoli.

    Rosa e nera. Per esempio, la sabbia della spiaggia rosa di Budelli, in Sardegna, ha un origine biologica. Il fondale sabbioso antistante, infatti, è ricoperto da una prateria di poseidonia, pianta marina con lunghe foglie a forma di nastro, sui cui fusti sono presenti concrezioni rosa formate da un organismo unicellulare (Miniacina miniacea) che ha uno scheletro calcareo. Quando questo organismo muore si stacca dall’ alga e viene portato a riva dove dà il colore rosa alla spiaggia. La spiaggia nera dell’ isola di Vulcano, invece, si è formata dall’ erosione e dalla deposizione di materiale vulcanico.


    Sai perché si dice “in bocca al lupo”?


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    Vi siete mai chiesti perché si utilizza l’espressione ” in bocca al lupo” prima di una prova importante? E vi siete mai domandati da dove proviene la risposta “crepi” ? Ecco le varie origini di queste espressioni.

    Vi siete mai chiesti perché prima di un avvenimento importante si è soliti pronunciare l’espressione “in bocca al lupo”? E vi siete mai domandati cosa c’entrano i lupi con l’origine di questa espressione?

    Sono molteplici le teorie che cercano di elaborare l’origine di questa frase. C’è chi pensa che questa espressione abbia origine latine o chi addirittura pensa che provenga dal lessico marinaresco.

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    Si pensa che il detto era molto diffuso nel mondo degli Antichi Romani, i quali lo utilizzavano molto spesso alludendo alla leggenda di Romolo e Remo. I due protagonisti della leggenda della fondazione di Roma sono finiti nella bocca della lupa che li aveva salvati dai pericoli a cui erano sottoposti.

    Poi c’è anche chi pensa che l’espressione abbia origini marinaresche. Quando Venezia era una Repubblica Marinara, i capitani delle navi commerciali di ritorno dalle loro spedizioni registravano il bilancio dei sopravvissuti e delle risorse accumulate su una lavagna chiamata “la bocca di lupo”, perciò si augurava “in bocca al lupo” per augurare un buon viaggio.

    E come è nata la risposta “crepi”? Si dice che i cacciatori usavano questo augurio, perché per andare a caccia di lupi per ricavare le pellicce, ci si doveva avvicinare molto ad essi quasi da trovarsi “nella bocca del lupo” e i parenti e gli amici del cacciatore utilizzavano l’espressione “crepi” perchè si auguravano che il lupo morisse.



    Sai perché invecchiamo?

    Ecco perché con il passare del tempo siamo destinati ad invecchiare.


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    Quante volte avete desiderato di restare per sempre belli e giovani? Vi siete mai chiesti il motivo per cui con il passare del tempo sul nostro corpo iniziano a manifestarsi i primi segnali di invecchiamento? Nel corso degli anni molti gruppi di scienziati si sono interrogati su questo argomento e sono arrivati alla conclusione che noi invecchiamo a causa dei nostri telomeri.

    Prima di tutto per comprendere meglio bisogna ben sapere che i telomeri sono le estremità dei cromosomi che evitano, per un certo periodo di tempo, l’invecchiamento e ci proteggono dal deterioramento. Con il passare degli anni l’uomo tende a perdere questi telomeri e man mano che diminuiscono inizia il processo di invecchiamento. Più telomeri vengono persi e più l’uomo invecchia.

    Queste estremità si accorciano ad ogni ciclo di proliferazione delle cellule causando l’invecchiamento cellulare. Una delle principali conseguenze dell’invecchiamento delle cellule è l’arresto della loro riproduzione. Ovviamente ci sono altre cellule, come per esempio i neuroni, che non perdono i propri telomeri ma invecchiano ugualmente a causa di altri fattori.

    Comunque la causa principale dell’invecchiamento degli uomini è la perdita progressiva dei telomeri. Anche se gli scienziati stanno lavorando molto per trovare un modo per evitare l’invecchiamento, ancora invecchiare è inevitabile.



