Claudio Baglioni Forum - Un mondo in musica

amarcord."accadde oggi"

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    1° gennaio 2003 – Addio, Signor G

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    Non insegnate ai bambini
    non insegnate la vostra morale
    è così stanca e malata
    potrebbe far male
    forse una grave imprudenza
    è lasciarli in balia di una falsa coscienza.

    Non elogiate il pensiero
    che è sempre più raro
    non indicate per loro
    una via conosciuta
    ma se proprio volete
    insegnate soltanto la magia della vita.

    Giro giro tondo cambia il mondo.

    Non insegnate ai bambini
    non divulgate illusioni sociali
    non gli riempite il futuro di vecchi ideali
    l’unica cosa sicura è tenerli lontano
    dalla nostra cultura.

    Non esaltate il talento
    che è sempre più spento
    non li avviate al bel canto, al teatro, alla danza
    ma se proprio volete
    raccontategli il sogno di un’antica speranza.

    Non insegnate ai bambini
    ma coltivate voi stessi, il cuore e la mente
    stategli sempre vicini
    date fiducia all’amore: il resto è niente.

    Giro giro tondo cambia il mondo.
    Giro giro tondo cambia il mondo.
    **

    Il 1° gennaio 2003, esattamente dieci anni fa, Giorgio Gaber ci lasciava. E scavava un doppio vuoto nella mia vita. Da una parte – nel puzzle della memoria – veniva a mancare una delle tessere fondamentali della leggendaria Tv in bianco e nero che aveva lasciato nella mia infanzia e nella mia educazione un segno più profondo di qualsiasi giornata di scuola materna: il divertente Gaber che scherzava sulle dimensioni del suo naso e intonava con il Quartetto Cetra Non cantare, spara, e conduceva E noi qui, e andava ospite da Mina a Teatro 10, e cantava Lo Shampoo e mi faceva ridere e non capivo ancora che quello shampoo era il lavaggio del cervello del consumismo e delle ideologie spacciate con la stessa superficialità delle merci. Dall’altra, scompariva Il signor G che avevo scoperto «da grande», quello che non aveva nulla da imparare da Jacques Brel, quello che in anticipo su tutti scorticava l’ipocrisia della società e la miseria delle etichette politiche, quello di La libertà ma ancora di più quello di Io se fossi Dio, L’anarchico, Destra-Sinistra, e tanti altri pezzi di poesia e di letteratura e di satira prima ancora che di musica. Fino all’ultimo album postumo dal titolo perfetto, Io non mi sento italiano, con quella Non insegnate ai bambini che ho riportato sopra per intero perché è un manifesto ineguagliabile, e quel «date fiducia all’amore: il resto è niente», che schiaffo a ogni ascolto per un genitore come me.
    In questo decimo anno di vita di Vanity Fair, come vi ho spiegato ieri, sceglieremo ogni giorno un evento accaduto in quella data in uno degli ultimi dieci anni, e lo ricorderemo come il nostro giornale ha scelto di ricordarlo. Era doveroso iniziare con Gaber, e anno dopo anno Vanity Fair ha ricordato più volte questo artista – e coscienza critica, e uomo – insostituibile. Ma la volta che forse lo ha fatto più «da vicino» è stata con questa intervista di Enrica Brocardo a Ombretta Colli, la compagna voluta accanto fino alla fine, in barba alle critiche dei pensieri deboli che ritenevano incongruente il matrimonio tra Gaber e una politica di Forza Italia.


