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C'era una volta in Anatolia - Un film di Nuri Bilge Ceylan.

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    C'era una volta in Anatolia


    locandina


    Un film di Nuri Bilge Ceylan. Con Yilmaz Erdogan, Taner Birsel, Ahmet Mümtaz Taylan, Muhammet Uzuner Titolo originale Bir zamanlar Anadolu'da.


    Un poliziesco anomalo che indaga gli investigatori
    Nicola Falcinella


    Tre auto viaggiano nella notte nella provincia dell’Anatolia. Cercano qualcosa nell’oscurità: ogni collina, ogni albero potrebbero c_era_una_volta_in_anatolia_1essere il luogo giusto. Sono un commissario con i suoi poliziotti, un procuratore e un medico, conducono il sospettato di un crimine alla ricerca del luogo dove avrebbe sepolto il cadavere. Vagano senza risultati, si fermano a mangiare dal sindaco di un paesino, poi riprendono la ricerca.







    c_era_una_volta_in_anatolia_4
    All’alba trovano il corpo, lo caricano in auto e lo trasportano nella cittadina per farlo riconoscere dalla moglie ed eseguire l’autopsia.
    È un poliziesco molto anomalo il quarto film (su sei lungometraggi realizzati in carriera) che il regista turco Nuri Bilge Ceylan porta in concorso a Cannes, dove è stato già premiato per Uzak – Lontano e Le tre scimmie. Un’indagine lunga una notte che non serve a dare risposte sul crimine quanto, per i personaggi, a guardarsi intorno e guardarsi dentro. Bilge Ceylan fa un cinema di tempi dilatati (la pellicola supera le due ore e mezza) e di attenzione ai dettagli, riesce a esplorare l’animo dei suoi personaggi facendone uscire passato e sentimenti dai particolari. Il film è strutturato su tre parti, come in tre atti di Anton Checov (che il regista, autore della sceneggiatura con la moglie Ebru e con Ercan Kesal, cita nei titoli): nella prima il protagonista è il commissario Naci, nella seconda il procuratore Nusret, nella terza il medico Cemal. I dialoghi sembrano casuali, ma non lo sono, uno, quello più cruciale, viene interrotto e ripreso nel corso delle tre parti. Riguarda la storia di una donna che ha previsto la sua morte ed è deceduta esattamente il giorno che aveva predetto. Si scoprirà essere la moglie del procuratore, che ha preso una dose letale di droga. “Ho capito che a volte i suicidi sono atti di accusa verso chi resta” commenta il vedovo e il disilluso medico risponde: “lo sapevo già”. Così il procuratore si compiace di “somigliare” a Clark Gable, si aggiusta a più riprese i capelli e i baffi, per mascherare un fallimento esistenziale. E così gli altri due protagonisti. Il sospettato sembra di gomma, non reagisce quasi mai, è solo un pretesto per far uscire gli altri. Solo la moglie del morto mostra una grande dignità, mentre il figlio, un ragazzino, scarica la rabbia tirando una pietra in fronte al colpevole. Bilge Ceylan, come d’abitudine, chiede molto allo spettatore ma lo proietta in un viaggio ai bordi dell’abisso, in un continuo su e giù dalle colline, dove gli indagatori finiscono per indagarsi. Non a caso un punto di svolta, poco dopo metà film, è trasporto del morto. Non disponendo di un mezzo adatto, devono riuscire a far stare il cadavere nel bagagliaio di una delle auto. Nel farlo, nel piegarlo, finiscono per trovarsi nei panni di un assassino che lo vuole occultare. Il regista prosegue un cammino autoriale molto personale e di spessore e con questo lavoro conferma le sue grandi capacità di scrittura e di messa in scena.

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