    Perché alcuni vengono punti dalle zanzare più di altri?

    Molti rispondono a questa domanda semplicemente dicendo che alcune persone hanno un sangue più dolce o più apprezzato dalle zanzare, ma in realtà dipende dalla quantità di anidride carbonica che trasportano le persone pizzicate: le zanzare ne sono attratte. Oltre a questa, esse badano anche al calore e alle sostanze chimiche emanate.

    Inoltre, può cambiare anche la reazione alle punture di questi insetti, infatti questo si basa sulla sensibilità della pelle, che cambia con l’età. Generalmente, i bambini dai 4 anni in giù non sentono nulla, mentre quelli tra i 4 ed i 6 anni sentono il prurito entro 20 minuti. Più si cresce, più la reazione è ritardata.

     
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    [CENTER]Perché si dice "essere a cavallo"?

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    Per rispondere a questa domanda bisogna pensare al valore del cavallo nel Medioevo: possederlo e usarlo, nelle attività agricole, per viaggiare, in guerra, era un privilegio. Dunque salire a cavallo rappresentava un passaggio di status sociale, una facilitazione nella propria esistenza. L’importanza dell’animale è ricavabile anche dal motto cinquecentesco «a caval donato non si guarda in bocca».

    DONATO. Il cavallo era il regalo per eccellenza e guardare in bocca si riferisce a un controllo della dentatura, uno degli elementi fondamentali, insieme alla forza dei piedi, per stabilirne lo stato di salute e dunque il reale valore del dono.

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    Perché si dice “fare d’ogni erba un fascio”?

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    L’espressione viene usata per indicare una situazione in cui si tende a generalizzare eccessivamente ed erroneamente, mentre si dovrebbe focalizzare meglio il caso specifico. Il riferimento è alla pratica, che i contadini ritenevano non corretta, di mischiare erbe di tipo differente.

    In italiano esistono tanti modi di dire ma uno dei più usati è quello che recita ‘fare d’ogni erba un fascio‘ che ha il significato di generalizzare volutamente, ragionare a casaccio prendendosela indistintamente con tutti o per tutto.
    Insomma, ‘fare d’ogni erba un fascio’ non è mai una cosa bella perché è sintomo dell’impossibilità o della mancanza di volontà nell’ammettere che non è tutto è uguale, che non tutte le persone sono le stesse.
    Il perché si dica così ci riporta – come ben si capirrà – alla vita di campagna nella quale i contadini erano soliti mietere l’erba al fine di dare da mangiare agli animali posseduti e quando si mieteva l’erba per poi costituire dei fasci, degli insiemi, era un gesto che indistintamente colpiva qualsiasi tipo d’erba senza separazione alcuna.

    tempi addietro le merci venivano trasportate su grossi e lunghi carretti trainati da uno o più cavalli. Il loro tragitto ,talvolta, superava molte decine di chilometri e, specie nei periodi estivi quando il caldo spaccava le pietre, le povere bestie , oltre ad essere stanche , avevano anche fame e sete. Per tale motivo, lungo le strade vi erano venditori di gramigna . Il venditore doveva fare fasci di gramigna , ben lavata ed assicurarsi che non vi fossero altre specie di erbe mischiate nel fascio che potesse nuocere alla salute dei cavalli. Questa era la frase che esprimeva il malcapitato carrettiere quando si accorgeva che al fascio di gramigna si erano aggiunte altre erbe estranee al far bisogno della bestia Almeno così penso che sia sorta l' espressione "di fare d' ogni erba un fascio".

     
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    sai perchè si dice ‘ciao’?

