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Natura Perché il cambio di colore delle foglie ritarda ogni anno sempre di più?

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    Natura Perché il cambio di colore delle foglie ritarda ogni anno sempre di più?

    Con i cambiamenti climatici il tipico cambio di colorazione delle foglie degli alberi, dal verde estivo al giallo-arancione autunnale, arriva sempre più tardi.

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    Mentre gli alberi si preparano all'inverno, le foglie cambiano colore e cadono. LilKar | Shutterstock


    I colori dell'autunno sono una delle più incredibili manifestazioni della bellezza della Natura: negli Stati Uniti ogni anno le tinte rosse, arancioni e gialle degli alberi della zona del New England attraggono migliaia di visitatori. Ma questo cambio di colorazione delle foglie - il foliage -, abbandonate a se stesse dagli alberi che si preparano all'inverno, è un processo delicato, che risente dei cambiamenti climatici non naturali e degli interventi dell'uomo sul territorio: in un articolo su The Conversation Marc Abrams, esperto in scienze forestali, spiega perché il passaggio dal verde estivo al giallo/rosso autunnale avviene sempre più in ritardo.


    TROPPA ACQUA, TROPPO CALDO, TROPPA CO2.
    Alla base c'è il cambiamento climatico indotto dalle attività umane con l'aumento delle emissioni di anidride carbonica (CO2) e altri gas serra: a causa dell'aumento di CO2, della piovosità e del caldo in una determinata regoine, le piante crescono molto di più. A contribuire all'eccessiva crescita degli alberi ci sono appunto gli alti livelli di CO2 in atmosfera: il carbonio alimenta infatti la fotosintesi clorofilliana, processo biochimico che permette alle piante di nutrirsi e crescere. Tuttavia «esistono dei limiti naturali entro i quali le piante possono compiere la fotosintesi», spiega Abrams: a mano a mano che aumentano le concentrazioni di CO2 in atmosfera, diminuisce la capacità delle piante di utilizzarla - questo fenomeno è conosciuto come saturazione da CO2.

    BASTA CRESCERE
    ! Tutto questo influisce sul foliage, che si verifica al termine della stagione di crescita delle piante: quando smettono di produrre clorofilla, che tinge le foglie di verde, le piante si colorano di arancione, giallo e rosso grazie alla presenza di pigmenti naturali (carotenoidi, xantofille e antocianine). Se il periodo di crescita si allunga, si posticipa anche quello del foliage, che per ora nella zona nord-orientale degli Stati Uniti inizia con 10-14 giorni di ritardo rispetto al consueto.

    SEMPRE PIÙ A NORD. L'aumento della piovosità e del caldo, tra gli altri, favorisce anche la migrazione di alcune specie arboree verso nord e verso ovest: è ciò che accade, ad esempio, all'acero zuccherino (Acer saccharum), che si sta spostando sempre più verso il Canada settentrionale. «Per fermare i cambiamenti climatici è necessario aumentare la biodiversità delle foreste, utilizzando alberi che si adattino bene, vivano a lungo, producano semi e migrino nel tempo», afferma Abrams, che sottolinea l'importanza di "riprogettare" le foreste della zona orientale statunitense affinché si adattino a un nuovo clima.


    Le foglie ispessite dalla CO2 sequestrano meno carbonio atmosferico


    L'aumento di anidride carbonica in atmosfera rende più spesse le foglie, interferendo con fotosintesi e scambi gassosi: in parte si sapeva, ma nessuno ne aveva ancora tenuto conto nei modelli climatici.

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    Lo spessore delle foglie incide in parte sulla capacità di catturare CO2. Shutterstock

    In risposta alla crescita di anidride carbonica in atmosfera, le piante hanno una curiosa reazione: aumentano lo spessore delle loro foglie anche di un terzo, mutando il rapporto tra massa e superficie verde e di fatto alterando una serie di processi chiave, come fotosintesi, evaporazione, scambi gassosi, stoccaggio degli zuccheri.

    Negli ultimi anni, questo processo è stato osservato su gran parte delle piante che operano la fissazione del carbonio, cioè l'incorporazione del carbonio della CO2 atmosferica in zuccheri utili per la pianta, una delle fasi cruciali della fotosintesi clorofilliana. Si ispessiscono le foglie delle piante legnose così come quelle delle colture di base, eppure, finora, nessuno si era spinto a indagare le conseguenze di questo fenomeno fisiologico sul clima globale.

    CATTIVE NOTIZIE. Due ricercatori dell'Università di Washington hanno ora incorporato queste informazioni nei modelli climatici globali che tengono conto dell'aumento di CO2 previsto entro fine secolo. Si è scoperto che piante con foglie più spesse influiranno negativamente sul riscaldamento globale, perché meno efficienti nel sequestro di carbonio atmosferico. La scoperta è descritta sulla rivista scientifica Global Biogeochemical Cycles.

