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LA GRANDE BELLEZZA - film di Paolo Sorrentino,

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    LA GRANDE BELLEZZA

    locandina


    Un film di Paolo Sorrentino. Con Toni Servillo, Carlo Verdone, Sabrina Ferilli, Carlo Buccirosso, Iaia Forte

    Un carnevale escheriano, mai realmente tragico ma solo miseramente grottesco
    Dario Zonta


    Scrittore di un solo libro giovanile, "L'apparato umano", Jep Gambardella, giornalista di costume, critico teatrale, opinionista tuttologo, compie sessantacinque anni chiamando a sé, in una festa barocca e cafona, il campionario freaks di amici e conoscenti con cui ama trascorrere infinite serate sul bordo del suo terrazzo con vista sul Colosseo. Trasferitosi a Roma in giovane età, come un novello vitellone in cerca di fortuna, Jep rifluisce presto nel girone dantesco dell'alto borgo, diventandone il cantore supremo, il divo disincantato. Re di un bestiario umano senza speranza, a un passo dall'abisso, prossimo all'estinzione, eppure ancora sguaiatamente vitale fatto di poeti muti, attrici cocainomani fallite in procinto di scrivere un romanzo, cardinali-cuochi in odore di soglio pontificio, imprenditori erotomani che producono giocattoli, scrittrici di partito con carriera televisiva, drammaturghi di provincia che mai hanno esordito, misteriose spogliarelliste cinquantenni, sante oracolari pauperiste ospiti di una suite dell'Hassler. Jep Gambardella tutti seduce e tutti fustiga con la sua lingua affilata, la sua intelligenza acuta, la sua disincantata ironia.
    Anche Paolo Sorrentino, come molti registi dalla sicura ambizione, cade nella tentazione fatale di raccontare Roma e lo fa affondando le mani nel suo cuore nero, scoperchiandone il sarcofago da dove fuoriescono i fantasmi della città eterna, esseri notturni che spariscono all'alba, all'ombra di un colonnato, di un palazzo nobiliare, di una chiesa barocca. Un carnevale escheriano, mai realmente tragico ma solo miseramente grottesco, una ronde impietosa ritratta con altrettanta mancanza di pietà. A nessun personaggio di questa Grande bellezza è dato di evadere, e anche chi fugge lo fa per morte sicura o per sparizione improvvisa (ad esclusione del personaggio di Verdone, una sorta di Moraldo laziale, che si ritrae dal gioco al massacro tornando nella provincia da cui è venuto). Le figure di Sorrentino non hanno vita propria, sono burattini comandati da mangiafuoco, eterodiretti da una scrittura tirannica, verticale, sempre giudicante. Non hanno spazio di manovra, sembrano non respirare. Come fossero terrorizzati di non piacere al loro demiurgo, sembrano creature soprannaturali, evanescenti, eterne macchiette bidimensionali, schiacciate dall'imperativo letterario che le ha pensate. Con l'eccezione di quei personaggi cui è dedicato uno spazio più congruo come la Ramona di Sabrina Ferilli (davvero notevole) e il Romano di Carlo Verdone, gli altri animatori di questo circo hanno diritto a pochi concisi passaggi. Il domatore Jep Gambardella li doma tutti dispensando frusta e carota. La crisi di cui si dice portatore è senza convinzione, come i trenini delle sue feste, non porta da nessuna parte. Ma questa condanna sconfortata che cade su tutto e tutti, alla fine è assolutoria; e il ritratto di questa società decadente che si nasconde dentro i palazzi romani, mai visibile agli occhi di un comune mortale, sempre staccata dalla realtà, diventa solamente pittoresca.
    Il Fellini della Dolce vita, cui si pensa immancabilmente, aveva una pietas profonda verso i suoi personaggi, e quella compassione permetteva allo spettatore di allora come di adesso, di agire una qualche proiezione emotiva. La grande bellezza di Sorrentino è invece abissale, freddissima, distanziata, un ologramma sullo sfondo. A favorire questo distanziamento c'è anche l'approccio volutamente anti-narrativo, già sperimentato in This Must Be the Place, ma qui ancora più evidente. Citando Celine e il suo Viaggio al termine della notte, Sorrentino sperimenta una narrazione errante, fatta di continue effrazioni, smottamenti, deliberati scivolamenti da un piano all'altro, da una situazione all'altra, lasciando tracce, abbozzi, improvvisi vagheggiamenti. Alla storia preferisce l'elzeviro, l'affondo veloce, la critica sferzante e sempre erudita. Al dialogo preferisce un monologo straordinariamente punteggiato (e nel film si monologa anche quando si dialoga).
    La grande bellezza sembra essere un film geologico, come fosse l'affioramento improvviso di una stratificazione con i suoi tanti livelli sovrapposti e confusi; sembra essere un film archeologico, come fosse il ritrovamento di un'antica stanza romana con i suoi patrizi e le sue vestali. Sembra essere un film senile, come fosse la lettura postuma del diario di un vecchio dandy che ha vissuto nella Roma degli anni duemila. Sembra essere un film di fantasmi usciti dalla penna di uno scrittore fin troppo compiaciuto della sua arte e del suo mestiere. Infine, sembra essere la risposta erudita e d'autore al To Rome With Love, contraltare e vendetta alla cartolina di Woody Allen, con qualche traccia di troppo dell'impeto trascendentale di un Terrence Malick cattivo maestro.



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    “La grande bellezza” e il suo Oscar

    La grande bellezza, il film italiano diretto da Paolo Sorrentino, ha vinto l’Oscar al miglior film straniero. L’ultimo film italiano candidato all’Oscar fu La bestia nel cuore di Cristina Comencini, nel 2006, mentre l’ultimo a vincerlo fu La vita è bella di Roberto Benigni, nel 1999. Dopo aver ricevuto il premio, sul palco insieme al protagonista Toni Servillo e al produttore Nicola Giuliano, Paolo Sorrentino ha ringraziato le sue “sources of inspiration: Federico Fellini, Talking Heads, Martin Scorsese e Diego Armando Maradona”, Roma, Napoli e la sua famiglia.

    Il primo film italiano a essere premiato con un Oscar fu “Sciuscià” di Vittorio De Sica nel 1948, all’epoca si trattava di un “premio speciale”. Due anni dopo, sempre De Sica fu nuovamente premiato per il film “Ladri di biciclette”. Nel 1951 l’Italia vinse un premio onorario per “Le mura di Malapaga” (“Au delà des grilles”), una coproduzione con la Francia e con la regia di René Clément. Verso la fine degli anni Cinquanta il premio al film straniero divenne una vera e propria categoria degli Oscar e fu vinto nel 1957 da Federico Fellini con “La strada” e l’anno successivo per “Le notti di Cabiria”. Nel 1964 Fellini vinse nuovamente l’Oscar con “8½”, mentre l’anno seguente il miglior film straniero fu “Ieri, oggi, domani” di Vittorio De Sica. Nel 1971 Elio Petri vinse l’Oscar con il suo “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto” e l’anno seguente vinse Vittorio De Sica con “Il giardino dei Finzi-Contini”. Nel 1975, Federico Fellini vinse con “Amarcord” e nel 1990 Giuseppe Tornatore fu premiato per il suo “Nuovo cinema Paradiso”. “Mediterraneo” di Gabriele Salvatores vinse l’Oscar come miglior film straniero nel 1992 e nel 1999 fu il turno di “La vita e bella” di Roberto Benigni. “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino è il 14esimo film italiano a vincere il premio Oscar al miglior film straniero.


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