    Tutti siamo abituati a salutare amici e conoscenti con il saluto confidenziale: ‘ciao’. Ma vi siete mai chiesti da dove derivi questa parola?
    Nei tempi antichi si usava il saluto deferente schiavo (come a dire: ‘servo suo’); in seguito, in veneto in particolare, la parola venne abbreviata e diventò s-cio.
    In seguito ha subito ancora una trasformazione, diventando ciao. In questo modo però il saluto, che prima era deferente, è diventato il più confidenziale.
    Fino un secolo fa circa, questa espressione era usata solo nell’Italia settentrionale.
    Fonte: exmontevecchio.com

     
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    Perché si dice "pietra dello scandalo"?

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    Perché, nell’antica Roma, i debitori e i commercianti falliti venivano esposti a una pubblica umiliazione, la bonorum cessio culo nudo super lapidem (cessione dei beni, a natiche denudate, sopra una pietra): in quelle condizioni, il malcapitato doveva gridare “cedo bona”, ossia “cedo i miei averi”. Da qui l’espressione “essere la pietra dello scandalo”, che significa essere oggetto di clamore per azioni riprovevoli.

    In ogni città
    A Roma, la “pietra dello scandalo” era un macigno vicino al Campidoglio. Ma ve ne sono in tutta Italia, anche di periodi posteriori. A Firenze ce n’è una nella loggia del Mercato Nuovo: è un tondo che rappresenta la ruota del Carroccio, simbolo della Repubblica Fiorentina. Vi si compiva l’“acculata”: il fondoschiena di debitori e disonesti vi veniva sbattuto violentemente, a braghe calate, fra gli sberleffi dei presenti. A Modena, la pietra “ringadora” (“dell’arringa”, perché anche usata come palco dagli oratori) in Piazza Grande, veniva anche unta di trementina.

    fonte:http://www.focus.it/



    Perché il Teatro alla Scala si chiama così?

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    Il Teatro alla Scala di Milano prende nome dalla piazza dove è stato costruito, l’omonima piazza della Scala. Questa, a sua volta, si chiama così perché vi sorgeva, dal 1381, la chiesa di Santa Maria alla Scala. Questa chiesa prese il nome della sua committente, Beatrice Regina della Scala, discendente della potente dinastia veronese, oggi estinta, dei della Scala (era nota anche come “famiglia scaligera”).

    Un buon matrimonio
    Regina della Scala sposò nel 1345, a soli 12 anni, Bernabò Visconti, signore di Milano, e gli diede 15 figli. Quando nel 1776 Maria Teresa d’Austria ordinò la costruzione del teatro, la preesistente chiesa, di stile gotico, fu abbattuta per far posto al nuovo tempio della lirica.

    fonte:http://www.focus.it/

     
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    Perché si dice che le gambe “fanno Giacomo Giacomo”?


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    Perché la gambe fanno “Giacomo Giacomo” e non “Luca Luca” o “Matteo Matteo”? Come ogni fine settimana, scegliamo un quesito linguistico risolto dall’Accademia della Crusca. «La questione è stata ampiamente trattata in un articolo di Ornella Castellani Pollidori all’interno del volume L’Accademia della Crusca per Giovanni Nencioni (Firenze, Le Lettere, 2002, pp. 333-356)», rispondono.

    Perché le gambe fanno “Giacomo Giacomo”?

    La Crusca risponde “Le attestazioni del detto in epigrafe ricavabili dalla lessicografia storica sono decisamente scarse. D’altra parte, non c’è da meravigliarsi che emerga di rado nella tradizione letteraria una formula decisamente connotata in senso popolare, e perciò viva soprattutto nell’uso parlato, com’è questa che attribuisce alle gambe la curiosa proprietà di fare, in determinate situazioni, giacomo giacomo. Basti dire che gli esempi d’autore forniti dai dizionari storici non superano complessivamente il numero di sei. Si va dall’isolata attestazione nella commedia La serva nobile (1660) del fiorentino Giovanni Andrea Moniglia (1624-1700), data dalla V impress. del Vocabolario della Crusca, alle cinque - nell’ordine: di Moniglia, Giovanni De Gamerra, Collodi, Idelfonso Nieri, Bacchelli - registrate nel Grande Dizionario della Lingua italiana fondato dal Battaglia (GDLI); una sesta testimonianza, che risulta poi la più precoce essendo quella offerta, a due riprese, dall’Eneide travestita (1633) dell’umbro Giovan Battista Lalli (1572-1637), si ricava dal Tommaseo-Bellini (s. v. Giacobbe, 4)”.