    È apparsa in un numero dell’ottobre 2007, alla vigilia di un omaggio che gli veniva dedicata da Milano, la sua città. E parte proprio dal suo rapporto con Milano.
    **
    «Neppure per le vacanze amava andare via… Una volta sola riuscii a convincerlo a fare una crociera. Ricordo che in programma c’era un tour delle moschee. Arrivati all’ultima, si rifiutò di scendere dalla macchina: “Vista una, viste tutte”, disse, “ti aspetto qui, poi me la racconti”». (…)
    Se non lavorava, che cosa faceva?
    «Niente, nel modo più assoluto. Fin dal giorno del nostro matrimonio, abbiamo sempre abitato nella stessa casa. Eppure, se gli capitava di rimanere due ore da solo, telefonava e mi chiedeva: “Dov’è lo zucchero?”». (…)
    Che cosa pensava delle donne in politica?
    «Non ha mai fatto differenze di genere in nessun campo. Stimava le donne e le rispettava sotto tutti i punti di vista. Per esempio, non avrebbe mai usato certe espressioni antipatiche».
    Tipo?
    «Dire di una donna “quella è una che la dà” non lo accettava nemmeno come battuta».
    C’entra col fatto che lei è sempre stata molto impegnata nel femminismo?
    «Pensi che, negli anni Settanta, organizzavo le riunioni femministe a casa nostra. Si parlava di tutto, dall’orgasmo al lavoro, e la regola era niente uomini. “Nessun problema, vado ad ascoltare un po’ di musica”, diceva mio marito. Un giorno, una mia amica lo scoprì mentre origliava. “È troppo interessante”, si giustificò lui».
    Era un uomo romantico?
    «Molto, a modo suo».
    In che senso?
    «Una volta mi fece trovare sul tavolo un grandissimo mazzo di dalie. Chiunque altro avrebbe detto “ti ho regalato dei fiori”, lui no. “Ho visto questa macchia di colori…”, disse. Mi infuriai. Ma, insomma, me lo vuoi dire o no che li hai comprati per festeggiare una ricorrenza?». (…)
    C’è un oggetto, qualunque cosa, di suo marito, alla quale è particolarmente legata?
    «Due. La sua fede, che adesso porto io, e un cuoricino di stoffa con sopra una frase che aveva fatto scrivere apposta per me: “Sempre per sempre”. Me lo regalò quando stava già male».
    Come le aveva chiesto di sposarlo?
    «Stavamo insieme da pochi mesi quando una sera, a tavola, mi disse: “Noi potremmo andare anche molto lontano”. “In Asia?”, chiesi. E lui: “Lontano nella vita”».
    Canta le canzoni di Gaber sotto la proverbiale doccia?
    «Non le canto, le penso».
    Cantate da chi?
    «Da lui».


    2 gennaio 2011 – Il ritorno di Matteo, che ha visto la guerra

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    Purtroppo i panettoni non sono arrivati : – ( »
    **
    A Buji, «uno sputazzo in mezzo a un deserto infestato dai talebani», poche cose funzionano come da programma. Basta un imprevisto per non far arrivare fin qui – il più isolato e vulnerabile avamposto dei militari italiani in Afghanistan – i panettoni che il Comando ha promesso per Natale. Soprattutto, basta un imprevisto per non far arrivare l’elicottero che ti doveva riportare alla Base Ice al termine del tuo turno di 3 settimane, il 28 dicembre, e così va a finire che il 31 sei ancora lì, e c’è uno scontro a fuoco, e proprio tu – Caporal Maggiore Matteo Miotto, 24 anni da Thiene in provincia di Vicenza, alpino come tuo nonno che della guerra ti diceva «bruta cosa bocia, beato ti che non te la vedarè mai» – vieni colpito mortalmente, e il 2 gennaio, invece di smaltire i postumi della festa di Capodanno come tanti tuoi coetanei, rientri in Italia dentro una bara avvolta in una bandiera.

    Neppure un mese prima, avevamo mandato lo scrittore Paolo Giordano e il fotografo Giuseppe Carotenuto proprio laggiù, in Gulistan. Avevano conosciuto Matteo e i suoi commilitoni in procinto di partire per Buji, avevano fotografato i loro volti e i loro sogni, e la frustrazione di fronte a chi pensava «che lo facciamo per soldi, i 130 euro in più al giorno per passare il Natale a Buji: ti sembra che ne valga la pena?». «Panettone all’inferno», avevamo intitolato il reportage. Quel panettone non arrivò mai.

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    Una scelta che non si può liquidare con superficialità. Anche oggi che in Gulistan i nostri soldati non ci sono più, anche oggi che gli italiani si stanno ritirando da quel Paese martoriato che, come notava Giordano, ha rispetto all’Italia «una differenza oraria di quattro ore e mezzo». Un dettaglio «assurdo e spaventoso». Come troppe cose, laggiù.



