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Sono passati 71 anni da quando i Russi il 27 gennaio del 45 scoprirono ad Auschwitz e dintorni il più grande luogo di sterminio nazista spalancando le porte di un orrore indicibile. Nel '71 ero in giro in Polonia per la mia terza tournée di concerti nell'Europa dell'Est. Viaggiavamo ogni dì tutti in pullman per raggiungere i posti e i teatri dove avremmo cantato e suonato la sera. Quel giorno bigio e piovigginoso stavamo attraversando un po' insonnoliti un territorio di boschi e paludi. Arrivando ad un grande cartello stradale con su scritto Oświęcim il traduttore avvertì me e i miei musicisti ch'eravamo in anticipo sul ruolino di marcia e che ci saremmo fermati per visitare un sito "famoso di carcere e di lavoro". Distratti dal viaggio nessuno di noi collegò quello strano nome polacco ad Auschwitz e alla sua terribile storia. C'incamminammo nell'umido freddo verso le recinzioni di filo spinato a linee ordinate e sovrapposte passando un cancello con sopra una scritta tortuosa tra due cornici di ferro Arbeit match frei "il lavoro fa liberi" - disse la nostra guida -. Mi colpì la B di Arbeit saldata al contrario. "Per protesta di fabbro" rispose la guida. Strusciammo vialetti spogli e paralleli ai reticolati ad alta tensione tra i blocchi delle basse baracche con i mattoncini a vista. Mentre l'accompagnatore parlava ascoltavamo quasi meccanicamente e cominciavamo a renderci conto. Qui concentravano 'i morti in vacanza'. Dapprima i dissidenti polacchi. Gli intellettuali e gli oppositori. Poi i prigionieri di guerra per lo più russi. Quindi i criminali comuni tedeschi. Infine tantissimi ebrei e gli zingari. E ancora i cosiddetti asociali. Prostitute e omosessuali. Deportati e internati nei campi. I malati, i vecchi, i bambini insomma gli inabili erano subito eliminati. Gli altri - i rinati - venivano messi a produrre le teste rasate e le ossa sempre più in fuori con le divise a pigiama rigato e gli zoccoli la matricola su una pezza di vari colori cucita all'altezza del cuore e un numero tatuato all'interno del braccio. Entrammo ancor più costernati nelle camerate coi letti a castello e i pagliericci senza cuscini e coperte e nei magazzini con le valigie accatastate e le scarpe, i vestiti e gli occhiali. Avanzammo lungo il cunicolo detto 'la strada del paradiso' per arrivare alle docce e alle camere a gas attaccate ai forni con i camini e le ciminiere e non lontano le fosse dei roghi. Seguimmo tutto il tremendo percorso di quella fabbrica della morte che gli aguzzini chiamavano 'svelta e dolce' con cui annientarono come in una catena e solo lì un milione e mezzo di poveri cristi. Nel fare il tragitto obbligato verso l'uscita ero come stordito sperando in cuor mio che fosse come nei parchi tematici o negli ex teatri di posa del cinema dove sai che è tutta pura finzione. Ma sulle pareti una teoria infinita di foto e gente con su solo gli occhi mi confermò che non era così. Uscimmo a riprendere il pullman in un silenzio irreale e sgomento e nessuno fiatò per tutto il resto del tempo.
Primo Levi lo scrittore e poeta torinese sopravvissuto alla detenzione ci lasciò, tra le tante, queste parole: L'Olocausto è una pagina del libro dell'Umanità da cui non dovremo mai togliere il segnalibro della memoria. Auschwitz è fuori di noi ma è intorno a noi. È nell'aria. La peste si è spenta ma l'infezione serpeggia. Se comprendere è impossibile conoscere è necessario.
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