    Si citano poi le attestazioni ancora anteriori nella commedia dialettale La Pace (1561) del veneziano Marin Negro, individuata da Massimo Bellina, e nel Baldus (1517/1518) di Teofilo Folengo, segnalata da Ottavio Lurati a proposito della quale “inutile dire che il maccheronico folenghiano garantisce appieno la vitalità popolare dell’espressione”.

    La Castellani Pollidori stessa ne aggiunge un’altra che “precede di ben 83 anni la coppia di attestazioni dell’Eneide travestita del Lalli. Devo la piccola scoperta a un accenno che mi ha colpito nello scorrere il lemma Giacomo del Dizionario etimologico-pratico-dimostrativo del linguaggio fiorentino di Venturino Camaiti (Firenze, Vallecchi, 1934): «Far Giacomo Giacomo, o Diego Diego, o Diego e Giacomo: Ripiegarsi sulle ginocchia per fiacchezza. Far Giacomo Giacomo è modo usato anche anticamente, e lo trovo in una nota dell’edizione del 1550 del Morgante, canto XXIV v. 125»”.[...]

    “Non è certo un caso che, a fronte della penuria di attestazioni d’autore, i lessici dialettali forniscano una documentazione abbondante e geograficamente estesa del detto che chiama in causa le gambe e Giacomo; sicché è essenzialmente su quelli che si può contare per tentare una ricostruzione della sua storia. [...] Considerato lo stato della questione, sarà opportuno valutare innanzitutto, ricorrendo a un numero sufficientemente rappresentativo di dizionari dialettali, la portata della diffusione del modulo sull’intero territorio italiano”.

    A questo punto l’Autrice elenca testimonianze tratte da repertori dialettali di Piemonte, Lombardia, Triveneto, Emilia, Toscana, Umbria, Abruzzo, Campania, Sicilia e, fuori dei confini nazionali, Corsica: questa grande diffusione sul territorio italiano sembrerebbe escludere l’origine del modo nell’area friulano veneta come era stato ipotizzato in particolare dal Bellina.

    “L’origine geografica della locuzione resta in effetti un problema da risolvere: ma non il solo: occorrerebbe anche capire cosa c’entra l’antroponimo Giacomo con le gambe che tremano e a chi dobbiamo, ossia da dove ci viene, un’invenzione apparentemente così strampalata. [...] Tra le varie spiegazioni suggerite, la più condivisa è quella alla quale la ricerca etimologica, in casi di difficile decifrazione, tende a ricorrere con una certa facilità: la motivazione fonosimbolica”, ovvero quella che riconduce la locuzione al suono giac giac che farebbero le ginocchia cedendo alla stanchezza.

    La Castellani Pollidori passa in rassegna i sostenitori di questa ipotesi a partire dal Tommaseo-Bellini fino al GDLI e conclude la disamina con le parole del DELI (s.v. gamba): “Per avere le gambe che fanno giacomo giacomo [...], loc. ampiamente diffusa anche nei dial., non s’è trovato ancora di meglio della proposta onom[atopeica]”.

    Jacques in Francia è il nome tipico del ‘contadino’, anche con l’accezione negativa di ‘semplicione’, ‘debole di mente’ e di fisico, colui che trscina le gambe
    Per l’Autrice invece “decisamente innovativa suona l’ipotesi etimologica avanzata a suo tempo, sia pure con una certa cautela, dal DEI: «Detto delle gambe che si piegano per la stanchezza o per la debolezza, fanno g. g.; dal personale Giacomo (lat. Jacōb) forse per accostamento alla stanchezza dei pellegrini che si recavano a S. Giacomo di Compostella in Galizia [...]» (s. v.giàcomo1, vol. III, 1952)”.

