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Il delitto perfetto - Un film di Alfred Hitchcock.

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    Il delitto perfetto

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    Un film di Alfred Hitchcock. Con Ray Milland, Grace Kelly, Robert Cummings, Anthony Dawson, John Williams .

    Si può compiere un delitto senza lasciare traccia? La domanda non ha realisticamente una risposta poiché un'impronta, un oggetto spostato, un evento non previsto, sono sempre in agguato. Alfred Hitchcock realizza, ispirandosi a un adattamento teatrale, un altro dei suoi capolavori, e alla stregua di Nodo allo gola, fa svolgere l'azione all'interno di una stanza, dove convivono bene e male.
    Tony Wendice ha sposato Margo per interesse. Fra di loro non c'è amore, solamente consapevolezza di un buon vivere. Tony vive agiatamente con i soldi della moglie, Margo è libera di avere una storia extraconiugale. Tuttavia il marito ha seri dubbi di poter gestire in futuro una ricchezza, e architetta con un ex compagno di università, Swan, l'omicidio della consorte. Come in ogni piano preciso in nel singolo dettaglio, qualcosa può sempre andare storto.
    L'abilità del maestro inglese si manifesta nel creare nello spettatore un sentimento di empatia, prima per un personaggio, poi per un altro, sostenuto dal continuo crescere della suspance. Se all'inizio chi guarda non nutre alcun sentimento di astio per il marito, consapevole, fra l'altro di essere tradito, nel corso del film cambia la propria visione. Il susseguirsi degli eventi diviene incessante e il pericolo al quale è soggetta la bellissima moglie, riconduce tutti alla ragione e alla giustizia. Imperdibile.



    Tratto dal lavoro teatrale di Frederick Knott, e sceneggiato dallo stesso commediografo, “Il delitto perfetto” non è un compitino svolto con leggerezza. Ciò che sorprende, nell’adattamento cinematografico, è la secchezza dello scritto, che va dritto al sodo (l’intrigo mistery) non curandosi troppo degli aspetti (e ce ne sarebbero stati da approfondire) sentimentalisti. Quello che invece si mantiene sono gli ambienti chiusi della rappresentazione. Nessuno che arei gli ambienti prima di soggiornarvi; piuttosto, i malintenzionati, tendono a chiudere porte e finestre per ricavare vantaggio dal silenzio e dalle ombre. La suspense incrementa e avanza veloce alla volta dell’imboscata tesa all’ignara Margot.

    Il livello dell’ironia è invece un po’ basso, e forse questa assenza pregiudica, a mio modo di vedere, il valore artistico del film. Una satira “vista da lontano”, messa in scena soprattutto per mandare volontariamente all’aria il piano delittuoso, si ha al momento dello scambio delle chiavi (perché tutte le chiavi si assomigliano, sembrano uguali) e al pettinarsi dei baffi dell’ispettore, soddisfatto e sorridente. Manca il classico humour à la James Stewart, l’attore feticcio del regista il quale vedeva riflettersi in lui tutta l’imbranataggine e l’inadeguatezza dei suoi complessi. Ray Milland è una specie di sostituto temporaneo, scelto forse per i toni estremamente freddi, disperati e tristi che traspaiono dal suo volto. Mentre Grace Kelly ha un’espressione che vorrebbe essere afflitta e tormentata, ma risulta più che altro inebetita.

    I colori usati durante il riconoscimento della sua colpevolezza, così enfatizzati da lampade rosse intermittenti a macchiarne il viso, richiamano certi acuti astrattismi de “La donna che visse due volte”. E c’è anche qui un primo piano a centro scena che racconta un itinerario giudiziario in poco meno di un minuto, facendo ricorso a una voce off che non lascia spazi a contraddittori sull’esame oggettivo delle prove. Sappiamo che il regista non crede molto nella giustizia. Ciò che premeva di più era forse passare sopra anche alla giurisdizione per fargli perdere importanza. E’ per questo che inquadra i poliziotti mentre vagabondano sui marciapiedi di Londra, “puntando” il crimine, in attesa di un misfatto che i loro occhi non sono in grado di percepire.

    Hitchcock, nel girare “Dial M for murder”, volle azzardare (e forse di questo se ne pentì) la nuova frontiera del 3D: un giochino che non portò molta fortuna ne’ agli incassi ne’ al coinvolgimento, visto che di per se i dialoghi erano più che sufficienti per creare la tensione necessaria. Inquietudine accentuata da un insieme di inquadrature che dal basso puntano verso l’alto (e viceversa), in un rimpallo di prospettive atto a richiamare l’attenzione dello spettatore e a generare in lui una minuta sensazione di vertigine. La tridimensionalità contribuì a monopolizzare l’interesse verso telefono, forbici, calze e chiavi: arnesi emblematici che divennero un poco più sinistri e imponenti.

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