    6 gennaio 2011 – Il record di Checco



    «Abitate in Islam?»
    «L’Islam non è un Paese, è una fede!»
    «E non ti incazzare però»
    «Tu di dove sei?»
    «Di Cattolica»
    **

    Il 6 gennaio 2011, secondo giorno di programmazione, il film Che bella giornata, con Checco Zalone, raggiungeva i 7 milioni di euro di incasso e batteva il record del fine settimana di debutto per un film italiano. Record che sarebbe stato confermato: con 44 milioni di euro al botteghino, Che bella giornata ha stracciato il primato italiano precedente – La vita è bella di Roberto Benigni – e superato anche Titanic, piazzandosi secondo solo dietro a Avatar.

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    Intervistato da Vanity Fair, pochi mesi dopo, Luca Medici – vero nome di Zalone – si toglieva qualche sassolino dalla scarpa.
    «L’incasso del mio film è assolutamente sproporzionato rispetto al suo valore. Ma non è la prima volta che succede (…) La cosa assurda è che in questo piccolo mondo c’è tanta gente che guarda agli incassi come una diminutio. È immorale: fare un film dà lavoro a tante persone, gli incassi sono fondamentali (…) Sul set di Cado dalle nubi tutta la troupe – gente brava, ma romana e quindi sbruffona – mi guardava con diffidenza. Sul set del secondo film, quando dicevo una cosa avevo sempre ragione, e se facevo una battuta ridevano tutti. “Ragazzi, non prendiamoci per il culo”, ho detto dopo un po’ (…) È mai possibile che il cinema italiano sia stato, e in parte sia ancora, in mano a un reparto di geriatria?».



    5 gennaio 2008 – Goodbye, Harry Potter

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    «Resterete con me?»
    «Fino alla fine» rispose James.
    «Siamo parte di te» spiegò Sirius. «Invisibili a chiunque altro».
    Harry guardò sua madre.
    «Stammi vicino» sussurrò.

    **
    Era il 5 gennaio 2008 – 3 anni fa – quando uscì nel nostro Paese Harry Potter e i Doni della morte, settimo e ultimo romanzo nella saga del maghetto, e anche i fan italiani scoprirono l’epilogo della lotta tra Harry – aiutato dagli spiriti di suo padre James, di sua madre Lily e del suo padrino Sirius – e il perfido Voldemort.
    Di Harry Potter, forse il più sorprendente fenomeno nella storia della letteratura contemporanea, ci siamo occupati più volte a Vanity Fair. Tra le altre cose, con questa intervista a Daniel Radcliffe, il Potter cinematografico. Che all’epoca raccontava:
    di non essere gay come tanti mormoravano, ma di essere in compenso affascinato dal travestitismo;
    di prediligere le sbronze a base di tequila e Jagermeister;
    di fumare di nascosto;
    di passare i venerdì sera in mutande a guardare Tv spazzatura;
    di essere autore di poesie firmate Jacob Gershon, Jacob come il suo secondo nome, Gershon come il cognome ebraico della madre;
    di essere malato di disprassia, un disturbo della coordinazione fisica che gli ha impedito per esempio di imparare a nuotare e di andare in bicicletta;
    di essere grato al suo debutto teatrale in Equus – dove appariva in un nudo frontale che aveva generato la fin troppo facile battuta «Harry tira fuori la bacchetta magica» – per avergli fatto conoscere la sua prima fidanzata, Laura O’Toole.

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    Oggi, a 23 anni, Daniel ha archiviato dopo Laura due altre fidanzate, la «storica» Rosie Coker e la fiamma Erin Darke. Ha chiuso con l’alcool. Soprattutto ha dimostrato, con i suoi lavori teatrali e cinematografici – prossima in ordine cronologico, l’interpretazione del poeta beat Allen Ginsberg nel film Kill Your Darlings – di essersi scrollato di dosso l’etichetta del maghetto. E se non è una magia quella, ditemi voi che cos’è.

    fonte:10.vanityfair.it/

     
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