    Sulla questione etimologica sono state successivamente avanzate due diverse proposte di Ottavio Lurati (1991) e di Massimo Bellina (1997) che meritano, secondo la Castellani Pollidori, un attento esame.

    “Il Lurati è sulla linea del DEI nel ritenere che nella spersonalizzazione dell’antroponimo che connota il detto si dissimuli il nome di San Giacomo. Ma mentre con l’ipotesi abbozzata dal DEI si profila all’origine della formula un dato storico - i pellegrinaggi medievali a Santiago di Compostella -, secondo il Lurati è l’antropologia culturale a svelarci l’arcano di un detto che, «a guardarlo più da vicino, si rivela un riferimento a radicate concezioni mitiche, al ponte di San Giacomo, all’ideologia della morte quale si è organizzata nelle società subalterne». [...] A sostegno della sua interpretazione il Lurati allega alcune testimonianze raccolte in Sicilia, sullo scorcio degli anni Sessanta, presso donne anziane di varie località del circondario di Enna. Si tratta di questo: nell’immaginario locale, «al momento dell’agonia, San Giacomo viene a prendere l’anima del moribondo e la porta in cielo lungo la strada della Via Lattea, detta appunto la "strada di San Giacomo". Se però al morto si allacciavano i piedi, l’anima non poteva viaggiare, [...] rimaneva nell’aria, come l’anima di Giuda, il traditore». Lo studioso ticinese non ha dubbi sul rapporto tra il detto delle gambe che fanno giacomo e tale ingenua credenza popolare: «Il tema non è dunque quello dei pellegrini in cammino verso San Jacopo, quanto quello della connessione di San Giacomo con la morte» [...]. Una connessione che viene «confermata da una testimonianza assai distante geograficamente, collocata com’è all’altro capo d’Italia, nelle valli grigionesi»”; in tale area infatti esisteva un giuoco fanciullesco che rappresentava la morte di San Giacomo, per cui fer giacum giacum in tale contesto significava morire. Un altro riscontro Lurati lo individua in area calabrese dove sono testimoniate espressioni evocanti il passaggio dalla vita alla morte come un transito del ponte di San Giacomo. In conclusione, secondo l’ipotesi di Lurati, la strada di san Giacomo «non era più la strada per la specifica località galiziana, bensì era la strada verso l’aldilà».

    A proposito di questa interpretazione l’Autrice scrive tra l’altro: “Debbo confessare che la ricostruzione del Lurati non mi persuade. Sembra davvero difficile che un modo di dire votato da secoli al burlesco come le gambe fanno giacomo giacomo possa aver tratto origine da un complicato intreccio di temi religiosi, miti e superstizioni popolari, il tutto dominato da cupe visioni di morte. Nessuna sfumatura di drammaticità sopravvive nell’impiego secolare dell’espressione far giacomo giacomo”.

    Si tratta poi la proposta interpretativa del Bellina, secondo il quale “per la spiegazione del detto «resta in piedi solo l’origine onomatopeica» [...], che sarebbe «confortata del resto dalla variante iterata che rappresenterebbe una duplicazione fonosimbolica seriore» e “poggia anche sul «parallelismo con forme analoghe sicuramente di origine imitativa, in cui il verbo fare indica la produzione di un suono» (il riferimento è in particolare all’espressione fare lappe lappe corrispondente, ma su un registro più triviale, a fare giacomo giacomo nell’accezione ‘tremare per la paura’[...]). Ma, obietta non senza ragione il Bellina, parlare genericamente di onomatopea, come per lo più vien fatto, non basta: occorre individuare da cosa precisamente nasce lo spunto fonico che la lingua traduce con la voce giacomo, semplice o raddoppiata che sia. In parole povere, bisogna chiedersi: «Come e quando [...] le gambe che vacillano o tremano producono un rumore?».

