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Lea T: «Ora che lui non c'è più»

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    Lea T: «Ora che lui non c'è più»


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    Era un bambino di nome Leandro, figlio di un calciatore famoso come Toninho Cerezo. È diventato Lea T, la prima trans a sfilare in passerella. Ecco il suo mondo ora che è completamente Lea, dopo un'operazione
    di Paola Jacobbi


    Ho conosciuto Lea nel 2010. Stava diventando un «caso»: la prima top model trans. Nata come Leandro a Belo Horizonte (Brasile) trent’anni fa, figlio del calciatore brasiliano Toninho Cerezo, mi raccontò che aveva cominciato le terapie in vista dell’intervento chirurgico per diventare donna a tutti gli effetti. Mi promise che, quando sarebbe successo, mi avrebbe dato una seconda intervista. Poiché, da quel nostro primo incontro, Lea è diventata una star della moda che è andata persino da Oprah Winfrey e ha baciato Kate Moss sulla copertina di Love, pensavo se ne sarebbe dimenticata. Invece ha mantenuto la parola. Ecco il suo racconto. Le mie domande le ho tolte, non credo ne sentirete la mancanza.

    «Ti avverto. Il racconto è un po’ punk. L’operazione non è uno scherzo. E c’è da piangere, ma anche da ridere. Da dove comincio? Sì, comincio da mia madre, quella che mi ha messo al mondo maschio. Fino all’ultimo ha cercato di dissuadermi, ma per me era arrivato il momento. Oltre alle cure ormonali, mi ero fatta il seno e altre due piccole operazioni per femminilizzare i lineamenti del viso: ho limato fronte e mento. Sono arrivata a Bangkok, mi sono messa in albergo e ho cominciato a visitare le cliniche di cui mi avevano parlato altre trans. In Thailandia l’operazione per cambiare sesso è una specie di attrattiva turistica. Le cliniche sono tutte rosa a fiorellini, hai presente quello stile che in Giappone chiamano Kawai, quella roba tipo Hello Kitty? Ecco, così. L’operazione costa meno che altrove, è la Disneyland dei trans. Se sei uomo puoi diventare donna o viceversa per 15 mila euro. Mi hanno messo in mano dei menu, con il listino prezzi e i diversi servizi offerti. Tre o quattro tipi di vagina, con variazioni e optional per ogni intervento».
    «Il mio corpo era pronto, forse la testa non molto: in albergo, da sola, ho avuto degli attacchi di panico, non sapevo che fare. Poi mi sono detta: o adesso o mai più. Mia madre e mia zia mi hanno raggiunto e siamo andate in clinica. Nei giorni precedenti all’intervento, alcune ragazze operate mi incoraggiavano, dicendomi che è “una cosa tranquilla, vedrai, ti svegli con la vagina e tutto sarà più facile”. Un’altra, invece, ci ha chiamate tutte nella sua stanza e, in lacrime, ci ha detto di non farlo, che si soffre come animali e non ne vale la pena».
    «Tra mille dubbi, arriva il momento. È l’8 marzo, la festa della donna. Che ironia, eh? Su consiglio di un’amica già operata, la sera prima compio questo strano rito: mi guardo allo specchio e saluto il mio pene, lo ringrazio per i trent’anni passati insieme. La mattina, su una sedia a rotelle, mi portano verso la sala operatoria. Penso che è una nuova nascita, ma anche che quello è il corridoio della morte. Mi passano davanti le immagini della mia infanzia e giovinezza, quando ero solo Leandro, e poi questi miei faticosi, tormentati
    anni da trans. Penso che è tutto finito, ma che non so che cosa mi aspetta».
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    «Mi sveglio dopo quattro ore, mia madre è accanto a me, con la Bibbia in mano. Prega. Hai presente quella storia che dicono che, se uno squalo ti azzanna una gamba, all’inizio non senti dolore? Io non sentivo dolore, ma come se mi avessero toccata lì con qualcosa di strano, alieno. Il pene è come se ce lo avessi ancora ma chissà dove, come se fosse spostato e schiacciato da una mutandina troppo stretta. Al secondo giorno, i dottori ti costringono a guardare lì, con uno specchio. Orribile, da film dell’orrore. Poi iniziano le complicazioni: una necrosi, un’allergia agli antibiotici, dolore e morfina, morfina e dolore. Quando disinfettavo la ferita con i cotton fioc, urlavo. Tutte le mattine, dalle 9 alle 11, mi davano un dilatatore da spingere dentro a forza, una specie di stupro autopraticato».

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    «C’erano certe storie assurde. Per esempio, un signore giapponese che girava in gonnellina rosa e sandaletti da Barbie ma con le gambe tutte pelose. Aveva detto alla moglie che andava in vacanza. Sarebbe tornato a casa femmina. A furia di guardare lui, a guardare certe altre donnine giapponesi che erano lì a farsi mettere dei peni enormi, a guardare questa umanità confusa, convinta che la ricetta della felicità stia in quello che hai in mezzo alle gambe, ho cominciato a pensare che il mondo perfetto non è quello dove tutti hanno diritto a farsi operare per diventare uomo o donna. Il mondo perfetto sarebbe quello in cui, davvero, chi ha un disturbo d’identità come l’ho avuto io possa vivere serenamente, senza essere condizionato da questo manicheismo maschi o femmine, femmine o maschi perché, alla fine, se ci pensi, tutta questa ossessione per i genitali è limitata e superficiale. Gli esseri umani sono molto di più di un pene o una vagina».


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    «Sono passati sette mesi, ormai. Sto bene, anche se sono ancora un po’ debole. Però ho ricominciato a lavorare, ho sfilato a Milano e a Parigi. E ho anche ricominciato ad avere una vita sessuale, sì. Ho imparato a masturbarmi. Mi ha spiegato come fare passo dopo passo una mia amica al telefono, dal Brasile. Una specie di lezione di autoerotismo femminile. Sì, ho avuto un orgasmo. Ed è stato soddisfacente come quelli che avevo con il mio pene. Però la penetrazione, quella, ancora no. Sto aspettando l’uomo giusto ... perché, quando si parla di questioni di cuore, il corpo non c’entra proprio niente».


    L'intervista completa sul numero 42 di Vanity Fair in edicola dal 17 ottobre

    fonte:.vanityfair.it

     
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