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parafrasi del"Il passo di caronte" della divina commedia

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    parafrasi del"Il passo di caronte" della divina commedia


    “PER ME SI VA NE LA CITTA’ DOLENTE,
    PER ME SI VA NE L’ETERNO DOLORE,
    PER ME SI VA TRA LA PERDUTA GENTE.
    GIUSTIZIA MOSSE IL MIO ALTO FATTORE:
    FECEMI LA DIVINA POTESTATE,
    LA SOMMA SAPIENZA E ‘L PRIMO AMORE.
    DINANZI A ME NON FUR COSE CREATE
    SE NON ETERNE, E IO ETERNA DURO.
    LASCIATE OGNI SPERANZA, VOI CH’ENTRATE.”
    (Inferno, Canto III, vv. 1-9)

    Con queste parole, che Dante vede scolpite sulla sommità di una porta, si apre il Canto III dell’Inferno, in cui il poeta si trova proprio sulla soglia del mondo delle anime dannate. Queste frasi, dal senso così tremendo e oscuro, sono scolpite sopra la porta dell’Inferno; la porta stessa sembra personificarsi e parlare con la sua bocca che nasconde solo tormenti e dannazione eterna, predice il destino di coloro che stanno per oltrepassarla: attraverso di essa si entra nella città del dolore (l’Inferno, appunto), nel tormento perenne (senza fine), fra le anime dannate. La porta è una creazione di Dio (il mio alto fattore), il quale la costruì per rendere giustizia ai buoni (punendo i malvagi), e come tutte le altre cose create è segno della sua potenza, della sua sapienza e del suo amore; è inoltre eterna. Ma la frase lapidaria che conclude l’epigrafe è forse quella che più si fissa negli occhi di chi legge proprio per la sua ineluttabilità ed eternità: lasciate ogni speranza, voi ch’entrate, chi oltrepassa la soglia dell’Inferno non ne uscirà mai più (fatta eccezione, ovviamente, per Dante!).

    Il poeta rimane certamente turbato nel leggere questa promessa di dannazione, ma le sagge parole e il sorriso di Virgilio lo rassicurano. Ciò che gli si prospetta davanti a questo punto è una enorme massa di anime tormentate da mosconi, vespe e vermi; sono le anime degli ignavi, cioè di coloro che vissero “sanza infamia e sanza lodo”, senza meritare né una punizione né una ricompensa, senza ideali e senza interessi. Queste anime sostano in una zona che si chiama Antinferno, perché neanche i demoni le hanno volute con loro.

    Allontanandosi dagli ignavi, Dante si avvicina quindi all’Acheronte, il fiume che delimita l’Inferno vero e proprio (in greco, ‘fiume del dolore’), attraverso il quale le anime devono passare per essere poi destinate alla loro punizione eterna. E qui il poeta incontra il traghettatore di anime, il demonio Caronte con occhi di bragia (con occhi infuocati come la brace ardente), che ha appunto il compito di trasportare le anime oltre l’Acheronte. La figura di Caronte si ritrova anche nella mitologia pagana e nell’Eneide di Virgilio (Libro VI, dove si narra la discesa agli Inferi di Enea) esattamente con lo stesso gravoso ruolo. Dante, pur definendolo un ‘demonio’, ce lo descrive però molto umanamente come un vecchio, con barba e capelli bianchi per l’avanzata età:

    “Ed ecco verso noi venir per nave
    un vecchio, bianco per antico pelo,
    gridando: ’Guai a voi anime prave!
    Non isperate mai veder lo cielo;
    i’ vegno per menarvi all’altra riva
    ne le tenebre eterne, in caldo e ‘n gelo.
    E tu che se’ costì, anima viva,
    pártiti da cotesti che son morti’.”
    (Inferno, Canto III, vv.82-89)

    Caronte si rivolge alle anime dei dannati, ricordando loro il destino che le aspetta (non vedranno mai il Cielo, Dio, la beatitudine), e si accorge che fra loro c’è l’anima di un vivo, di Dante. Interviene allora Virgilio a spiegare che la presenza di un’anima viva è voluta dalla volontà superiore di Dio: vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole (così si vuole lassù, in Cielo, dove si può fare ciò che si vuole). E con queste parole, Caronte tace e riprende il suo eterno compito di nocchiero.
    Dante, sopraffatto da tanta emozione e tanto turbamento, perde i sensi; si risveglierà solo nell’Inferno vero e proprio.
    Fonti:
    http://dvaita-advaita.blogspot.it/2008/12/...nte-per-me.html

     
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