    La risposta è recisa: «Solo quando, private di energia per paura o debolezza, procedono stancamente trascinando i piedi a terra» [...], e immediatamente lo studioso spiega da dove trae tanta sicurezza, dando insieme la sua personale soluzione al problema del detto: «E per l’appunto in area veneta, già dal primo Trecento, compare la voce imitativa giach per riprodurre il rumore dello strascicamento dei piedi, dell’acciabattio. [...] In conclusione: una originaria forma fare giach, [...] riferita ai piedi che si trascinano, si sarà ampliata in fare giacomo, con accostamento popolare-scherzoso al nome proprio, e iterata per conferire maggiore espressività ritmico-imitativa [...]»”.

    Per la Castellani Pollidori però “la soluzione che prospetta il Bellina non è realistica” soprattutto perché nel documento citato a sostegno dell’interpretazione di fare giach come riproduzione del rumore tipico dell’acciabattìo, l’espressione sarebbe in realtà riferibile allo scalpiccio di piedi in movimento di gente armata, ovvero a un “trepestìo marziale e fragoroso di calzature ferrate: tutt’altra cosa, insomma, che un «procedere stancamente trascinando i piedi a terra»”.

    fare giach è l’espressione tipica di chi in guerra trascinava le gambe a fatica
    Ecco allora la nuova ipotesi dell’Autrice. “Un dato, a cui mi pare non si sia prestata finora l’attenzione che merita, è la presenza, in varie parlate della penisola, dell’antroponimo Giacomo nel senso di ‘semplicione’, ‘uomo debole di mente’. [...] Si è visto che diversi dizionari rinviano per il personale Giacomo usato come equivalente di ‘babbeo’ al corrispettivo francese Jacques, nomignolo tradizionale del "paysan" che assunse presto la poco lusinghiera accezione di ‘niais, imbécile’. Tutto a partire dalla circostanza storica che già il Migliorini evocava nel suo Dal nome proprio al nome comune (p. 224): «Jacques è in Francia il nome tipico del ‘contadino’: esso risale almeno alla terribile ribellione dei contadini del maggio-giugno 1358, detta appunto Jacquerie, il cui capo sarebbe stato soprannominato lui stesso Jacques Bonhomme: di qui il significato, pure antico, di ‘sciocco’»”.

    A questo punto si approfondisce l’indagine sulla storia del termine francese e mette in luce in particolare la “compresenza nelle due distinte tradizioni del depersonalizzato giacomo-jacques, di originaria impronta contadinesca, con la stessa accezione negativa di ‘semplicione’, ‘debole di mente’ (‘nigaud’, ‘simple d’esprit’)” e la circostanza che “il medesimo termine dà luogo in entrambe le lingue a una locuzione popolare d’identica struttura: far giacomo - faire le jacques”.

    A proposito della mancata coincidenza di senso tra le due locuzioni, la Castellani si pone la domanda “che cosa può aver davvero voluto dire, inizialmente, le gambe fanno giacomo? Le definizioni fornite dalla lessicografia parlano tutte di gambe (più raramente di ginocchia, piedi o talloni) che tremano, vacillano, perché rese deboli da un forte spavento o una gran fatica. Di gambe del genere, che improvvisamente si fanno molli, non reggono più, non sarebbe possibile dire, per traslato, che si comportano da scimunite, da imbecilli? (Come non ricordare, a questo proposito, che in latino imbecillus e imbecillitas coniugavano significativamente la debolezza fisica con la debolezza mentale [...]). Persa, col passar del tempo, la cognizione del traslato originario, non è strano che l’interpretazione popolare abbia finito col focalizzarsi sul tratto materiale e buffonesco delle gambe che traballano. Così pure non è strano, oserei dire, che nella versione delle parlate italiane si sia insinuata e sia infine prevalsa l’iterazione del nome, fare giacomo giacomo: mentre nel francese faire le jacques il soggetto gratificato del titolo d’"imbécile" è ancora un individuo reale, nella locuzione italiana fare giacomo si è insinuata quella duplicazione espressiva che è tratto endemico nella tipologia dell’avverbialità popolare: cfr. pian piano, lemme lemme, passo passo, bel bello, man mano, via via, ecc; senza dimenticare il ritmato cammina cammina della lingua delle fiabe (e dei Promessi Sposi)”.