    Attualmente, la concentrazione di CO2 in atmosfera è di oltre 410 parti per milione (ppm). Se procediamo così, entro fine secolo potrebbe arrivare a 900 ppm. Nella loro simulazione, Abigail Swann e Marlies Kovenock, biologi specializzati in scienze atmosferiche, si sono comunque tenuti su livelli di CO2 un po' più cauti, 710 parti per milione.

    Ciò nonostante, il contributo della vegetazione alla cattura di anidride carbonica è parso meno rilevante del previsto: in questo scenario, infatti, rimarrebbero ogni anno nell'aria che respiriamo 6,39 miliardi di tonnellate di carbonio in più. Un livello che non si discosta molto da quello di carbonio immesso ogni anno in atmosfera a causa dei combustibili fossili (8,8 miliardi di tonnellate).

    ANCORA PIÙ CALDO. Le simulazioni indicano inoltre che le temperature globali potrebbero salire di 0,3-1,4 gradi aggiuntivi a causa di questo fenomeno. Le piante sono attori cruciali nella modulazione degli scambi gassosi atmosferici: se questo singolo parametro - lo spessore delle foglie - ha un impatto così significativo, allora anche altri elementi della fisiologia vegetale dovranno essere considerati, se vogliamo modelli climatici sempre più accurati.



    Le piante sono in fuga dai cambiamenti climatici


    Non solo gli esseri umani e gli animali: anche le piante "si spostano" dove il clima è più favorevole alla loro sopravvivenza. E quelle italiane migrano a nord.

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    Scalano montagne, attraversano mari e corsi d'acqua, discendono valli, mossi da un solo imperativo: sopravvivere. Milioni di alberi e altre piante, proprio in questo momento e sotto i nostri occhi (spesso incapaci di vedere), si stanno spostando, in fuga dai cambiamenti climatici. Anche i vegetali migrano, infatti, proprio come gli animali, percorrendo a volte migliaia di chilometri. È un fenomeno antico quanto la loro comparsa sul Pianeta, che oggi però sta assumendo proporzioni completamente nuove, a partire dalla velocità a cui la maggior parte delle specie dovrebbe spostarsi per riuscire a salvarsi. Una velocità circa dieci volte più elevata di quella, già estrema, osservata alla fine dell'ultima era glaciale, quando le piante hanno ricolonizzato il Centro Europa alla velocità di qualche centinaio di metri l'anno.

    Tempi lunghi, perché i vegetali non si spostano come gli animali. Non muovono infatti se stessi ma la loro progenie (i semi), dunque i loro "movimenti" sono legati alla riproduzione, alla capacità di ogni singola specie di disseminarsi e al ciclo vegetativo - che sono, per la maggior parte delle specie, più lenti di quelli degli animali. Oggi, per sopravvivere ai cambiamenti climatici, molte piante dovrebbero spostarsi in un anno di alcune centinaia di chilometri. Una velocità per loro impossibile, e questo nei prossimi cento anni metterà in discussione la sopravvivenza di un numero considerevole di specie. A meno che l'uomo non le aiuti.

    ALLA CONQUISTA DI NUOVE TERRE. «Proviamo a immaginare l'Europa Centrale di 14.000 anni fa», suggerisce Ivan Scotti (INRA, Istituto Nazionale di Ricerca Agronomica, Avignone, Francia): «forse ci verranno in mente grandi foreste incontaminate. Niente di più lontano dal vero. L'Europa, a quel tempo, era una steppa simile all'odierna Mongolia, dominata da una vegetazione rada e bassa. A un certo punto, però, le temperature iniziarono ad aumentare; in maniera relativamente rapida, cioè in appena 4.000 anni, l'Europa si trasformò in una gigantesca foresta. Gli alberi risalirono dalla penisola balcanica, dalla penisola iberica e dall'Italia, dove si erano rifugiati per ripararsi dai ghiacci, e riconquistarono le terre tornate disponibili. Oggi i cambiamenti climatici spingono le specie europee a una migrazione dello stesso genere, dal bacino del Mediterraneo al Centro Europa, che tuttavia richiede una rapidità molto superiore alle possibilità dei vegetali.»

