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Gli sfiorati
Un film di Matteo Rovere. Con Andrea Bosca, Miriam Giovanelli, Claudio Santamaria, Michele Riondino, Asia Argento.
Matteo Rovere torna a provocare raccontando una generazione incapace allo svolgimento e alla pienezza
Marzia Gandolfi
Mète è un giovane uomo ossessionato da Belinda, figlia del padre e di una donna amata da vent'anni. Orfano di madre da pochi mesi, è costretto a partecipare alle nozze del genitore, e a prendersi cura per qualche giorno della sorellastra. Imbarazzato dalla sua ospite bionda, si costringe fuori e occupato con l'amico Damiano e il collega Bruno. Incallito donnaiolo il primo, padre separato il secondo, Damiano e Bruno lo distraggano da Belinda, sistemata sul suo divano con una t-shirt, un paio di mutandine e una sigaretta tra le labbra. Grafologo esperto e appassionato, approccia la vita come un tracciato grafico, alla ricerca di risposte comportamentali e di emozioni celate dietro la forma, sotto la pressione, dentro la dimensione della scrittura. Tra una perizia e un testamento contestato, sarà costretto a rincasare e a ‘trattare' chi aveva soltanto 'sfiorato'.
Quattro anni dopo Un gioco da ragazze, Matteo Rovere torna a 'provocare', adattando il romanzo omonimo di Sandro Veronesi sugli anni Ottanta e quello che ne restava. Provocato, attonito, immobile e rapito è ancora una volta un uomo che ondeggia sull'asfalto di Roma (ir)risolto a evitare un percorso di deriva verso l'autodistruzione. Autodistruzione che questa volta cederà il passo all'amnesia e alla rievocazione dentro una struttura narrativa circolare.
Trasposto e aggiornato al presente, Gli sfiorati mette in schermo una condizione esistenziale carezzata e mai assorbita, una generazione incapace allo svolgimento e alla pienezza. A incarnarne il corpo e la vocazione è Mète, vittima di allucinazioni e di un desiderio indicibile per Belinda, luce della sua vita e fuoco dei suoi lombi. Sfrontata e immobile, la sorellastra di Miriam Giovanelli è la ‘magnifica' interruzione nel flusso di scrittura esistenziale del grafologo, che cancella il mondo per nutrirsi solo della propria ossessione. Matteo Rovere, alla seconda prova, fa meglio, assistito dalla storia di Veronesi e favorito da un cast di attori credibili, dove a stonare è proprio il capoluogo dell'interesse, il polo magnetico del desiderio.
Troppo esplicita e dichiarata, la sensualità (e la sessualità) di Miriam Giovanelli non trattiene l'indecifrabilità della crescita e delle metamorfosi adolescenziali. Se la prosa di Veronesi riferiva di un corpo in bilico, com'è in equilibrio precario l'identità del protagonista tra i saldi valori borghesi e la fascinazione dell'incesto, la sua traduzione per immagini ha l'accessibilità convenzionale di una canzone di Ramazzotti, unico ‘eros' che domina il film e sembra fondare la ninfetta pigra e indolente. Ciondolante in mutande dal letto al divano, Belinda è ‘sfiorata' da uomini virtuosi che lottano contro le tentazioni, o viziosi che si scontrano con l'abitudine, tutti ugualmente sottomessi alla nevrosi della mobilità. Se Michele Riondino enfatizza la libido e (ri)conferma l'irresistibile verve seduttrice, Claudio Santamaria rivela una volta di più la sua ossessione ad approfondire scavando ovunque nel film, la singolarità è appannaggio di Andrea Bosca, in cui ‘noi (già) credevamo' nel Risorgimento di Martone. Con lui Rovere intuisce e trova lo spaesamento dello stare al mondo, l'ansia puerile di non farcela, l'ottusità tutt'altro che cieca ma carica di sensi e di senso. È Mète a cogliere il cuore dello ‘sfioramento', riconoscendo e facendosi riconoscere, rintanandosi e poi stanandosi, individuando il piacere (di vivere) in un punto intermedio tra la noia e la confusione.
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