    Dopo una serie di confronti che tralasciamo, l’Autrice conclude: “Direi insomma che sono vari i fili che visibilmente legano le due vicende, quella del nostrano giacomo e quella del francese jacques. Troppi, per pensare a mere coincidenze; abbastanza, mi sembra, per ritenere che l’impulso iniziale per l’assunzione del nome Giacomo nel detto delle gambe che tremano sia venuto dal francese. Del resto, è un fatto che, nel quadro generale della distribuzione del modulo, la presenza delle testimonianze risulta concentrarsi in particolare nelle aree che più direttamente e lungamente furono interessate nei secoli dall’influsso del francese: regioni settentrionali, Toscana, e nel Meridione le aree del napoletano e del siciliano”.

    Adattamento a cura di Matilde Paoli
    Redazione Consulenza linguistica
    Accademia della Crusca

     
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    Sai Perchè???

    Sai perchè si dice O.K.?


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    L'espressione "ok" viene usata tutti in giorni e in qualsiasi occasione. Ma ne conosci l'origine?

    Quante volte vi è capitato di scrivere, dire o usare gesti per dire "OK"? Ma cosa significa veramente e, soprattutto, quando è nato questo modo di dire? Le ipotesi sull'origine di questa parola ormai entrata a far parte del nostro linguaggio sono tre. Vediamole insieme!

    Alcuni sostengono che il termine sia entrato nel linguaggio comune dopo la Seconda Guerra Mondiale. I militari americani, infatti, dopo le battaglie facevano un giro di perlustrazione per contare o recuperare i soldati rimasti uccisi. Alla fine scrivevano su una bandiera il numero dei morti seguito dalla lettera K, l'iniziale di "Killed" che in inglese significa "uccisi". Quando, in rari casi nessuno era morto, sventolavano la bandiera con scritto OK". Ossia zero uccisi.

    Secondo altri, il termine "Ok" deriva dalle elezioni presidenziali americane avvenute nel 1840. Uno dei candidati era Martin Van Buren, il presidente già in carica. Per vincere le elezioni, Martin utilizzò varie associazioni e una di queste si chiamava Old Kinderhook Club, O.K. Club. Cosa succedeva? I partecipanti tra di loro usavano l'espressione O.K. per dire che tutto sarebbe andato bene se Martin avesse vinto.

    Terza e ultima ipotesi viene dalla Russia. Secondo i russi, infatti, OK, deriva dall'espressione "Ochen Korosho", che gli scaricatori di porto di Odessa utilizzavano per avvertire che il carico era stato messo a posto senza problemi.
    Conoscete altre origini della parola OK? La utilizzate come espressione o preferite l'italiana "va bene"?

    fonte:http://www.focusjunior.it/

     
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    Perché si dice "fare il biscotto"?

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    Nel calcio significa "combinare, alterare il risultato di una partita". Da oggi molti pensano che lo stesso valga nel motociclismo. Ma l'espressione deriva dal mondo dei... cavalli.

    Anche se non siete appassionati di motociclismo, ormai l'avrete capito: Valentino Rossi ha compiuto un'impresa eccezionale: da ultimo in griglia di partenza è arrivato quarto. Ma questo non è bastato al pilota italiano per vincere il Mondiale di Motogp perché - secondo molti - Marc Marquez e Dani Pedrosa non hanno mai cercato di impensierire Jorge Lorenzo, servendo a Valentino Rossi un bel biscotto (spagnolo).