    In tutto il mondo le temperature stanno salendo e i regimi delle piogge stanno cambiando, e questo spinge le piante a spostarsi dove il clima è più favorevole alla loro biologia. «È come se le foreste dalla zona mediterranea stessero "slittando" verso il Nord Europa», afferma Giovanni Vendramin (IBBR/CNR, Istituto di Bioscienze e Biorisorse). «Le querce, per esempio, si spostano verso i Paesi scandinavi, mentre piante mediterranee, come i lecci (Quercus ilex), tendono verso la parte centrale del continente. Gli alberi probabilmente troveranno più a nord il loro clima ideale, ma la domanda è: a sud, che cosa resterà? Forse arriveranno dal Nord Africa alcune specie, per esempio i cedri, ma a parte questo il rischio è quello di una maggiore incidenza dei fenomeni di desertificazione.»

    ALBERI D'ITALIA. Partendo dal sud dell'Italia, i lecci e la macchia mediterranea risalgono dunque la Penisola, mentre le specie dominanti al nord, come le querce (in pianura) o le conifere (sulle Alpi), si spostano a loro volta verso settentrione o salgono di quota, se si trovano in montagna. I ricercatori prevedono che alcune specie guadagneranno rapidamente spazio a scapito di altre: a vincere la competizione saranno le più resistenti e le più adattabili, perché i cambiamenti climatici non sono solo caratterizzati dall'aumento delle temperature, ma anche da un maggior numero di eventi estremi e imprevedibili come incendi, piogge torrenziali, siccità prolungate e inondazioni, che causeranno problemi supplementari agli ecosistemi. In Italia, a farla da padrone nei prossimi decenni, potrebbero essere alcune specie di abeti e cedri, la robinia, forse anche la quercia da sughero (che come alcuni pini è in grado di difendersi dalla siccità e dagli incendi).


    Per prevedere i movimenti delle piante, i ricercatori considerano i tempi di spostamento che la paleobotanica, studiando i fossili vegetali, ha registrato in occasione di cambiamenti climatici analoghi ma più lenti: le glaciazioni. Sempre ammesso che queste migrazioni siano possibili e non siano presenti ostacoli naturali o insediamenti umani o industriali.

    PRIMA CHE SIA TROPPO TARDI. «Le foreste europee sono già entrate in sofferenza e hanno iniziato a deperire», spiega ancora Scotti: «questo rappresenta un grave problema non solo per le foreste stesse, ma soprattutto per noi, perché dalle foreste dipendono la fertilità dei suoli, i cicli biogeochimici, il ciclo dell'acqua e di diverse sostanze minerali. Le foreste sono molto importanti per gli ecosistemi e rappresentano una parte consistente del benessere delle nazioni in cui si trovano: la storia ci dice che i Paesi che le tagliano impoveriscono rapidamente e, anche se non ci facciamo più caso, il legno è una materia prima essenziale. Quindi se al posto dei faggi a un certo punto cresceranno solo erbe e arbusti avremo parecchi problemi. Se non corriamo ai ripari, tra poche centinaia di anni nel Centro Europa potremmo ritrovarci con qualcosa di simile all'attuale macchia mediterranea.»

    Secondo gli esperti il leccio, che oggi vive bene in Italia, Grecia e Spagna, tra cinquant'anni troverà le temperature e il clima più adatti alla latitudine di Parigi, ma non può farcela a coprire quella distanza in appena cinquant'anni - gli ci vorrebbero molti secoli, ed è evidente che si estinguerebbe prima. Per sopravvivere ai cambiamenti climatici causati dall'uomo avrà quindi bisogno - come molte altre piante - dell'aiuto dell'uomo. Oltretutto, nelle foreste è concentrata larga parte della biodiversità: se non le aiuteremo a sopravvivere rischiamo estinzioni in massa, di vegetali e di animali.

    MIGLIORAMENTI GENETICI. «
    I primi esperimenti di migrazione assistita sono già iniziati», spiega Scotti, «e gli approcci perseguiti sono vari. Alcuni Paesi come il Canada hanno iniziato a piantare più a nord le specie che finora vivevano centinaia di chilometri più a sud, o fino a cento metri più in basso se parliamo di dislivelli, avvantaggiandole negli spostamenti in modo tale da farle "trovare pronte" quando i cambiamenti climatici diventeranno più severi. Altri Paesi, come la Francia, hanno invece scelto di conservare nelle foreste le specie già esistenti, cercando di renderle più "flessibili" grazie all'introduzione di esemplari della stessa specie adattati a climi più caldi e secchi; incrociando queste piante abituate a condizioni estreme con le popolazioni di alberi già presenti sarebbe possibile migliorarle geneticamente. È difficile, ma è una scelta che può avere un senso. Pensiamo alla foresta di abeti rossi di Paneveggio, nel Trentino, da cui Stradivari ricavava il legno per i suoi violini: sceglieva gli alberi con cura, tutti da lì, perché solo quel particolare legno risuonava come lui voleva. Garantire la perennità di quella foresta assume allora un grandissimo valore, anche culturale.»


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