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Odissea, libro VIII, parafrasi
ODISSEA libro VIII, vv. 471-556
Parafrasi
Al Tridentier dalle cerulee chiome,
"Non ricercar da me. Triste son quelle
Malleverìe che dànnosi pe’ tristi.
Come legarti agl’Immortali in faccia
Potrei, se Marte, de’ suoi lacci sciolto,
Del debito, fuggendo, anco s’affranca?"
Questo rispose Vulcano al dio col tridente, dalle chiome bionde "Non chiedere a me. Sono tristeule promesse che si fanno ai tristi. Come potrei obbligarti, davanti agli dei, a fare qualcosa se anche Marte, fuggendo dai suoi impegni, se ne libera?"
"Io ti satisfarò", riprese il nume
Che la terra circonda, e fa tremarla.
E il divin d’ambo i piè zoppo ingegnoso:
"Bello non fôra il ricusar, né lice".
Disse, e d’un sol suo tocco i lacci infranse.
"Io ti soddisferò" riprese il dio che circonda la terra con il suo mare e la fa tremare. E il dio zoppo e furbo rispose: " Non sarebbe bello rifiutare, nè sarebbe possibile" e con un solo tocco spezza le corde.
Come liberi fûr, saltaro in piede,
E Marte in Tracia corse, ma la diva
Del riso amica, riparando a Cipri
In Pafo si fermò, dove a lei sacro
Frondeggia un bosco, ed un altar vapora.
Qui le Grazie lavaro, e del fragrante
Olio, che la beltà cresce de’ numi,
Unsero a lei le delicate membra:
Poi così la vestir, che meraviglia
Non men che la dea stessa, era il suo manto.
Non appena i piedi furono liberi Marte saltò in piedi e corse in Tracia, ma la dea amica del sorriso (Venere), mentre andava a Cipro, si fermò a Pafo, dove c'è un bosco a lei sacro e un altare che fuma (per le offerte).Qui le Grazie la lavarono e la unsero di olio profumato, che accresce la bellezza delle divinità: poi la vestirono in modo tale che il mantello sembrava meraviglioso quanto la dea stessa.
Tal cantava Demodoco; ed Ulisse
E que’ remigator forti, que’ chiari
Navigatori, di piacere, udendo,
Le vene ricercar sentìansi, e l’ossa.
Così cantava Demodoco; e Ulisse, insieme a quei forti rematori, quei navigatori famosi, si sentivano le vene e le ossa fremere di piacere.
Ma di Laodamante e d’Alio soli,
Ché gareggiar con loro altri non osa,
Ad Alcinoo mirar la danza piacque.
Nelle man tosto la leggiadra palla
Si recaro, che ad essi avea l’industre
Polibo fatta, e colorata in rosso.
L’un la palla gittava in vêr le fosche
Nubi, curvato indietro; e l’altro, un salto
Spiccando, riceveala, ed al compagno
La rispingea senza fatica o sforzo,
Pria che di nuovo il suol col piè toccasse.
Ma ad Alcinoo piacque vedere gareggiare Laodamante e Alio, da soli perchè nessuno osava combattere con loro. Velocemente presero in mano la palla, che l'ingegnoso Polibo aveva costruito per loro e aveva colorato di rosso. Uno lanciva la palla verso le nuvole scure, curvandosi indietro; e l'altro, spiccando un salto, la recuperava e la lanciava senza nessuno sforzo al compagno ancora prima che toccasse il suolo.
Gittata in alto la vermiglia palla,
La nutrice di molti amica terra
Co’ dotti piedi cominciaro a battere,
A far volte e rivolte alterne e rapide,
Mentre lor s’applaudìa dagli altri giovani
Nel circo, e acute al ciel grida s’alzavano.
Lanciata in alto la palla rossa, cominciarono a battere i piedi in terra, che ha allevato molti, e a fare giravolte rapide mentre gli altri giovani li applaudivano nell'arena e in cielo si alzavano alte grida
Così ad Alcinoo l’Itacese allora:
"O de’ mortali il più famoso e grande,
Mi promettesti danzatori egregi,
E ingannato non m’hai. Chi può mirarli
Senza inarcar dello stupor le ciglia?"
Allora il re di Itaca disse ad Alcinoo:"O tu che sei fra i re il più grande e famoso, mi hai promesso danzatori egregi e non hai mentito. Chi può guardarli senza rimanere stupito?
Gioì d’Alcinoo la sacrata possa,
E ai Feaci rivolto: "Udite", disse,
"Voi che per sangue e merto i primi siete.
Saggio assai parmi il forestiero, e degno
Che di ricchi l’orniam doni ospitali.
Dodici reggon questa gente illustri
Capi, e tra loro io tredicesmo siedo.
Tunica, e manto, ed un talento d’oro
Presentiamgli ciascuno, e tosto, e a un tempo,
Ond’ei, così donato, alla mia cena,
Con più gioia nel cor vegna e s’assida.
Eurìalo, che il ferì d’acerbi motti
Co’ doni, e in un con le parole, il plachi".
I commensali di Alcinoo gioirono e il re disse rivolto ai Feaci: " Ascoltate, voi che siete per stirpe e per merito i più illustri. Mi sembra molto saggio il forestiero, e degno di ricevere ricchi doni, come si conviene ad un ospite. Dodici capi governano questa gente nobile e io sono il tredicesimo. Ognuno di noi gli dia una tunica, un mantello e un talento d'oro, subito, e tutti insieme, affinchè, così adornato, venga gioioso alla mia cena e si sieda fra noi. Eurialo, che lo ha ferito con parole brusche, si faccia perdonare con dei doni e con parole di scusa"
Assenso diè ciascuno, e un banditore
Mandò pe’ doni, e così Eurìalo: "Alcinoo,
Il più famoso de’ mortali e grande,
L’ospite io placherò, come tu imponi.
Gli offrirò questa di temprato rame
Fedele spada che d’argento ha l’elsa,
La vagina d’avorio: e fu l’avorio
Tagliato dall’artefice di fresco.
Non l’avrà, io penso, il forestier a sdegno".
Tutti acconsentirono e mandarono ciscuno un servo con i doni, e così fece Eurialo: "Alcinoo, re grande e famoso, io calmerò l'ospite, come tu mi ordini. Gli offrirò questa spada di rame temprata, che ha l'elsa d'argento e il fodero d'avorio: e l'avorio fu tagliato al momento dall'artigiano. Credo che il forestiero non ne sarà offeso"
Ciò detto, a Ulisse in man la spada pose
Con tali accenti: "Ospite padre, salve.
Se dura fu profferta e incauta voce,
Prendala, e seco il turbine la porti.
E a te della tua donna e degli amici,
Donde lungi, e tra i guai, gran tempo vivi,
Giove conceda i desïati aspetti".
Detto questo mise la spada in mano ad Ulisse e gli parlò così: "Ospite, benvenuto. Se ti ho parlato in modo brusco ed incauto, mi scuso e che il vento si porti mia la mia voce. Giove conceda a te di rivedere tua moglie e i tuoi amici, dai quali vivi separato da molto tempo, tra mille guai"
"Salve", gli replicò subito Ulisse,
"Amico, e tu. Gli abitator d’Olimpo
Dìanti felici dì: né mai nel petto
Per volger d’anni uopo o desir ti nasca
Testo nella traduzione di Ippolito Pindemonte con parafrasi dei versi da 471 a 556..