    Chiariamo subito: non è nostra intenzione accusare nessuno e neppure giudicare il comportamento sportivo dei piloti. Ci interessa invece capire perché, in questi casi, si dice proprio "fare il biscotto"?

    IN PRINCIPIO FURONO I CAVALLI. Verosimilmente l'espressione deriva dal mondo dell'ippica, in particolare dagli ambienti delle scommesse clandestine. Il "biscotto" in questione (ultimamente si usa anche la parola "torta") sarebbe una galletta, impastata con sostanze proibite (stimolanti o sedative, a seconda dello scopo), che viene dato da mangiare a uno o più cavalli prima della gara, per alterare il risultato della competizione (e gli esiti delle scommesse).

    In quegli ambienti "preparare un biscotto" è diventato così sinonimo di combine, di "truccare a proprio vantaggio" l'esito di una gara. E con modalità diverse, ma finalità analoghe, è stato adottato nel mondo del calcio. E di altri sport.

    fonte:http://www.focus.it/

     
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    Perché per salutare ci si leva il cappello?


    Da dove arriva questa usanza diffusa in Occidente?

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    Levarsi il cappello, o a volte anche solo accennare a farlo toccando la tesa, è un gesto convenzionale non verbale molto diffuso in Occidente, soprattutto fra gli uomini. In passato il copricapo poteva segnalare l’appartenenza a un elevato rango sociale e il toglierlo rappresentava un atto di umiltà. L’esempio più chiaro è l’uso, limitato agli uomini, di entrare in chiesa a capo scoperto.

    RISPETTO. Questo gesto tradizionale ha dato vita ad alcuni modi di dire, e non solo in Italia, che indicano l’intenzione di compiere questo atto per rendere omaggio, esprimere rispetto o ammirazione nei confronti di qualcuno. Ad esempio, se noi usiamo dire “(faccio) tanto di cappello!” i francesi utilizzano la nota espressione "chapeau!" (termine che significa appunto “cappello”) con lo stesso significato.

    Nelle società occidentali, levarsi il cappello è un segno convenzionale non verbale di saluto o ringraziamento. Esso viene solitamente effettuato solo dai maschi. Il copricapo, infatti, aveva tradizionalmente per gli uomini la funzione di segnalare un certo rango sociale[1], e il privarsene rappresentava un gesto di umiltà (così, ad esempio, è d'uso entrare in chiesa a capo scoperto).


    Il gesto
    Il gesto può andare dal semplice accenno fatto portando la mano alla tesa del cappello al togliersi il cappello in modo più o meno ostentato, giungendo, nei casi più estremi, ad accompagnare l'atto con un inchino (è soprattutto in questi casi particolarmente ostentati, oggigiorno in disuso se non con valenze ironiche, che in italiano si usa il verbo scappellarsi).

    Se portato al petto, con un inchino appena accennato, è un gesto di rispetto nei confronti di un conoscente appena deceduto.

    Espressioni verbali
    Il gesto ha dato vita ad alcune espressioni verbali, che descrivono l'intenzione di compiere questo atto, in segno di rispetto, solitamente per esprimere ammirazione. Tale è la locuzione italiana "(faccio) tanto di cappello!". A volte è in uso anche il corrispettivo francese "chapeau!" (cappello). Dato il minor legame con la gestualità, l'espressione verbale non è limitata ai soli uomini.

    L'espressione corrispondente in inglese, hat tip, è in uso anche nel gergo della blogosfera (cui è pervenuta, come molte altre, dall'ambito anglofono). Viene spesso abbreviata in "HT" o "h/t", o anche scritto "hat-tip".

    Viene indirizzata dall'autore del blog (o di un post) a qualcuno cui vuole riconoscere il merito di aver portato un importante contributo ad un'attività specifica, di aver segnalato qualcosa di nuovo o interessante, o di aver fatto un intervento significativo.

     
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8 replies since 30/1/2015, 15:47   157 views
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